Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13285 del 28/06/2016

Cassazione civile sez. III, 28/06/2016, (ud. 21/04/2016, dep. 28/06/2016), n.13285

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2159-2014 proposto da:

GARZANTI LIBRI SRL, (OMISSIS), S.A.,

elettivamente domiciliati in ROMA, V.RODI 32, presso lo studio

dell’avvocato EMILIA ROSA FARAGLIA, rappresentati e difesi dagli

avvocati GIORGIO FERRARI, LAURA CAVALLARI giusta procura in calce

al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MEDIASET SPA, in persona del procuratore speciale dott. ST.

P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CICERONE 60,

presso lo studio dell’avvocato STEFANO PREVITI, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO IZZO giusta procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3823/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 29/11/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/04/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito l’Avvocato LAURA CAVALLARI;

udito l’Avvocato CARLA PREVITI per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso, in

subordine la rimessione alle S.U.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Avendo Mediaset S.p.A. citato davanti al Tribunale di Milano S.A. e Garzanti Libri S.p.A. lamentando l’uscita d’un libro diffamatorio intitolato ” (OMISSIS)”, scritto dal primo ed edito dalla seconda e chiesta pertanto la condanna dei suddetti al risarcimento del danno e al pagamento di sanzione, ed essendosi i convenuti costituiti resistendo e chiedendo la condanna dell’attrice ex art. 96 c.p.c., con sentenza dell’8-14 aprile 2009 l’adito Tribunale, accertata la natura diffamatoria di affermazioni presenti nel libro e individuate nella motivazione, condannava solidalmente i convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale nella misura di Euro 25.000, oltre interessi dalla pronuncia al saldo, e condannava S.A. a pagare la sanzione pecuniaria L. n. 47 del 1948, ex art. 12 nella misura di Euro 2000, respingendo ogni ulteriore domanda attorea e compensando le spese.

Proponevano appello principale contro tale sentenza Garzanti Libri S.p.A. e S.A. e Mediaset S.p.A. proponeva appello incidentale. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 13-29 novembre 2012, rigettava l’appello principale e, in parziale accoglimento dell’appello incidentale, condannava solidalmente Garzanti Libri S.p.A. e S.A. a rifondere alla controparte le spese di primo grado, compensando poi per un terzo le spese del grado d’appello e condannando gli appellanti principali a rifonderne i due terzi a Mediaset S.p.A. 2. Hanno presentato ricorso Garzanti Libri S.p.A. e S. A., sulla base di tre motivi, il primo denunciante violazione dell’art. 1362 c.c. e ss. e formazione di giudicati contraddittori, il secondo denunciante violazione dei principi in materia di prova della diffamazione e del diritto di critica ex art. 115 c.p.c., comma 2, richiamando anche la notorietà del fatto e lamentando altresì violazione dell’art. 345 c.p.c., il terzo denunciante violazione del dovere generale di correttezza e buona fede, abuso dello strumento processuale, improponibilità della domanda, in riferimento all’art. 111 Cost., artt. 1175, 1181, 1375 e 2043 c.c. e art. 88 c.p.c..

Si difende con controricorso Mediaset S.p.A., affermando che il ricorso è inammissibile e comunque infondato.

Sia i ricorrenti sia il controricorrente hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è infondato.

3.1.1 Col primo motivo i ricorrenti muovono in effetti due censure alla sentenza impugnata. Addebitano anzitutto al giudice d’appello la violazione dell’art. 1363 c.c., che sarebbe stata commessa estrapolando la frase ritenuta diffamatoria – riguardante la mancanza di inchiesta giornalistica sulle numerose accuse di corruzione avanzate avverso Mediaset nei dieci anni successivi all’entrata in politica di B.S. – dal capitolo del libro in cui era collocata, fornendo quel capitolo, invece, un contesto che avrebbe dimostrato – se appunto vi fosse stata una corretta contestualizzazione – il vero significato, non diffamatorio nei confronti di B. e delle sue società bensì di critica al centrosinistra, proprio della frase (confermato anche dal titolo del capitolo, che era “(OMISSIS)”).

