Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13285 del 26/05/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 26/05/2017, (ud. 17/03/2017, dep.26/05/2017),  n. 13285

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3832/2012 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

C.V., rappresentato e difeso dall’Avv. Paolo Puccio, con

domicilio eletto in Roma, via Pompeo Magno, n. 1, presso lo studio

dell’Avv. Francesco Manzullo;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Sicilia, n. 170/24/10 depositata il 17 dicembre 2010.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 marzo 2017

dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle entrate ricorre, con tre motivi, nei confronti di C.V. (che resiste con controricorso), avverso la sentenza in epigrafe con la quale la C.T.R. della Sicilia – in parziale accoglimento dell’appello dell’Ufficio – ha ritenuto solo parzialmente fondato l’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio, in relazione all’anno d’imposta 1999, ha recuperato a tassazione ricavi omessi, costi non inerenti o non di competenza, e richiesto altresì il pagamento di ritenute d’acconto relative alle prestazioni di lavoro dipendente effettuate da n. 19 operai.

I giudici d’appello hanno infatti rilevato che, posto il fondamento presuntivo dell’accertamento, “nel caso di specie il contribuente, sin dal giudizio di primo grado ed in seno all’atto di costituzione in giudizio, ha dimostrato attraverso la produzione di prospetti di calcolo e con il richiamo a quanto prodotto, gli errori commessi dall’Amministrazione finanziaria, senza che l’Ufficio li abbia contestati. L’Ufficio si è limitato ad affermare che in mancanza di indicazioni da parte del ricorrente su dove questi ricorrono non era possibile pronunziarsi”.

Con riferimento poi alle ritenute d’acconto, osservano i giudici a quibus che, dalla prodotta sentenza n. 246/07 del Tribunale di Sciacca, giudice del lavoro, “si rilevano le prove che sono state addotte e valutate dal giudice del lavoro” e dichiarano di condividerne le conclusioni “ad eccezione di lire 96.745 (di) cui il contribuente non riesce a dare alcuna valida giustificazione”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate deduce violazione e/o falsa applicazione: dell’art. 111 Cost., comma 6; dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4; dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ.; del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1, comma 2, art. 36, comma 2, nn. 2 e 4, artt. 53 e 54, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Rileva che la suindicata motivazione – risolvendosi in un generico riferimento a presunti errori commessi dall’Ufficio (non meglio specificati) e limitandosi, per il resto, ad operare un rinvio alle difese del contribuente appellato (“I prospetti e le informazioni addotte”) -rende assolutamente impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento seguito per pervenire al rigetto dell’appello.

Anche con riferimento alle ritenute d’acconto non operate assume la ricorrente che la decisione impugnata denota l’assenza, da parte dei giudici regionali, di una autonoma valutazione delle risultanze del processo del lavoro, necessaria al fine di verificarne la rilevanza ai fini fiscali, e comunque non consente di ricostruire l’iter logico-giuridico seguito per pervenire al rigetto del gravame.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, in subordine, difetto assoluto di motivazione o motivazione solo apparente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione alle medesime lacune sopra evidenziate.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1, 2 e 7, nonchè dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 per avere omesso la C.T.R. di pronunciarsi sul rapporto d’imposta, non avendo indicato, dopo aver ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento impugnato, quale fosse il risultato meglio rispondente (in termini di maggiori ricavi da recuperare a tassazione) alle caratteristiche presentate dall’attività di impresa svolta dal contribuente nel periodo d’imposta considerato.

4. E’ infondata la censura – dedotta con il primo motivo di ricorso – di nullità della sentenza per mancanza di motivazione.

Non può infatti dubitarsi che una motivazione esiste e che non sia meramente apparente, consentendo la stessa di comprendere quale sia la ragione della decisione adottata (esistenza di elementi idonei a superare, sia pure in parte, la presunzione di maggior reddito imponibile e/o di maggiori ritenute).

Ciò vale certamente ad escludere la dedotta violazione dei doveri decisori di cui all’art. 112 cod. proc. civ. denunciata dall’amministrazione, che si configura soltanto nell’ipotesi in cui sia mancata del tutto da parte del giudice – ovvero sia meramente apparente – ogni statuizione sulla domanda o eccezione proposta in giudizio, mentre rientra nell’ambito dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la censura con la quale si deduca la mancata (o insufficiente o contraddittoria) valutazione di alcuni dei fatti (controversi e decisivi) posti a fondamento della domanda o della eccezione medesima (v. ex multis Cass. 07/04/2008, n. 6858).

5. E’ altresì infondato il secondo motivo.

La C.T.R. offre adeguata, ancorchè succinta, motivazione del convincimento espresso circa l’idoneità degli argomenti e degli elementi di prova offerti dal contribuente a superare la presunzione posta a fondamento dell’accertamento.

Occorre al riguardo rammentare che con sentenza n. 642 del 16/01/2015 le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che, nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), eventualmente anche senza nulla aggiungere e senza indicare la fonte, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sè, vietata (e neppure sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice), non essendo prescritta da alcuna norma (sostanziale o processuale) la originalità della sentenza nelle sue modalità espositive (e tantomeno nei contenuti).

Attraverso un ampio excursus il citato arresto mette in evidenza come l’evoluzione della normativa processuale e della giurisprudenza segnali una chiara tendenza verso una motivazione della sentenza che “non è più curiale ma piuttosto laico, funzionalista, in certa misura disincantato” e che, in tal senso, già nella precedente giurisprudenza di legittimità si era ammessa la motivazione per relationem con rinvio ad atti ben individuati e conosciuti o conoscibili (v. Cass. n. 13937 del 2002 e anche Sez. U, n. 16277 del 2010), da ritenersi perciò parte integrante della motivazione senza necessità che essi siano trascritti, con la conseguente precisazione che in tal caso la completezza e logicità della sentenza devono essere giudicate sulla base degli elementi contenuti nell’atto al quale si opera il rinvio, atto che, proprio in ragione del rinvio, diviene parte integrante di quello rinviante.

In tale prospettiva il rinvio operato dal giudice a quo, al fine di giustificare il convincimento espresso, ai documenti prodotti dalla parte (specificamente indicati, anche nel loro contenuto, nella parte narrativa della sentenza: “svolgimento del processo”), nonchè alla sentenza del Tribunale di Sciacca, giudice del lavoro, n. 246/07, il cui contenuto è anch’esso adeguatamente illustrato nella predetta parte espositiva, appare più che sufficiente, da un lato, a individuare il percorso logico seguito a tal fine, dall’altro, a consentire, attraverso la compulsazione dei documenti ritualmente prodotti e pertanto da presumere noti anche alla controparte, un pieno controllo circa la sua validità razionale ed efficacia argomentativa.

6. E’ anche infondato il terzo motivo.

Diversamente da quanto postulato dalla ricorrente, la sentenza impugnata non si limita a un mero totale annullamento dell’atto impugnato ma, ben diversamente, dichiara la indeducibilità parziale di alcuni costi, per ammontare specificamente determinato, e la parziale fondatezza del recupero delle ritenute d’acconto, anche in tal caso specificamente indicandone l’importo, con ciò pienamente assolvendo i doveri decisori che derivano al giudice tributario dall’essere anche giudice del rapporto, essendo pienamente consentito risalire da tali indicazioni all’esatto complessivo ammontare dell’imposta che si è ritenuta dovuta.

7. Il ricorso va pertanto rigettato con la conseguente condanna dell’amministrazione ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

PQM

 

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2017

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