Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13274 del 28/06/2016


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Cassazione civile sez. III, 28/06/2016, (ud. 23/03/2016, dep. 28/06/2016), n.13274

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10494-2013 proposto da:

V.G., (OMISSIS), domiciliato in ROMA,

V.CLITUNNO 51, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO MAZZA,

rappresentato e difeso dall’avvocato MATTEO D’ANGELO giusta procura

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE MONTORO SUPERIORE, in persona del suo Sindaco pro tempore Avv.

D.G.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

SANT’AGATONE PAPA 50, presso lo studio dell’avvocato CATERINA

MELE, rappresentato e difeso dall’avvocato FEDERICO ROMEI giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1415/2012 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 20/04/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/03/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito l’Avvocato CATERINA MELE per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con atto di citazione del 18 ottobre 2000 V.G. conveniva davanti al Tribunale di Avellino il Comune di Montoro per il risarcimento dei danni da lui patiti per essere caduto in una strada resa scivolosa dal liquido defluente da un rigagnolo. Il Comune si costituiva, resistendo. Con sentenza n. 202/2007 il Tribunale, ritenendolo responsabile ex art. 2043 c.c., condannava il convenuto al risarcimento del danno nella misura di Euro 17.836,50, oltre agli interessi e alle spese di causa.

Avendo il Comune proposto appello contro tale sentenza, la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 16 marzo-20 aprile 2012 lo accoglieva, rigettando quindi la domanda del V..

2. Ha presentato ricorso il V., sulla base di sette motivi. Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., artt. 2730 e 2733 c.c., artt. 228 e 229 c.p.c. quanto alle pretese ammissioni confessorie che gli sarebbero state attribuite; il secondo lamenta vizio motivazionale al riguardo; il terzo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. quanto all’onere della prova del caso fortuito, e il quarto, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 2051 c.c. e omesso esame della domanda risarcitoria ex art. 2051 c.c.; il quinto motivo adduce ulteriore vizio motivazionale in relazione alla questione di cui al quarto; il sesto denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2051 e 2043 c.c., nonchè art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., D.Lgs. n. 285 del 1992, artt. 2 e 3 e R.D. n. 2506 del 1923, art. 5 in relazione alle quali il settimo motivo denuncia vizio motivazionale.

Si è difeso con controricorso il Comune di Montoro.

Sia il ricorrente sia il controricorrente hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è infondato.

3.1 Per meglio comprendere la sua effettiva sostanza, è il caso di esporre sinteticamente come si è sviluppata la sequenza processuale.

Nell’atto di citazione davanti al giudice di prime cure, come lo stesso ricorrente richiama nella premessa del ricorso, il V. aveva esposto di essere caduto scendendo dalla sua auto – che aveva parcheggiato a margine della strada – per essere scivolato su un “liquido limaccioso che, defluendo in un piccolo rivolo da una sorta di piccola sorgente a monte della stradina, discende lungo la zanella della stessa via, formando un piccolo rigagnolo costantemente umido e…molto viscido e scivoloso”, situazione che sarebbe stata “pericolosa per i pedoni” e non “percepibile tempestivamente nè altrimenti segnalata”. Aveva quindi addotto che “la situazione di oggettivo pericolo, causa dell’incidente descritto, non era in alcun modo segnalata, nè vi erano protezioni di sorta, e non erano nemmeno stati adottati i più elementari accorgimenti necessari per la sicurezza della circolazione e per la incolumità di terzi, tanto più che la fuoriuscita di acqua, origine della scivolosità, è costante e persistente”; e pertanto aveva chiesto il risarcimento dei danni al Comune per le suddette “omissioni”, qualificandolo responsabile ex artt. 2043 e 2051 c.c. e D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 21. Non avendo il Comune risarcito, il V. aveva dunque adito il Tribunale, che aveva deciso come sopra si è già riportato.