La censura, che invoca una norma – l’art. 1363 c.c. – attinente alla interpretazione negoziale, e non all’accertamento di un illecito extracontrattuale, dimostra comunque una evidente sostanza fattuale, presentando una versione del contenuto del libro alternativa a quella percepita dalla corte territoriale, e quindi chiedendo al giudice di legittimità, inammissibilmente, di verificare direttamente il capitolo in questione per rivedere l’accertamento sull’esistenza della frase diffamatoria operato, appunto, dal giudice di merito. Il quale, peraltro, su questo profilo ben motiva (come del resto aveva fatto il giudice di prime cure: lo si evince dalla trascrizione della sua motivazione a pagina 7 della sentenza impugnata), con una adeguata attenzione che non può definirsi artificiosa estrapolazione di un elemento di per sè insufficiente (motivazione della sentenza d’appello, pagina 20).

3.1.2 In secondo luogo, osservano i ricorrenti che all’udienza di precisazione delle conclusioni del 4 luglio 2012 fu prodotta la sentenza n. 2436/2011 del 26 agosto 2011 – emessa dalla stessa sezione seconda della Corte d’appello di Milano, con collegio presieduto dallo stesso presidente D.R.L. – riguardante un’altra causa di diffamazione promossa da Mediaset, la quale aveva negato l’esistenza di conti segreti offshore come nel presente giudizio. Nella sentenza impugnata non sono state ritenute notorie le circostanze relative a tali conti, mentre la suddetta sentenza del 2011 le aveva considerate come notorio, perchè aveva confermato la sentenza di primo grado n. 12869/2008, da cui risultava che le società del gruppo Fininvest erano notoriamente un’unica realtà facente capo a B.S. e che le accuse di corruzione rivolte a una di esse venivano imputate al gruppo senza distinzioni nel suo interno. Sostengono quindi i ricorrenti che si sono formati giudicati “praticamente” contraddittori per la pluralità di azioni giudiziarie esercitate da Mediaset in relazione allo stesso fatto;

e il collegamento tra i due giudizi sarebbe stato riconosciuto dal giudice d’appello a pagina 17 della motivazione della sentenza impugnata, “dove è riportata parte della sentenza di primo grado nella causa parallela e poi dichiarata inammissibile”. Qui viene richiamata dai ricorrenti, per sostenere l’argomento, S.U. 15 novembre 2007 n.23726 (per cui “la domanda di condanna della controparte al risarcimento dei danni per malafede nel comportamento processuale (consistente, nella specie, nel frazionamento di un unico credito in molteplici domande giudiziali) deve qualificarsi come domanda di condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c..

e, pertanto, attiene esclusivamente al profilo del regolamento delle spese processuali senza incidere sul valore della controversia”; e analogo insegnamento detta per il credito di valore), peraltro senza specificare quale sarebbe il contenuto di tale arresto che abbia correlazione con l’argomento suddetto.

In realtà, il giudice d’appello, a pagina 17 della motivazione della sentenza impugnata, non riconosce quel che adduce la doglianza in esame. In questa pagina, invece, non sussiste neppure una motivazione nel senso stretto del termine, poichè è integralmente dedicata alla illustrazione delle censure versate nell’appello incidentale da Mediaset.

E vi è di più. Non sussiste infatti il preteso contrasto tra giudicati così come denunciato dai ricorrenti, perchè (v. pagine 21ss. della sentenza impugnata) la Corte d’appello prende in considerazione la sentenza n. 12869/2008, che era stata poi confermata con il preteso giudicato contraddittorio (si noti che lo stesso motivo lo qualifica “praticamente” contraddittorio), rilevandone la non producibilità in appello perchè pubblicata in tempo per essere prodotta all’udienza di precisazione delle conclusioni del primo grado e osservando che non era comunque indispensabile perchè “si limita a riportare l’opinione di un diverso Giudice di primo grado”; a ciò aggiunge poi la spiegazione sul perchè non potessero ritenersi fatti notori quelli così qualificati dalla difesa S.-Garzanti.

