Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13267 del 18/05/2021

Cassazione civile sez. II, 18/05/2021, (ud. 13/07/2020, dep. 18/05/2021), n.13267

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20848/2019 proposto da:

K.M.A., rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe

Lufrano, del foro di Macerata e domiciliato in Roma, Piazza Cavour,

presso la cancelleria della Corte di Cassazione ovvero all’indirizzo

PEC del difensore iscritto nel REGINDE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato

e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 2425/2019 del Tribunale di BOLOGNA, depositato

il 27/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/07/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.

 

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– con provvedimento notificato il 15.02.2018 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bologna – Sezione Forlì Cesena rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;

– avverso tale provvedimento interponeva opposizione K.M.A., che veniva respinta dal Tribunale di Bologna con Decreto 27 maggio 2019, n. 2425;

– la decisione evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa per la protezione sussidiaria e umanitaria, in quanto le dichiarazioni del ricorrente sono apparse non plausibili laddove ha riferito, peraltro solo dinanzi al giudice di merito, di essere stato condannato all’ergastolo, insieme ad altre 12 persone, in relazione ad una rissa che aveva avuto come conseguenza anche la morte di una donna, in cui era rimasto coinvolto mentre tornava a casa dalla scuola, non avendo il richiedente spiegato come mai la documentazione prodotta, soltanto avanti al giudice, in particolare gli atti di un procedimento penale, non contenesse l’indicazione di alcuna data di nascita nè il luogo di residenza dell’imputato ” K.A.”, cui era riferita l’età di (OMISSIS) anni, mentre egli all’epoca ne aveva solo (OMISSIS), mai riportato per intero il suo nome K.M.A., mentre i nomi degli altri imputati erano completi con l’indicazione M.. Inoltre non chiariva le ragioni per cui, pur essendo stato emesso nei suoi confronti un mandato di cattura il (OMISSIS) (come da documento in atti), egli abbia comunque potuto lasciare il Bangladesh in aereo, con il passaporto poi sottrattogli in Libia. Infine osservava che aveva riferito di avere assistito all’episodio violento il (OMISSIS) mentre tornava a casa nel fine settimana, mentre siffatta data era un mercoledì;

– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione il K. affidato a tre motivi;

– il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere il giudice considerato la Libia quale Paese di provenienza del richiedente.

La censura è inammissibile sotto molteplici profili.

Premesso che il motivo contiene una serie di considerazioni teoriche sul quadro normativo di riferimento, il ricorrente deduce un excursus sulle fonti attestanti la situazione di diffusa violenza e violazione dei diritti umani esistente in Libia, Paese di transito del ricorrente, senza tuttavia tener conto che la questione relativa al trattamento del ricorrente nel predetto Paese risulta del tutto nuova, in quanto il K. non deduce di averla proposta nel giudizio di merito.

Inoltre l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il Paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale Paese (Cass. n. 31676 del 2018).

Ora, appunto il ricorso non chiarisce quale sia appunto la connessione esistente tra il transito e il contenuto della domanda;

– con il secondo motivo il ricorrente lamentata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, per motivazione apparente, per avere escluso l’esistenza in Bangladesh, suo Paese di provenienza, di una situazione di violenza indiscussa e incontrollata.

Anche la seconda censura non può trovare ingresso.

Il Tribunale con l’impugnato decreto ha congruamente valorizzato la situazione attuale del Paese di origine che in quanto tale non osta al rientro del richiedente, in difetto della individualizzazione del rischio (v. pag. 5 del provvedimento impugnato). Il giudice di merito, infatti, ha evidenziato che il richiedente proviene dal Bangladesh, Paese pacificamente non caratterizzato da episodi di violenza generalizzata, come desunto dalla consultazione delle COI più recenti ed accreditate, in particolare EASO Bangladesh report del 2017.

A fronte di tale accertamento, le circostanze indicate dal ricorrente, non risultano decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Il ricorrente, infatti, si limita a richiamare fonti diverse di informazione, come rapporto pubblicato il 21.05.2019 sul sito del Ministero dell’interno, dal quale emergerebbe che il Bangladesh è considerato un Paese in cui permane un elevato rischio terrorismo.

Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass. 2 ottobre 2019 n. 24647).

La situazione denunciata in ricorso, pur nella perturbata sua consistenza, non vale ad integrare l’indicato estremo e a censurare in modo concludente la decisione, per essere state esclusi rilievi ad evidenze di sostegno di ipotesi legittimanti il riconoscimento della protezione sussidiaria in tutte le fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721);

– con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per il mancato scrutinio specifico delle condizioni di vulnerabilità e per non avere ritenuto sussistenti le condizioni di vulnerabilità proprie del richiedente in caso di rientro forzoso in patria.

Il motivo è privo di fondamento, oltre ad essere generico e sotto tale profilo inammissibile nel carattere meramente assertivo e descrittivo assolto dal medesimo che richiama contenuti di norme e principi di loro interpretazione non puntualizzati in relazione al caso concreto.

A siffatto rilievo si accompagna, infatti, la considerazione che la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass. n. 21123 del 2019).

Il ricorrente denuncia la violazione dell’istituto senza indicare al di là della provenienza, il Bangladesh, i motivi di vulnerabilità della propria condizione, che resta genericamente dedotta nel raffronto con la situazione italiana, a fronte di un sistema a tutele tipizzate.

Inoltre nessun dirimente rilievo dispiega circa l’avvenuta integrazione sociale del richiedente in funzione del riconoscimento del presidio tutorio di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Del resto, quand’anche effettivamente conseguita, l’integrazione non risulta neanche allegata ed è ben lungi dall’esaurire la piattaforma dei presupposti richiesti per il riconoscimento della protezione, minore, ai cui fini è necessaria, secondo la più autorevole interpretazione di questa Corte regolatrice: “la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato” (Cass., Sez. Un., n. 29459 del 2019).

Non può dunque essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 28 giugno 2018 n. 17072).

In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore dell’Amministrazione che liquida in complessivi Euro 2.100,00 oltre a spese prenotate e prenotande a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 13 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2021

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