Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13334 del 01/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 01/07/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 01/07/2020), n.13334

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19599-2018 proposto da:

TRE ESSE ITALIA SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANISPERNA 95,

presso lo studio dell’avvocato STEFANO GUIDOTTI, rappresentata e

difesa dall’avvocato RENATO CICERCHIA;

– ricorrente –

contro

LPC SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EMILIO DE’ CAVALIERI 11,

presso lo studio dell’avvocato VALENTINA CATALDI, rappresentata e

difesa dall’avvocato DAVIDE IANNARELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7650/18/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE del LAZIO SEZIONE DISTACCATA di LATINA, depositata il

16/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 11/02/2020 dal Consigliere Relatore Dott.ssa RUSSO

RITA.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.- La s.r.l. TRE ESSE ITALIA, concessionaria del servizio di accertamento e riscossione per il Comune di Pontecorvo, ha notificato alla società LPC tre avvisi di accertamento per la TARSU, che la contribuente ha impugnato deducendo la carenza di motivazione degli avvisi, il difetto del presupposto impositivo poichè in ragione della sua attività (cartiera) produce rifiuti speciali autosmaltiti, la erroneità della tariffa e la non debenza delle sanzioni. Il ricorso della contribuente è stato accolto in primo grado. La società concessionaria ha proposto appello e la CTR del Lazio, con sentenza depositata in data 16.12.2017, ha confermato la sentenza impugnata, ritenendo che gli avvisi di accertamento non siano motivati, per assenza di “specificazione atta a supportare i rilevi della pretesa”; ha ritenuto inoltre che, data l’attività della società LPC, non sussiste obbligo di denuncia poichè il materiale cartario è sottoposto allo smaltimento speciale; che il Comune non può pretendere un tributo per un servizio non reso; che è illegittima la reiterazione della sanzione di omessa denuncia poichè una volta- accertata la posizione del contribuente la stessa rimane conosciuta ed acquisita; rileva inoltre che non avendo l’appellante depositato il contratto di affidamento del servizio del 4.8.2014 menzionato negli avvisi impugnati, deve ritenersi, in accoglimento della eccezione dell’appellata, che la concessionaria non abbia dimostrato la fonte dei propri poteri.

2.- Avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione la società concessionaria, affidandosi a sei motivi. Si è costituita con controricorso la società contribuente, insistendo nell’affermare che la concessionaria non ha dato prova del conferimento dei poteri di accertamento e riscossione. Assegnato il procedimento alla sezione sesta, su proposta del relatore è stata fissata l’adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., notificando la proposta e il decreto alle parti. La controricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RITENUTO

CHE:

3.- Preliminarmente sulla questione della sussistenza dei poteri di accertamento e riscossione, trattata nel motivo sesto del ricorso ma avente natura pregiudiziale. La ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in combinato disposto con al D.Lgs. n. 546 del 1, artt. 7, 18 e 57 con l’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. La parte deduce che non ha depositato agli atti il contratto di affidamento del servizio, menzionato negli avvisi impugnati, attesa la impossibilità di questo adempimento poichè il contratto è oggetto di sequestro penale; dichiara di aver depositato il contratto in proroga del 2017 e deduce che la sua legittimazione non è stata oggetto di contestazione in primo grado e la relativa eccezione è stata sollevata tardivamente, soltanto nella memoria di costituzione in appello. La controricorrente osserva di avere contestato la titolarità del diritto posto a base della azione e che si tratta di una mera difesa e non una eccezione, che può pertanto farsi valere anche in appello.

Il motivo è fondato.

Si deve premettere che l’applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52 (che regola la potestà regolamentare in base al quale il Comune può affidare ai soggetti di cui all’Albo dell’art. 53 le funzioni di accertamento e riscossione delle entrate, anche tributarie) comporta il trasferimento dal Comune al concessionario di tutti i poteri di natura sostanziale ed anche la legittimazione processuale.