Deve altresì rilevarsi che questa parte del motivo non è autosufficiente, non riportando il contenuto della sentenza di secondo grado nè quello della sentenza di primo grado della pretesa causa parallela, ma effettuando un riferimento così generico che alla fine i due giudicati sono qualificati “praticamente” contraddittori (e ciò a prescindere dal fatto che quando il giudice d’appello si pronunciava sulla presente causa in essa non vi era ancora giudicato).

Il primo motivo è dunque infondato sotto entrambi i suoi profili.

3.2.1 Il secondo motivo – che, come ora ben si vedrà, propone una pluralità di doglianze ritorna in primo luogo sulla questione delle circostanze “notorie” relative ai conti segreti in paradisi fiscali di Mediaset, riportando la motivazione di rigetto del secondo motivo d’appello presente nella sentenza impugnata, e sostenendo che, a differenza di quanto afferma la corte territoriale, quando nel 2006 venne pubblicato il libro in questione già esisteva una fonte adeguata relativa alla frode fiscale correlata a tali conti: la richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura presso il Tribunale di Milano. E il rinvio a giudizio era stato pubblicato sul (OMISSIS).

Questo primo argomento non è autosufficiente, perchè non riporta quanto sarebbe stato pubblicato sul Corriere, nè tantomeno il contenuto, per quel che qui possa interessare, della richiesta di rinvio a giudizio cui si è fatto riferimento. D’altronde, anche se questi elementi fossero stati adeguatamente apportati nell’ambito del ricorso, la censura consisterebbe comunque – trattandosi di elementi fattuali – in una inammissibile richiesta di revisione, da parte del giudice di legittimità, dell’accertamento effettuato dal giudice di merito sulla notorietà dei suddetti conti offshore come strumento di frode fiscale quando fu pubblicato il libro.

3.2.2 In secondo luogo, in questo motivo si adduce violazione dell’art. 345 c.p.c., perchè la sentenza n. 12869/2008 non avrebbe potuto essere tempestivamente prodotta in primo grado, essendo stata pubblicata soltanto dieci giorni prima (cioè il 31 ottobre 2008) dell’udienza di precisazione delle conclusioni dell’11 novembre 2008 celebrata nel primo grado della presente causa: e quindi “non era ancora a conoscenza del pubblico nè disponibile in pochi giorni”.

Si tratta di un asserto apodittico con il quale i ricorrenti danno per certa la pubblica ignoranza della sentenza n. 12869/2008 prima della suddetta udienza di precisazione delle conclusioni; per di più, lo stesso motivo ammette che la pubblicazione era avvenuta, e non il giorno prima, bensì dieci giorni prima. Questo argomento non è quindi, evidentemente, idoneo a contrastare la valutazione di inammissibilità che il giudice d’appello ha effettuato a proposito della produzione di tale sentenza, giudicando sufficiente il tempo intercorso tra il 31 ottobre 2008 e l’11 novembre 2008, ovvero affermando che la sentenza “poteva essere tempestivamente prodotta in primo grado” (così la sentenza impugnata a pagina 21).

3.2.3 Il rilievo, poi, operato sempre dalla corte territoriale, che la sentenza in questione non fosse indispensabile per la decisione avrebbe secondo i ricorrenti integrato una erronea applicazione della norma abrogata dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, così ulteriormente contravvendosi all’art. 345 c.p.c. Si adduce infatti che, non essendo più vigente in forza dell’abrogazione il criterio dell’indispensabilità, sussisterebbe “una ulteriore violazione dell’art. 345 c.p.c.”.

