Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13290 del 28/06/2016


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Cassazione civile sez. III, 28/06/2016, (ud. 03/05/2016, dep. 28/06/2016), n.13290

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. DE MARCHI ALBENGO P. G. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27817-2013 proposto da:

F.L., (OMISSIS), FR.LU.

(OMISSIS), D.S.A. (OMISSIS),

F.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliate in

ROMA, VIALE GORIZIA 52, presso lo studio dell’avvocato ALBERTO

CESARE JANNONI SEBASTIANINI, che le rappresenta e difende giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

A.A. SPA, in persona del suo legale rappresentante pro-

tempore, Dott. R.M., elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA VESPASIANO 17A, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE

INCANNO’, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

e contro

L.F.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3652/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 25/06/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/05/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito l’Avvocato ALBERTO CESARE JANNONI SEBASTIANINI;

udito l’Avvocato GIUSEPPE INCANNO’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Avendo nel 2001 RICAM Srl convenuto davanti al Tribunale di Roma per responsabilità professionale il suo commercialista L.F. che le aveva fatto pagare imposte non dovute – commercialista il quale a sua volta aveva chiamato in causa per garanzia A. A. S.p.A. – l’adito Tribunale, con sentenza del 15 aprile 2004, respingeva la domanda per difetto di prova del danno che la società avrebbe subito in conseguenza.

Avendo la società proposto appello, la Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 2668/2011, poi passata in giudicato, lo dichiarava inammissibile – a seguito di una eccezione di difetto di legittimazione di RICAM Srl proposta dalla compagnia assicurativa in secondo grado – per avere la società perso la capacità di agire in giudizio e di impugnare essendo stata cancellata dal registro delle imprese dal 21 ottobre 1996.

Dopo la proposizione della eccezione da parte di Axa, peraltro, cioà nelle more del giudizio di secondo grado le ex socie di RICAM Srl, F.L., F.G., Fr.Lu. e D.S.A., citavano il commercialista davanti al Tribunale di Roma, chiedendo lo stesso risarcimento per responsabilità professionale che era stato chiesto nell’altro giudizio promosso dalla società estinta. Il Tribunale, con sentenza del 4 marzo 2009, dichiarava inammissibile la domanda per difetto di legittimazione attiva; le ex socie appellavano, e davanti alla Corte d’appello di Roma si costituiva anche la compagnia assicuratrice, restando invece contumace il L.. La corte territoriale rigettava l’appello con sentenza del 10 maggio-23 giugno 2013.

2. Hanno presentato ricorso F.L., F.G., Fr.Lu. e D.S.A., sulla base di due motivi, il primo denunciante violazione degli artt. 2495 e 2909 c.c. nonchè vizio motivazionale e il secondo violazione degli artt. 110, 299, 300, 302 e 344 c.p.c. nonchà ancora vizio motivazionale.

A.A. S.p.A., si difende con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso non à accoglibile.

3.1 Per comprendere appieno il contenuto dei due motivi, è opportuno dare atto, anzitutto, di come la corte territoriale è pervenuta al rigetto dell’appello proposto dalle attuali ricorrenti.

La corte, constatato il giudicato che si era formato nel giudizio instaurato dalla società ha affermato che le appellanti non avrebbero potuto far valere un diritto autonomo rispetto a quello esercitato in esso nel 2001 dalla RICAM Srl, potendo soltanto intervenire nel relativo giudizio di appello, perchè l’estinzione della società – decorrente dal 1 gennaio 2004 per coincidenza con l’entrata in vigore dell’art. 2495 c.c. come riformato dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 – aveva fatto perdere alla società la legittimazione ad impugnare. Richiama la corte territoriale S.U. 12 marzo 2013 n. 6071, per affermare che dal momento dell’estinzione della società per cancellazione dal registro delle imprese si attua un fenomeno successorio in capo agli ex soci alla società estinta per i debiti, ma anche, in contitolarità per i crediti. E poichè l’art. 2909 c.c. dispone che il giudicato valga per gli aventi causa, essendo appunto le ex socie aventi causa rispetto alla RICAM Srl ai sensi dell’art. 110 c.p.c. e art. 2495 c.c., la corte ha rigettato l’appello.