Il Comune aveva appellato per travisamento delle risultanze istruttorie (a suo avviso il V. era scivolato per avere tentato di camminare nella cunetta ai margini della strada), per mancanza di motivazione su tale fatto per il quale l’appellante non aveva responsabilità e per errata valutazione della non visibilità e della imprevedibilità.

La corte territoriale, con una motivazione sintetica (e soprattutto faticosamente percepibile, in quanto scritta a mano con una grafia di non agevole comprensione), ha accolto il gravame osservando che, nella comparsa di risposta del grado di appello “e, quindi, per confessoria ammissione” dello stesso V., risulta che questi, “subito prima della sua caduta”, camminava sul ciglio della strada a ridosso della cunetta, che era stata “definita dalla stessa sua difesa” come “un canale di scolo delle acque”. Ritiene la corte che da ciò emerga un “comportamento del tutto imprudente” del V., perchè il camminare a ridosso, se non dentro, del suddetto canale di scolo rendeva “prevedibile e comunque probabile” la scivolosità; e ciò soprattutto in un Comune collinare “ove sono notoriamente frequenti acque sorgive, ristagnanti e/o sovente melmose”; conoscenze che, del resto, al V. non avrebbero potuto mancare, essendo egli residente proprio in quel Comune. Inoltre, aggiunge la corte, il fatto che la caduta sia avvenuta, come adduce il V., quando questi è sceso dalla sua auto parcheggiatainon può condurre ad imputarla al Comune, perchè nel parcheggiare il V. “ben poteva e doveva prevedere quanto sopra e, comunque, era tenuto a verificare la natura del fondo sul quale si apprestava a scendere”.

Da tutto ciò il giudice d’appello deduce che non vi era stata alcuna insidia e tanto meno alcun trabocchetto, giungendo così al rigetto della domanda del V. in accoglimento del gravame.

3.2 Risulta chiaramente che l’esposizione dei fatti addebitati al Comune presentata nell’atto di citazione non è sussumibile in una fattispecie di omessa custodia ex art. 2051 c.c., nella quale tutto si incentrerebbe, quale fonte di responsabilità oggettiva, sul rapporto di proprietario/custode del responsabile con il bene da cui è sortito il danno, per cui, logicamente, al danneggiato graverebbe come onere probatorio soltanto l’esistenza dell’elemento danneggiante e il nesso causale tra questo e il suo danno (ex multis, particolarmente preciso e completo è l’insegnamento di Cass. sez. 3 19 febbraio 2008 n. 4279: “La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall’art. 2051 cc. ha carattere oggettivo e perchè possa configurarsi in concreto è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non presuppone nè implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositano, e funzione della norma è, d’altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d’uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Ne consegue che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito (da intendersi nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato), fattore che attiene non già ad un comportamento del custode (che è irrilevante) bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità. L’attore che agisce per il riconoscimento del danno ha, quindi, l’onere di provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, mentre il custode convenuto, per liberarsi dalla sua responsabilità, deve provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.”; su questa linea Cass. sez. 3, 25 luglio 2008 n. 20427 puntualizza che al custode “per andare esente da responsabilità non sarà sufficiente provare la propria diligenza nella custodia, ma dovrà provare che il danno è derivato da caso fortuito”; e il caso fortuito – che possa consistere anche nella condotta di un terzo o del danneggiato stesso è stato confermato pure dalla recentissima Cass. sez. 3, 18 settembre 2015 n. 18317 – libera dalla responsabilità il custode perchè svaluta la connessione tra la cosa da lui custodita e il danno a mera occasione, come rileva Cass. sez. 3 17 ottobre 2013 n. 23584; cfr. altresì Cass. sez. 3, 5 dicembre 2008 n. 28811, Cass. sez. 3, 24 febbraio 2011 n. 4476 e Cass. sez. 3, 19 maggio 2011 n. 11016). Al contrario, avendo l’attore lamentato che “la situazione di oggettivo pericolo, causa dell’incidente descritto, non era in alcun modo segnalata, nè vi erano protezioni di sorta, e non erano nemmeno stati adottati i più elementari accorgimenti necessari per la sicurezza della circolazione e per la incolumità di terzi, tanto più che la fuoriuscita di acqua, origine della scivolosità, è costante e persistente”, quel che addebita al Comune è una condotta di colpa generale (conforme alla specie della negligenza) o specifica (rispetto al D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 21) nella gestione della strada in prossimità di un flusso d’acque: vale a dire, il fatto prospettato nell’atto di citazione non è qualificabile come fondante una responsabilità ex art. 2051 c.c., bensì è riconducibile al paradigma di cui all’art. 2043 c.c. E in questo paradigma si innesta in effetti il vaglio della Corte d’appello, che esamina i fatti come rappresentati dallo stesso V. per dedurne l’assenza di nesso causale tra la pretesa condotta colposa del Comune e l’evento lesivo, che ricostruisce come derivato esclusivamente da quel che qualifica un “comportamento del tutto imprudente” del V., il quale, pur dovendo verificare secondo un canone di ovvia prudenza le caratteristiche del luogo dove andava a parcheggiare la sua auto e dove quindi sarebbe sceso per muoversi a piedi, e per di più essendo ben informato delle caratteristiche del luogo in quanto residente nello stesso Comune, sceglieva – attuando una vera e propria elezione di rischio, che spezzava ogni nesso causale dell’evento con la pretesa negligenza manutentiva del Comune – di parcheggiare e discendere dalla sua auto proprio in quel luogo scivoloso e limaccioso.

