Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13286 del 18/05/2021

Cassazione civile sez. III, 18/05/2021, (ud. 13/01/2021, dep. 18/05/2021), n.13286

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 36321/19 proposto da:

O.G., elettivamente domiciliato a Roma, vie

dell’Università n. 11, (c/o avv. Emiliano Benzi), difeso l’avvocato

Alessandra Ballerini, in virtù di procura speciale apposta in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova 23.5.2019 n. 749;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13 gennaio 2021 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. O.G., cittadino (OMISSIS), chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. A fondamento dell’istanza dedusse di avere lasciato il proprio Paese alla volta della Libia, insieme ad uno zio, per cercare lavoro.

Aggiunse che in Libia venne perseguitato per motivi religiosi da persone che lo accusavano di avere intrattenuto una relazione affettiva con una donna di fede islamica; per timore abbandonò il negozio di sartoria aperto in Libia insieme allo zio, ma i suoi persecutori in seguito rapirono entrambi e li costrinsero in prigionia; riuscì ad evadere grazie una rivolta, ma nella fuga il proprio zio venne ferito e catturato di nuovo.

Proseguì riferendo che in seguito a tali eventi era stato accusato dai propri familiari, rimasti in Nigeria, di non aver saputo proteggere lo zio: sicchè, non potendo o non volendo per tale ragione tornare in Nigeria, decise di imbarcarsi alla volta dell’Italia.

3. La Commissione Territoriale rigettò l’istanza.

Avverso tale provvedimento O.G. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, ricorso dinanzi al Tribunale di Genova, che la rigettò con ordinanza 6.6.2018.

Tale ordinanza, appellata dal soccombente, è stata confermata dalla Corte d’appello di Genova con sentenza 23.5.2019 n. 749.

Quest’ultima, rilevato che il richiedente aveva ristretto in appello le proprie domande alla sola richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ritenne che:

a) il racconto del richiedente non era credibile;

b) il richiedente non aveva dimostrato alcuna integrazione in Italia;

c) nel paese di provenienza del richiedente non sussisteva alcuna “condizione estrema” (individuata dalla Corte d’appello in carestie, epidemie, avverse condizioni climatiche, guerra o conflitti civili), di per sè idonea a giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari;

d) il solo desiderio di migliorare le proprie condizioni economiche non poteva giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

4. Il provvedimento della Corte d’appello è stato impugnato per cassazione da O.G. con ricorso fondato su un motivo.

Il Ministero dell’interno non ha notificato controricorso, ma solo chiesto di partecipare all’eventuale discussione in pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con l’unico motivo il ricorrente lamenta sia la violazione di legge, sia “l’omesso esame della domanda di protezione umanitaria”.

Al di là di tali riferimenti, nella illustrazione del motivo sono contenute varie censure così riassumibili:

a) la Corte d’appello non ha preso in considerazione le vicende vissute dal ricorrente;

b) la Corte d’appello non ha considerato che in Nigeria esiste una sistematica violazione dei diritti umani;

c) la Corte d’appello non ha considerato che il ricorrente non ha più legami col proprio Paese;

d) la Corte d’appello non ha considerato il “pregevole percorso di integrazione socio lavorativa intrapresa dal ricorrente”.

1.1. Le censure a) e c) sono infondate: infatti la Corte d’appello, avendo ritenuto inattendibile il racconto del richiedente, correttamente non ha tenuto conto di quanto da questi riferito con riferimento ai trascorsi libici ed ai suoi legami con la famiglia di origine.

1.2. La censura b) è fondata, con la conseguenza che l’ultima censura ne resta assorbita.

Le Sezioni Unite di questa Corte, chiamate a stabilire come debba interpretarsi la nozione di “vulnerabilità” che costituisce il fondamento del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (nella disciplina applicabile ratione temporis), hanno affermato che tale presupposto di fatto può ricorrere in due serie di ipotesi (Sez. U., Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062 – 02).

Giustifica il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in primo luogo, la “vulnerabilità soggettiva”, e cioè quella dipendente dalle condizioni personali del richiedente (come nel caso, ad esempio, dei motivi di salute o di età).

Il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, tuttavia, può essere giustificato anche dalla “vulnerabilità oggettiva”: e cioè quella dipendente dalle condizioni del Paese di provenienza del richiedente.

Sussiste, in particolare, una condizione di vulnerabilità oggettiva quando nel Paese di provenienza del richiedente protezione sia a questi impedito l’esercizio dei diritti fondamentali della persona. Impedimento che non necessariamente deve essere di diritto, ma può essere anche soltanto di fatto.

1.3. Da ciò discendono due corollari.

Il primo è che la ritenuta falsità delle dichiarazioni compiute dal richiedente protezione impedisce di ritenere dimostrata una condizione di vulnerabilità soggettiva, ma non osta al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, là dove ricorressero le condizioni di vulnerabilità oggettiva.

E’ infatti evidente che una persona cui nel proprio Paese sia impedito l’esercizio dei diritti fondamentali non possa essere rimpatriata, a nulla rilevando che nel chiedere protezione abbia dimostrato la prudentia serpis, piuttosto che la simplicitas columbae.

1.4. Il secondo corollario è che la sussistenza delle condizioni di vulnerabilità oggettiva deve essere accertato d’ufficio, ricorrendo a fonti di informazione attendibili ed aggiornate sul paese di provenienza del richiedente: a meno che, ovviamente, il giudizio di inattendibilità non investa addirittura la provenienza stessa del richiedente.

1.5. Nel caso di specie, la Corte d’appello non si è attenuta a questi principi ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità.

In primo luogo, infatti, il giudice di merito ha rigettato l’appello soffermandosi a indicare le ragioni per le quali il racconto del richiedente doveva ritenersi non addetti (così la sentenza d’appello, pagina 9).

In secondo luogo la Corte d’appello, pur avendo compiuto un’ampia disamina della situazione sociale, politica ed economica della Nigeria, l’ha fatto da un lato utilizzando fonti del 2017, nonostante la sentenza sia stata deliberata due anni dopo (violando in tal modo l’obbligo di acquisire informazioni sul paese di origine tratte da fonti attendibili ed aggiornate); e dall’altro lato trascurando di accertare se i diritti inviolabili della persona siano o non siano, nel paese di provenienza del richiedente, gravemente compromessi in modo intollerabile.

1.6. La sentenza va dunque cassata con rinvio la Corte d’appello di Genova, in differente composizione, la quale tornerà ad esaminare la domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari indagando ex officio sulla esistenza o meno, in Nigeria, di una grave compromissione dei diritti umani fondamentali, ed avvalendosi a tal fine di fonti attendibili ed aggiornate.

2. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

(-) accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 13 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2021

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