Ora, è pacifico tra le parti che la sussistenza dei poteri di accertamento e riscossione non è stata contestata in primo grado, ma solo in grado d’appello dalla contribuente, parte appellata, la quale invece in primo grado ha contestato nel merito la fondatezza della pretesa impositiva e il difetto di motivazione degli avvisi, con ciò implicitamente riconoscendo che la TRE ESSE ITALIA fosse legittimata ad emetterli. La controricorrente per legittimare la propria tardiva contestazione fa riferimento alla pronuncia a sezioni unite di questa Corte (n. 2951/2016) ove, nel distinguere tra la legittimazione ad agire e la titolarità del diritto sostanziale oggetto del processo, si è affermato che le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso hanno natura di mere difese; tuttavia, nella stessa sentenza si è anche affermato l’onere dell’attore di allegare e provare la predetta titolarità trova un limite nel riconoscimento, o nello svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto. Ed invero, sebbene la mera difesa possa essere proposta anche in appello, “la presa di posizione assunta dal convenuto con la comparsa di risposta, può avere rilievo, perchè può servire a rendere superflua la prova dell’allegazione dell’attore in ordine alla titolarità del diritto. Ciò avviene nel caso in cui il convenuto riconosca il fatto posto dall’attore a fondamento della domanda oppure nel caso in cui articoli una difesa incompatibile con la negazione della sussistenza del fatto costitutivo” (Cass. s.u. 2951/2016, in motivazione). Se la difesa del convenuto è articolata in modo incompatibile con la negazione della titolarità del diritto, non gli è consentito in seguito, tanto meno in appello, proporre una nuova esposizione dei fatti questa volta compatibile con la negazione del diritto. In conformità con queste indicazioni la successiva giurisprudenza della Corte ha affermato che “La titolarità attiva o passiva della situazione soggettiva dedotta in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, così che grava sull’attore l’onere di allegarne e provarne i fatti costitutivi, salvo che il convenuto li riconosca o svolga difese incompatibili con la loro negazione, ovvero li contesti oltre il momento di maturazione delle preclusioni assertive o di merito”(Cass. 16904/2018).

Venendo quindi al caso che ci occupa, deve ricordarsi che il contribuente che impugna un avviso di accertamento ha l’onere di delimitare, tramite i motivi di impugnazione, l’ambito della controversia: il giudizio tributario è infatti un giudizio di impugnazione merito che devolve al giudice tributario la cognizione sulla pretesa tributaria ma nei limiti delle domande proposte e non è consentito alla parte ampliare il thema decidendum definito in ricorso, proponendo domande nuove, neppure con le memorie illustrative (Cass.1161/2019; Cass. 19806/2019Cass. 28770/2005).

Se pertanto non è consentito al convenuto svolgere in appello difese incompatibili con quelle prospettate in primo grado, a maggior ragione ciò non può essere consentito al contribuente che impugna l’atto impositivo e che pertanto ha l’onere di precisare sin dal primo grado le ragioni della sua contestazione.

4.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 200, art. 7, della L. n. 241 del 1990, art. 3 e della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. La parte lamenta l’errore in cui è incorsa la CTR nel ritenere gli atti non sufficientemente motivati deducendo che poichè il presupposto della tassa in esame è costituito dal possesso o detenzione di locali o di aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, l’atto di accertamento è congruamente motivato purchè contenga la corretta individuazione dei beni tassati, l’indicazione delle norme di legge applicate, l’indicazione del regolamento e delle delibere comunali che disciplinano il tributo, nonchè le tariffe utilizzate per determinare la tassa le sanzioni interessi. Deduce quindi che gli avvisi di accertamento impugnati, trascritti (o meglio scansionati) nel corpo del ricorso, contengono le predette indicazioni. Con il secondo motivo del ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 62, 63, 70 nonchè dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 40 e 46 del regolamento del Comune avente ad oggetto lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani. La parte evidenzia l’errore della CTR nel ritenere che non sussista il presupposto impositivo in ragione del dedotto autosmaltimento dei rifiuti Deduce che la mancata presentazione da parte del contribuente della denuncia preclude la possibilità di riconoscere l’esenzione di cui al D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 62,63 e 70. Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 62,65 e 70. La parte deduce che se è vero che spetta alla amministrazione dimostrare il fondamento della pretesa impositiva, il contribuente deve fornire la prova di una causa giustificativa della esenzione. E pertanto non si può affermare la erroneità della determinazione delle tariffe e che la zona non sia raggiunta dal servizio, non avendo il contribuente presentato la dichiarazione che consenta di verificare la ubicazione dei beni. Con il quarto motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 35 nonchè degli artt. 112 e 277 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. La parte deduce che poichè il giudizio tributario è un giudizio di impugnazione merito e non di impugnazione annullamento, la CTR non poteva limitarsi a annullare il provvedimento impositivo.

Questi motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono fondati in ragione di quanto appresso si dirà.

Il giudice di appello ha apoditticamente ritenuto il difetto di motivazione degli avvisi limitandosi ad affermare che essi risentirebbero della assenza di “specificazione atta a supportare i rilevi della pretesa” e che, data l’attività della società LPC, non sussiste obbligo di denuncia poichè il materiale cartario è sottoposto allo smaltimento autonomo.