3.2 Nel primo motivo, allora, le ricorrenti osservano che la sentenza d’appello pronunciata nella causa avviata dalla società – cioà la sentenza n. 2668/2011 della Corte d’appello di Roma dichiarà inammissibile la domanda relativa alla responsabilità professionale del commercialista solo per difetto di legittimazione processuale attiva della società che sarebbe già stata estinta alla proposizione dell’azione in primo grado, desumendone che tale giudicato di rito non ha inciso sul diritto fatto valere dalle ex socie.

Anche la sentenza di primo grado dello stesso processo, risalente al 15-19 aprile 2004, e che rigettà la domanda della società non avrebbe effetto preclusivo: aveva infatti rigettato per difetto di prova dell’esistenza di danno in quanto era all’epoca ancora pendente giudizio tributario; essendosi poi questo concluso senza consentire alla società di recuperare nulla di quanto aveva perso per l’errore professionale del commercialista, il danno sarebbe divenuto certo.

Il secondo motivo non si discosta, in sostanza, da quello precedente, per cui può essere accorpato nel vaglio. Censura infatti il giudice d’appello per avere ritenuto che le ex socie non potessero agire autonomamente, affermando che dovevano intervenire nel grado di appello del giudizio instaurato dalla società e che il loro mancato intervento avrebbe fatto formare il giudicato anche nei loro confronti. Ma la società secondo le ricorrenti, non avrebbe avuto legittimazione fin dall’inizio del primo grado, e la sua mancata legittimazione a impugnare avrebbe reso l’intero gravame inammissibile. D’altronde l’estinzione della società non vale, ai fini del difetto di legittimazione processuale, dal 1 gennaio 2004;

la società sarebbe estinta dal 1996, per cui sarebbe stata impossibile una successione processuale a essa delle ex socie.

Inoltre l’art. 344 c.p.c. consente l’intervento in appello dei soli soggetti terzi che potrebbero opporsi ex art. 404 c.p.c., per cui l’unica possibilità rimasta alle ex socie sarebbe stata proprio l’azione autonoma.

3.3 La motivazione su cui la sentenza impugnata fonda il rigetto dell’appello non à in effetti, condivisibile.

Il giudice di merito prende le mosse da un noto intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte (le sentenze nn. 6070 e 6071 del 12 marzo 2013) in quanto attinente all’interpretazione dell’art. 2495 c.c. nel testo entrato in vigore dal 1 gennaio 2004 a seguito della riforma attuata dal D.Lgs. 6 del 2003. In esso, dato atto che dalla cancellazione dal registro delle imprese deriva l’estinzione della società sia di persone sia di capitali, si effettua una relativa assimilazione, appunto, tra le società di persone e le società che rivestono personalità giuridica. Anche per queste ultime, infatti, la sopravvivenza dei rapporti giuridici facenti capo alla società estinta si traduce in una sorta di rapporto successorio tra la società che si estingue e le persone (a loro volta fisiche o giuridiche) che ne erano state socie. E questo “fenomeno di tipo successorio”, come le Sezioni Unite stesse lo hanno definito, à bifronte, investendo sia i debiti sia i crediti. In particolare, sopravvivono i debiti della società e ciò a costo di frangere il limes della soggettività distinta, rispetto al quale tradizionale dispositivo giuridico si è evidentemente ritenuto di predominante valore la tutela dei creditori sociali. Pertanto gli ex soci “ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali” Ma sopravvivono anche, a parziale controbilanciamento dell’onere imposto agli ex soci, a favore di questi gli elementi attivi, ovvero si trasferiscono loro, in regime di contitolarità o comunione indivisa, “i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione”, con esclusione delle mere pretese, pur se azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione nel bilancio di liquidazione avrebbe richiesto un’ulteriore attività (giudiziale o stragiudiziale) del liquidatore, la mancata effettuazione della quale attesta la rinuncia ad essi della società che in tal modo ha optato per una più celere conclusione della procedura estintiva.