3.3 Alla luce di quanto appena rilevato, possono ora ben comprendersi nella loro infondatezza i motivi in cui si articola il ricorso, premettendo che è logico, e conforme alla necessaria concisione dell’apparato motivativo di cui va dotata ogni sentenza ex art. 132 c.p.c. e ex art. 118 disp. att. c.p.c., vagliare congiuntamente quelli che riguardano la stessa questione.

Il primo e il secondo motivo, allora, lamentano come vizio motivazionale e come violazione di varie norme (artt. 116 c.p.c., artt. 2730 e 2733 c.c., artt. 228 e 229 c.p.c.) il fatto che il giudice d’appello non avrebbe chiarito se la comparsa di risposta in secondo grado, contenente la confessoria ammissione su cui si sarebbe fondato, fosse stata sottoscritta anche dal V. e non solo dal suo difensore, dal momento che le ammissioni negli atti non firmati dalla parte sostanziale non possono assumere valore confessorio; e anche qualora il valore attribuito fosse esclusivamente indiziario, la motivazione non sarebbe adeguata.

Se è vero, a tacer d’altro, che una giurisprudenza consolidata insegna che solo agli atti processuali sottoscritti anche dalla parte è attribuibile valore confessorio (v. Cass. sez. 1, 23 luglio 1997 n. 6909, Cass. sez. 3, 26 marzo 1999 n. 2894, Cass. sez. 2, 13 dicembre 2001 n. 15760 e Cass. sez. L 13 gennaio 2004 n. 319), è peraltro ancor più evidente che nel caso di specie non occorre soffermarsi su questa prospettazione per vagliarne la sua concreta fondatezza, dal momento che – come si è visto nella ricostruzione della vicenda processuale di cui sopra – quello che effettivamente il giudice d’appello connette con la comparsa di costituzione in secondo grado altro non è, in realtà, che l’esposizione dei fatti propria dell’atto di citazione, così come risulta dalla premessa dello stesso ricorso. In tale atto, invero, si era appunto affermato che sulla strada c’era del liquido limaccioso derivante da un rivolo che sgorgava da una piccola sorgente a monte, rivolo sempre presente e sempre molto viscido e scivoloso. In sostanza, dunque, il ricorrente lamenta – con doglianza logicamente, prima ancor che giuridicamente, insostenibile – che il giudice d’appello abbia messo a presupposto della sua valutazione i fatti che egli stesso, come attore, aveva offerto alla conoscenza del giudice mediante l’atto introduttivo del giudizio.