Così facendo il giudice di appello ha errato nella individuazione e applicazione delle norme di riferimento e dei principi interpretativi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte.

Si deve infatti rilevare che gli avvisi di accertamento trascritti in ricorso indicano i beni, la loro ubicazione, la categoria, le superfici accertate, le tariffe e le norme di riferimento, nonchè la causale (omessa denuncia e omesso versamento della tassa) ed il periodo di riferimento. Per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’obbligo motivazionale dell’accertamento deve ritenersi adempiuto tutte le volte che il contribuente sia stato messo in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, in condizioni di esercitare il diritto di difesa, con cognizione dei fatti (Cass. 16836/2014; Cass. 22003/2014) In particolare in tema di TARSU questa Corte ha affermato che è sufficiente l’indicazione nell’atto della maggiore superficie accertata o della diversa tariffa o categoria ritenute applicabili, in quanto tali elementi, integrati con gli atti generali (quali i regolamenti o altre delibere comunali), sono idonei a rendere comprensibili i presupposti della pretesa tributaria (Cass. 20620/2019). La CTR commette inoltre un rilevante errore nell’affermare che non sussiste obbligo di denuncia perchè il materiale sarebbe autosmaltito. Il D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 62, comma 1, infatti pone a carico dei possessori di immobili una presunzione legale relativa di produzione di rifiuti, sicchè, ai fini dell’esenzione dalla tassazione prevista dal citato D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 2 per le aree che, in ragione di specifiche caratteristiche strutturali o di destinazione, non producono rifiuti o producono rifiuti speciali (smaltiti dallo stesso produttore a proprie spese), è onere del contribuente indicare nella denuncia originaria o in quella di variazione le obiettive condizioni di inutilizzabilità e provarle in giudizio in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione (Cass. 10634/2019; Cass. 19469/2014; Cass. 9790/2018). Grava quindi sul contribuente l’onere di fornire all’amministrazione comunale i dati relativi all’esistenza e alla delimitazione delle aree in cui vengono prodotti rifiuti speciali non assimilabili a quelli urbani, che pertanto non concorrono alla quantificazione della superficie imponibile (Cass. 21250/2017).

Il giudice d’appello ha mal governato questi principi, muovendo da presupposti apoditticamente affermati (che il materiale prodotto sia sottoposto allo smaltimento speciale) e da ciò traendo (l’inesistente) regola della non necessità della denuncia.

5.- Con il quinto motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 64 comma 1, art. 70 comma 2 e art. 74 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. La parte deduce l’errore della CTR nel ritenere non dovute le sanzioni per omessa denuncia perchè “una volta accertata la posizione del contribuente la stessa rimane conosciuta e acquista” mentre ad ogni anno solare corrisponde una autonoma obbligazione tributaria e quindi per ogni anno vi è una autonoma condotta omissiva.

Il motivo è fondato.

Il D.Lgs. n. 507 del 1993 consente al contribuente di limitarsi a denunciare le sole variazioni intervenute successivamente alla presentazione della dichiarazione originaria, senza dover rinnovare la propria dichiarazione anno per anno. Tuttavia, qualora l’originaria denunzia sia stata incompleta, infedele oppure omessa, l’obbligo di formularla si rinnova annualmente, in quanto ad ogni anno solare corrisponde un’obbligazione tributaria, con la conseguenza che l’inottemperanza a tale obbligo, sanzionata dal citato D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 76, comporta l’applicazione della sanzione anche per gli anni successivi al primo. D’altro canto, la protratta inottemperanza all’obbligo di presentare la denuncia non provoca la decadenza, per decorso del tempo, del potere del Comune di accertare le superfici non dichiarate che continuino ad essere occupate o detenute, ovvero gli altri elementi costituenti il presupposto della tassa (Cass. n. 25063/2019; Cass. n. 21337/2008; Cass. n. 22894/17). Anche di questo principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, ed al quale il Collegio intende dare continuità, il giudice d’appello ha fatto malgoverno.

Ne consegue l’accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata e non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, può decidersi nel merito rigettando l’originario ricorso della contribuente. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, mentre si compensano le spese del doppio grado di merito.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta l’originario ricorso della contribuente. Condanna la controricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.100,00 oltre accessori di legge e spese forfetarie. Compensa le spese del doppio grado di merito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 febbraio 2020.

Depositato in cancelleria il 1 luglio 2020

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