Il profilo sostanziale disegnato dalle Sezioni Unite si riverbera su quello processuale. La cancellazione della società dal registro delle imprese la estingue e pertanto la priva della capacità di stare in giudizio, realizzando un evento interruttivo che, secondo l’ordinaria disciplina di cui agli art. 299 c.p.c. e ss., può essere superato proprio in considerazione del ravvisato fenomeno successorio. Quindi, sussiste l’eventualità di “prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società ex art. 110 c.p.c. Ma nell’ipotesi in cui questa eventualità non si concretizzi, la stabilizzazione processuale viene meno alla conclusione del grado in cui l’evento interruttivo si è verificato: la prosecuzione del giudizio mediante impugnazione della sentenza che ha concluso il grado venendo pronunciata nei confronti della società pià non elude le conseguenze dell’estinzione, dovendo “provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità dai soci o nei confronti dei soci” (sulla stessa linea cfr. pure Cass. sez. 3, 9 aprile 2013 n. 8596 e Cass. sez. 5, 5 novembre 2014 n. 23574; si osserva poi per pura completezza, non rilevando in questa sede, che tale limitazione della stabilizzazione processuale al grado in cui si è verificato l’evento interruttivo è stata parzialmente dismessa dalla successiva giurisprudenza nomofilattica in considerazione dell’ultrattività del mandato ad litem: S.U. 4 luglio 2014 n. 15295;

Cass. sez. 3, 31 ottobre 2014 n. 23141; Cass. sez. 5, 17 dicembre 2014 n. 26495; Cass. sez.lav.18 gennaio 2016 n. 710).

3.4 E’ più che evidente che l’arresto richiamato dalla corte territoriale, qualora le ex socie si fossero costituite nel grado d’appello della causa avviata dalla società estinta per farne valere la successione, non avrebbe, nel caso di specie, “salvaguardato” le stesse dagli effetti del giudicato, come ritiene invece la corte.

La vicenda sostanziale e processuale à infatti diversa. La società come riconosce la corte territoriale, fu cancellata dal registro delle imprese il 21 ottobre 1996, ma, essendo entrata in vigore la riforma dell’art. 2495 c.c. il 1 gennaio 2004, solo a partire da tale data si estinse, conseguentemente perdendo ogni capacità processuale. L’evento interruttivo, però non fu denunciato nel grado in corso, ovvero nel primo grado, che sfocià nella sentenza del 15 –

19 aprile 2004 n. 12219 del Tribunale di Roma.

Questa sentenza, come si à visto, rigettà la domanda della società per difetto di prova dell’esistenza di danni derivanti dalla erronea condotta professionale del commercialista. Fu impugnata dalla società e la Corte d’appello di Roma, con la sentenza del 16 maggio-

28 giugno 2011 n. 2868, dichiarà inammissibile l’appello, per la perdita della capacità d’impugnare della RICAM S.r.l.