Il riferimento è alla novellazione dell’art. 345 c.p.c. effettuata nel 2012, e precisamente dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modifiche nella L. 7 agosto 2012, n. 134. Riforma che neppure esisteva quando, con atto notificato il 9 dicembre 2009, fu proposto l’appello principale, cui vennero allegati i documenti nuovi chiedendo ex art. 345 c.p.c., comma 3, l’ammissione dei suddetti per indispensabilità (v. sentenza impugnata, pagina 13). E la L. n. 134 del 2012 entrò in vigore il 12 agosto 2012, divenendo così applicabile la riforma, peraltro, ai giudizi d’appello con ricorso depositato o con citazione di cui fosse chiesta la notifica dal trentesimo giorno dopo l’entrata in vigore, appunto, della legge di conversione.

E’ evidente allora la mancanza di correlazione alla effettiva situazione processuale della doglianza in esame: nessuna violazione del principio della indispensabilità dettato dall’art. 345 c.p.c. ratione temporis applicabile può desumersi da una successiva riforma che non ha alcun effetto retroattivo, e pertanto per nulla incide su un giudizio d’appello instaurato con atto notificato il 9 dicembre 2009. E non si vede neppure – si nota ad abundantiam – quale interesse possano avere i ricorrenti a questa censura, perchè la riforma del 2012 restringe rispetto alla normativa precedente, la possibilità di produrre in secondo grado documenti proprio rendendo irrilevante quella indispensabilità che gli stessi ricorrenti avevano addotto nel loro atto d’appello.

3.2.4 Osservano poi i ricorrenti che la sentenza n. 12869/2008 –

cioè la sentenza di primo grado della causa “parallela” – fu confermata dalla sentenza della Corte d’appello di Milano n. 2436/2011, adducendo l’ammissibilità di tale documento “avendo Mediaset prodotto l’atto d’appello”.

Anche in questo profilo, però, non si manifesta alcun interesse che lo sorregga, visto il risultato del precedente motivo sulla irrilevanza del contenuto delle sentenze della causa “parallela”: e la conseguente inammissibilità assorbe ogni ulteriore rilievo al riguardo.

3.2.5 Infine, adducono i ricorrenti che la titolarità da parte di Mediaset di conti offshore sarebbe stata notoria come risultante proprio dalle due sentenze della causa parallela, per cui il giudice d’appello sarebbe incorso sia nella violazione dei principi di prova della diffamazione sia nella violazione del diritto di critica; e in questa doglianza viene altresì inserita una censura di falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., che però risulta conformata con assoluta genericità assertiva soltanto come discendente dalla violazione (o consistente nella violazione stessa) del diritto di critica.

Questa conclusione di un motivo che, come si è visto, è adibito a contenitore di una congerie di censure, costituisce a ben guardare un ritorno alla tematica del primo motivo, al quale pertanto si rimanda, e dal quale viene assorbita.

Il motivo, in conclusione, non dimostra alcuna consistenza.

3.3.1 Il terzo motivo prende le mosse dal quinto motivo dell’appello incidentale proposto da Mediaset, per cui il Tribunale avrebbe deciso ultra petitum liquidando il danno patrimoniale, perchè Mediaset aveva chiesto solo l’accertamento dell’an al riguardo, con espressa riserva per il resto. La corte territoriale aveva accolto tale motivo e stabilito che, laddove il dispositivo di primo grado manifesta il “respingimento di ogni ulteriore e diversa domanda attorea”, deve intendersi limitato “alle sole domande espressamente formulate (e non accolte) (così la sentenza impugnata a pagina 25).

I ricorrenti sostengono che, in tal modo, il giudice d’appello avrebbe violato il principio della infrazionabilità della tutela giurisdizionale incorrendo altresì nella violazione dell’art. 111 Cost. e art. 88 c.p.c.; adducono inoltre che il frazionamento potrebbe generare giudicati (praticamente) contraddittori. La sentenza, quindi, dovrebbe essere cassata laddove riforma la sentenza di primo grado per il quinto motivo dell’appello incidentale di Mediaset; in subordine, dovrebbe essere cassata nella parte in cui ha dichiarato la nullità del capo della sentenza che ha respinto la domanda di risarcimento del danno patrimoniale.