I primi due motivi del ricorso, pertanto, non meritano accoglimento.

3.4 I successivi cinque motivi sono accorpabili, in quanto tutti relativi alla applicazione, al caso di specie, dell’art. 2051 c.c.:

il terzo motivo lamenta il mancato adempimento dell’onere della prova del caso fortuito, il quarto motivo denuncia l’omesso esame della domanda fondata sull’art. 2051, il quinto motivo rappresenta la stessa doglianza sotto forma di vizio motivazionale, il sesto ancora insiste – in questo caso aggiungendo peraltro alla responsabilità ex art. 2051 la fattispecie di cui all’art. 2043 – sull’omesso adempimento dell’onere della prova da parte del Comune, in riferimento all’art. 2051 quanto al caso fortuito, in riferimento all’art. 2043 quanto ai fatti impeditivi della sua responsabilità; e il settimo motivo, infine, presenta come vizio motivazionale le prospettazioni del sesto.

Ora, è evidente che per agire sulla base di una determinata norma non è sufficiente indicarla come qualificante dell’azione esercitata, occorrendo anche allegare i fatti che ne costituiscono il presupposto di applicazione (da mihi factum dabo tibi jus). Nel caso in esame, come già si è rilevato più sopra, quello che l’attuale ricorrente ha riversato nel thema decidendum in punto di fatto è qualificabile esclusivamente come presupposto della pura responsabilità aquiliana ex art. 2043 cc., addebitando colpa al Comune invece di connettere la pretesa al suo oggettivo rapporto di custodia con il bene risultato lesivo. Non sono, dunque, accoglibili i motivi in esame (a prescindere, per ora, da quanto si preciserà infra a proposito del sesto e settimo motivo), poichè questi partono tutti dall’asserto, come si è appena visto infondato, che il giudice dovesse decidere anche in ordine a una azione di responsabilità oggettiva ex art. 2051 c.c., non potendosi, d’altronde, ampliare quanto fattualmente allegato nell’atto di citazione in sede di appello, introducendovi elementi di fatto nuovi per supportare quella che, logicamente, nascerebbe così come domanda nuova inammissibile ex art. 345 c.p.c..

A proposito, infine, dell’unica doglianza che il ricorrente introduce (nel sesto e nel settimo motivo) in riferimento alla fattispecie realmente azionata, cioè a quella di cui all’art. 2043 c.c., deve osservarsi che il ricorrente definisce non condivisibile la pronuncia impugnata “quando esclude la responsabilità dell’Ente locale, sul ritenuto accertato presupposto della imprudenza del comportamento del ricorrente”, dando atto che il caso in esame potrebbe sì qualificarsi insidia/trabocchetto “con onere della prova della sua esistenza a carico del danneggiato”, ma tentando di neutralizzare ciò con la seguente argomentazione: “la responsabilità dell’amministrazione per danni conseguenti all’utilizzo di bene demaniale da parte del soggetto danneggiato non può essere limitata ai soli casi di insidia o trabocchetto, essendosi già chiarito che essi vanno intesi come meri elementi sintomatici della responsabilità pubblica, ma è ben possibile che la responsabilità stessa possa anche individuarsi nella singola fattispecie in un diverso comportamento colposo dell’amministrazione”, dal momento che non può limitarsi aprioristicamente la responsabilità della P.A. per danni subiti dagli utenti dei beni demaniali alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto. Quindi, una volta ritenuto applicabile l’art. 2043, in tal caso il danneggiato avrà l’onere di provare la “anomalia del bene demaniale, segnatamente della strada”, il che sarebbe di per sè idoneo a configurare il comportamento colposo dell’amministrazione, la quale avrà invece l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità: ovvero, “il comportamento colposo del soggetto danneggiato nell’uso di bene demaniale” che sia “idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso” (ricorso, pagine 16-17). E a questo punto il ricorrente passa a una serie di rilievi fattuali su quel che emergerebbe dagli atti, per concludere poi che ne verrebbero smentiti “quanto ritenuto dal Giudice di secondo grado e il presupposto della assenza di insidia”, completando la prospettazione mediante l’addebito al suddetto giudice, laddove ha attribuito al V. la conoscenza e la diretta esperienza della situazione scivolosa della strada, di essersi avvalso di “una inesatta nozione del notorio” in violazione dell’art. 115 c.p.c., per dimostrarlo nuovamente argomentando in inammissibili termini fattuali sulla ignoranza del V. (egli non sarebbe stato un abitante di quella zona e quindi non avrebbe avuto conoscenza delle particolarità e della pericolosità dei luoghi, come sarebbe risultato dalle testimonianze).