Essendo stata dichiarata inammissibile l’impugnazione con una sentenza di rito che è passata in giudicato, è parimenti passata in giudicato la sentenza di merito contro la quale la impugnazione era stata proposta (sul formarsi del giudicato su quel che è oggetto di una impugnazione risultata inammissibile cfr. p. es. Cass. sez. 3, 16 gennaio 2007 n. 840, Cass. sez. 2, 25 luglio 2005 n. 15558 e S.U. 9 gennaio 2000 n. 16). E il giudicato di merito ha investito le attuali ricorrenti, proprio per la loro qualità di ex socie della società estinta, rispetto alla quale, ex art. 110 c.p.c., hanno subito un fenomeno successorio, come affermato dalle Sezioni Unite nelle sentenze nn. 6070 e 6071 del 12 marzo 2013 sopra ampiamente richiamate. E’ dunque per questo, e non per l’omesso “intervento” (come non del tutto propriamente lo definisce la sentenza impugnata) delle ex socie nel grado d’appello del giudizio avviato dalla società che la domanda fatta valere nell’ulteriore giudizio da esse stesse attivato non può essere accolta, in quanto coperta dal giudicato, non essendo discusso che le attuali ricorrenti hanno fatto valere lo stesso diritto che era stato esercitato dalla società nel giudizio che aveva avviato nel 2001 (nella stessa esposizione nello svolgimento del processo presente nel ricorso si adduce che le attuali ricorrenti hanno citato il commercialista della società estinta L.F. per ottenerne la condanna “al risarcimento dei danni tutti subiti dalla RICAM S.r.l., e per essa dai suoi soci attori”: ricorso, pagina 2).

Nè d’altronde vanta consistenza l’argomento che lo stesso ricorso apporta – nell’evidente consapevolezza dell’essere insorto un giudicato di merito identificabile nella sentenza di primo grado della causa RICAM -, e cioè che non possono dedursi maggiori effetti preclusivi di quelli del giudicato di rito “dal giudicato conseguentemente formatosi in ordine alla sentenza di primo grado” emessa nel 2004 dal Tribunale di Roma in quanto questa avrebbe rigettato la domanda “esclusivamente perchè ritenuta – all’atto della emanazione della sentenza – ancora del tutto incerta, e quindi carente sotto il profilo probatorio, l’esistenza del danno” per la pendenza del giudizio tributario. Riporta al riguardo un breve stralcio della motivazione: “Non risulta se ed in quale misura il ricorso amministrativo pendente dinanzi la Commissione Tributaria Provinciale di Roma sia stato accolto o meno. In ogni caso il Giudicante rileva che, nell’eventualità di accoglimento integrale del ricorso amministrativo, la RICAM S.r.l. in liquidazione otterrebbe il recupero dell’importo richiesto e, dunque, non sussisterebbe danno” (ricorso, pagina 13; la frase viene riportata anche nella premessa a pagina 5); e a ciò aggiunge che il danno sarebbe “divenuto invece certo e pienamente dimostrabile solo successivamente all’emanazione della sentenza emessa dal Tribunale, in conseguenza dell’intervenuto rigetto in via definitivo della richiesta di rimborso” della società al giudice tributario. Si tratta, chiaramente, a tacer d’altro, di un argomento privo di autosufficienza, in quanto lo stralcio estrapolato dalla motivazione della sentenza suddetta – che peraltro dichiara che non è provato che il ricorso dinanzi alla CTP “sia stato accolto o meno” – non è certo sufficiente per escludere che si sia formato un giudicato sull’inesistenza del danno, tenuto conto, altresì che il giudicato ontologicamente copre il dedotto e il deducibile. E d’altronde le attuali ricorrenti, come sopra si à visto, hanno dato atto di avere proposto la stessa azione che era stata proposta dalla società nel 2001, senza innovatrici divergenze dal contenuto di questa (ancora ricorso, pagina 2).

Se, dunque, deve essere corretta ex art. 384 c.p.c., u.c., la motivazione dell’impugnata sentenza nel senso esposto, risulta peraltro da confermare il risultato cui è pervenuto il giudice d’appello, cioè il rigetto dell’impugnazione delle attuali ricorrenti. E per quanto appunto si è rilevato neppure il ricorso puà essere accolto. Peraltro, la particolarità della vicenda e il suo essersi verificata in un periodo di evoluzione normativa e giurisprudenziale costituiscono giusti motivi per compensare integralmente le spese processuali.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

PQM

Rigetta il ricorso compensando le spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 3 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2016

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