A sostegno del motivo, vengono invocate la già citata S.U. 15 novembre 2007 n. 23726 e Cass. sez. 3, 22 dicembre 2011 n. 28286, quest’ultima insegnando, in completa conformità rispetto all’arresto delle Sezioni Unite, che “in tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, non è consentito al danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l’azione extracontrattuale davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale”.

3.3.2 La patologica fattispecie dell’abuso processuale, identificata nella artificiosa gravosità dell’iniziativa giudiziaria – che il più delle volte si concretizza nella parcellizzazione, o comunque nella dissezione processuale di un evento fattuale riconducibile ad una unità giuridica sostanziale – è oggetto di una crescente attenzione in particolare della giurisprudenza di legittimità – che ha assunto una correlata posizione di contrasto con venature sanzionatorie -, parametrabile all’attuale percezione dello strumento giurisdizionale civile, che, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, progressivamente vi ha sminuito l’incidenza del potere dispositivo dei privati per incrementare invece, in inversa proporzione e in contrappeso, la pregnanza degli interessi pubblici:

ciò con particolare riguardo, dopo la riforma dell’art. 111 Cost., non solo al rispetto del dovere alla solidarietà, ma pure alla concretizzazione del principio del giusto processo, inteso precipuamente proprio come effettività della tutela giurisdizionale, che ai suoi presidi sanzionatori connette appunto l’abuso del processo (al riguardo v., p. es., da ultimo, Cass. sez. 6-2, 18 marzo 2016 n. 5433, Cass sez 6-3 ord. 22 febbraio 2016 n. 3376 e Cass. sez.3, 7 ottobre 2013 n. 22812). In quest’ottica si è venuta a formare una definizione ormai tralatizia nel senso che l’abuso del processo consista nella utilizzazione di strumenti processuali per finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per cui li progetta il legislatore (tra i più recenti arresti v., ancora per esempio, nel settore concorsuale Cass. sez.1, 31 marzo 2016 n. 6277, S.U. 15 maggio 2015 n. 9935 e Cass. sez. 1, 13 febbraio 2015 n. 2949; nel settore tributario S.U. 16 gennaio 2015 n. 643 e Cass. sez. 5, 2 ottobre 2013 n. 22502; sulle tematiche della giurisdizione S.U. 18 novembre 2015 n. 23539 e S.U. ord. 24 aprile 2014 n. 9251).

Una frequente fattispecie di utilizzazione dello strumento per finalità difformi dalla ratio legislativa è, come già si accennava, quella su cui il motivo in esame intende fondarsi, ovvero l’artificioso – e dunque oggettivamente eccessivo e vessatorio per la controparte frazionamento processuale dell’unità sostanziale (in tal modo – si nota per inciso – la questione diventa limitrofa pure con la tematica della “compensazione” della non ragionevole durata mediante l’indennizzo ex lege L. n. 89 del 2001: sempre da ultimo cfr. Cass. sez.6-2, 9 febbraio 2016 n. 2587, Cass. sez.6-1, 28 luglio 2015 n. 15905 e Cass sez 1, ord. 3 maggio 2010 n. 10634).

L’alta marea dell’abuso processuale, dopo la nota e rilevante giurisprudenza invocata nel motivo in esame, ha quindi continuato a salire anche attraverso vari arresti successivi, sia confermando la natura abusiva del frazionamento del credito extracontrattuale (Cass. sez. 6-3, 21 ottobre 2015 n. 21318) e del credito contrattuale (Cass. sez.6-1, ord. 9 marzo 2015 n. 4702), sia espandendo il rinvenimento dell’abuso in altri settori (S.U. 10 agosto 2012 n. 14374 reputa abusiva l’ingiustificata pluralità di iniziative giudiziarie da parte di un avvocato contro la stessa parte assistita, così da integrare violazione dell’art. 49 del codice deontologico forense;