Ma, come già si è accennato più sopra, la Corte d’appello ha proprio esaminato la questione del nesso eziologico, operando naturalmente per accertare se la causa dell’evento dannoso è derivata dalle modalità con cui il Comune effettuava la manutenzione del bene demaniale ed alle relative conseguenze ovvero se la causa è identificabile in una condotta imprudente di chi di tale bene demaniale si è avvalso, mettendosi a camminare su una strada comunale affetta da determinate negatività che gli erano però pienamente note. Ed è stata quest’ultima la scelta del giudice di merito. Che poi il V. fosse o meno al corrente delle caratteristiche della stradina in cui è caduto, e in particolare dell’esistenza di un rigagnolo che la rendeva sempre scivolosa, costituisce ovviamente un accertamento fattuale, che il giudice d’appello ha espletato – fondandosi, in sostanza, sulla qualità di residente in quel Comune del V. -, e che il giudice di legittimità non ha il potere di revisionare, non essendo il suo giudizio configurabile come un terzo grado di merito, e rimanendo quindi riservato al giudice di primo e secondo grado ogni accertamento fattuale sostanziale, circoscrivendosi in tal caso la funzione di controllo del giudice di legittimità al vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. E il settimo motivo (per evidente refuso intitolato “secondo”) è privo di ogni specificità al riguardo, limitandosi ad esporre in rubrica la denuncia di una motivazione “omessa, apparente e/o insufficiente (contraddittoria-illogica)” – ovvero gravata di ogni ipotizzabile vizio -, e ciò in rapporto a “uno o più fatti controversi decisivi”, e ad illustrare questa omnicomprensiva rubrica nel senso che vi sarebbe un vizio motivazionale “intimamente legato” con quanto esposto nel sesto motivo dato che il giudice d’appello “assume la decisione censurata sull’unico presupposto della imprudenza della condotta del V.”: il che, evidentemente, non è affatto un vizio motivazionale. E, infine, il settimo motivo lamenta ancora che “non si riesce a comprendere, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito e che hanno portato alle censurate conclusioni, nè singolarmente considerate nè, a maggior ragione, in connessione l’una con l’altra, per giunta, in ragione dei raggiunti e riportati esiti istruttori” (ricorso, pagina 21). Una siffatta conclusione del ricorso è esemplare nel manifestarne la sostanza del tutto generica – non viene individuato alcun passo in cui la motivazione possa definirsi apparente o illogica; nè naturalmente può ritenersi omessa motivazione l’avere attribuito, come immediatamente sopra il ricorrente lamentava, l’evento dannoso alla imprudenza del V. – e parimenti l’obiettivo di un terzo grado di merito che è sotteso a tutte le doglianze del ricorso, poichè anche questa censura motivazionale finisce per dichiararsi formulata “in ragione dei raggiunti e riportati esiti istruttori”.

Anche i motivi terzo, quarto, quinto, sesto e settimo, pertanto, non meritano accoglimento.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 3.200, oltre Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2016

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