Cass. sez. lav. 11 marzo 2016 n. 4867 qualifica abusiva, in tema di licenziamento, la tutela giurisdizionale frazionata in due diversi giudizi, uno attinente ai vizi formali e uno ai vizi di merito, “con conseguente disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto”, perchè ciò viola i principi di correttezza e buona fede risolvendosi appunto in un abuso dello strumento processuale e in un contrasto con i principi del giusto processo; e per ulteriori ipotesi di frazionamento concretanti l’abuso del processo v., ancora nella giurisprudenza più recente, Cass sez. 1, 30 aprile 2014 n. 9488, Cass sez. lav., 15 marzo 2013 n. 6664 e Cass. sez 3, 14 febbraio 2012 n. 2111), sia peraltro, logicamente, ponendo freno ad una espansione erronea ovvero inaccettabile, che trova barriera in fisiologici segmenti del sistema (Cass. sez. 2, 18 maggio 2015 n. 10177, Cass. sez. 6-1 ord. 3 aprile 2013 n. 8170 e Cass. sez. 1, 1 marzo 2012 n.3207). Invero, la scissione in una pluralità di processi della stessa vicenda fattuale non è di per sè integrativa di un abuso del diritto, occorrendo valutare la concreta conformazione della fattispecie, id est accertare se tale scissione deforma la ratio dello strumento processuale essendo il frutto di una tattica vessatoria nei confronti della controparte e al tempo stesso confliggente con i principi, di pubblicistico rilievo, del giusto processo, o al contrario se è esente da simili moventi e connotazioni di slealtà e scorrettezza (cfr. art. 88 c.p.c.) ed è comunque consona a uno specifico dettato normativo.

In tal modo, allora, deve essere vagliato il caso in esame.

3.3.4 Imputano i ricorrenti a controparte un illegittimo frazionamento processuale in relazione al quantum del danno patrimoniale derivante dall’addotta diffamazione in ordine al quale Mediaset ha chiesto, nella presente causa, l’accertamento dell’an, unitamente alla domanda “completa” di risarcimento del danno non patrimoniale. E quindi mediante l’accoglimento del quinto motivo del gravame incidentale proposto da Mediaset il giudice d’appello avrebbe fatto propria la violazione dei principi, per così dire, antiabusivi insita nella condotta processuale di Mediaset, violazione che avrebbe portato alla suddetta scissione.

La questione del frazionamento come eventuale fonte di illecito processuale, invero, è stata affrontata dalla corte territoriale, la quale, dopo avere qualificato ultrapetizione il rigetto da parte del primo giudice di tutta “la domanda relativa al risarcimento patrimoniale per assoluto difetto di prova”, osserva che “le inerenti questioni relative al c.d. principio di infrazionabilità del credito – quale affermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità –

potranno semmai essere portate alla cognizione del giudice di merito di un eventuale futuro processo ma non possono essere trattate nella presente causa” (motivazione, pagina 25). E la “devoluzione” al giudice del quantum della tematica non integra uno sgravio elusivo del problema dell’abuso, bensì discende in modo logico dal centro della ratio decidendi, che è identificabile nei limiti concreti della cognizione, ovvero nella corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

E’ questo, infatti, il fondamento della decisione della corte: la violazione dell’art. 112 c.p.c. prevale, perchè la presenza di un abuso del diritto, se mai sussiste, non può comunque modificare, nel senso di un suo ampliamento, il thema decidendum, ovvero non può legittimare il giudicante a estendere ufficiosamente la sua cognizione a quello che non gli è stato sottoposto. La sussistenza di una scissione qualificabile manifestazione di una condotta abusiva del processo verrà quindi valutata là dove non si travalicano i limiti della regiudicanda, costituendo anzi proprio la porzione abusivamente frazionata l’oggetto della cognizione nell’ulteriore giudizio.

3.3.5 Può ben dirsi condivisibile l’affermazione che l’art. 112 c.p.c. non viene scardinato, nella sua funzione di norma identificativa del perimetro della decisione, dalla mancata proposizione completa della vicenda fattuale nella veste di azione giurisdizionale. Ogni principio deve, logicamente, contestualizzarsi con gli ulteriori principi del sistema, tra cui indubbiamente risiede quello della tendenziale non ufficiosità nella determinazione dell’oggetto della cognizione giurisdizionale, riflesso di una tradizione dispositiva che, pur essendo regredita nella sua incidenza, non è stata certo espulsa dall’ontologia del giudizio civile.

Nel caso in esame, peraltro, oltre l’art. 112 c.p.c. sussiste un ulteriore dato normativo atto a porre barriera alla qualificazione come abusiva della scelta processuale di Mediaset.

A differenza, infatti, di tutti i casi in cui la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha riscontrato abuso processuale in una scelta di scissione, quella attuata da Mediaset corrisponde a una fattispecie espressamente prevista nel codice di rito. La scissione tra il giudizio che accerta l’an e il giudizio che accerta il quantum di un credito è inequivocamente conferita come sua legittima facoltà al creditore dall’art. 278 c.p.c., nel senso della proponibilità della azione per condanna generica. L’azione che chiede condanna del debitore limitata all’an può infatti essere proposta fin dall’origine del giudizio, rientrando nel potere dispositivo del creditore riservare ad altro giudizio l’accertamento del quantum del suo preteso credito (Cass sez.lav. 20 marzo 1992 n. 3503; S.U. 23 novembre 1995 n. 12103; Cass sez 1 22 novembre 2000 n. 15066; Cass sez 2 4 aprile 2001 n. 4962; Cass sez 1 16 dicembre 2010 n. 25510; e da ultimo cfr. Cass sez 3, 20 febbraio 2015 n. 3366).

Anche qualora, pertanto, non fosse in gioco una questione d’ultrapetizione (vale a dire, in prima ipotesi, qualora, al contrario di quanto è avvenuto nella presente causa, ritenendo la limitazione del thema decidendum all’an del danno un abuso processuale, come i ricorrenti sostengono, il giudice rigetti la domanda così come è conformata, cioè esclusivamente sull’an;

oppure, in seconda ipotesi, dopo la decisione sull’an in accoglimento della domanda attorea, sia il giudice del quantum a ritenere abusiva la scissione effettuata) erroneo sarebbe ritenere abuso di processo una scelta come quella adottata da Mediaset.

La sussistenza di una norma specifica, infatti, esclude che la sua applicazione realizzi un abuso di processo (v. già Cass. sez. 1, 1 marzo 2012 n.3207, cit., che puntualizza come l’abuso del processo non possa consistere nell’esercizio di una specifica facoltà prevista dalla legge) salva, ovviamente, l’ipotesi di una prospettabilità di profili di illegittimità costituzionale in tale norma: il che, ovviamente, non conduce alla sua disapplicazione, bensì a suscitare l’intervento del giudice delle leggi. Nell’art. 278 c.p.c. non emerge nulla del genere (e infatti gli stessi ricorrenti al riguardo nulla adducono, limitandosi ad asserire una interpretazione restrittiva della norma che, come sopra si è visto, non trova riscontro nella giurisprudenza di legittimità). Il suo dettato è riconducibile alla tradizionale valorizzazione del potere dispositivo processuale della parte interessata, ma comunque non comporta una scissione che possa definirsi artificiosa e “patologica” dell’accertamento: la scissione si colloca invece su un naturale discrimen accertatorio, e questo la rende non esente da ragionevolezza, perchè le consente anche di favorire – al contrario dell’abuso – una eventualità di semplificazione acceleratoria della tutela giurisdizionale, avviando ad una conclusione conciliativa le parti per quel che concerne il quantum una volta che l’an è stato accertato.

Anche il terzo motivo, in conclusione, non presenta fondatezza.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con conseguente condanna –

solidale per il comune interesse processuale – dei ricorrenti alla rifusione al controricorrente delle spese, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna solidalmente i ricorrenti a rifondere al controricorrente le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 3000, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 21 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2016

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