Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13258 del 25/05/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 25/05/2017, (ud. 11/04/2017, dep.25/05/2017),  n. 13258

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6424/2016 proposto da:

P.S., F.R., P.A.,

P.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MARCO FULVIO

NOBILIORE 43, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE LAURIA,

rappresentati e difesi dall’avvocato ERMELINDA ELIA;

– ricorrenti –

contro

ARENA NPL ONE S.R.L. con socio unico – C.F. (OMISSIS) quale

mandataria della doBank S.p.A. in persona del legale rappresentante,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUNIO BAZZONI, 5, presso lo

studio dell’avvocato ALESSANDRO RUSSI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

UNICREDIT CREDITO BANCK S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 859/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’11/04/2017 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

dato atto che il Collegio ha autorizzato la redazione del

provvedimento in forma semplificata, giusta decreto 14 settembre

2016, n.136/2016 del Primo Presidente.

Si rileva quanto segue.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Banca di Roma s.p.a. richiedeva ed otteneva un decreto ingiuntivo nei confronti di Edilizia Ro.AI.Master s.r.l., nella qualità di obbligata principale, nonchè nei confronti di P.S., A. e R., nonchè di F.R., nella qualità di fideiussori, per l’importo complessivo di Lire 939.173.137, quale saldo debitore di alcuni conti correnti intrattenuti dalla predetta società con l’istituto di credito.

Il decreto ingiuntivo era opposto dagli intimati, i quali, per quanto qui ancora rileva, eccepivano la nullità della pattuizione relativa agli interessi e alla capitalizzazione trimestrale degli stessi, la nullità della disposizione che programmava la commissione di massimo scoperto, nonchè l’incompletezza della documentazione prodotta dalla banca, siccome non comprensiva degli estratti conto relativi ai primi anni dei rapporti in contestazione.

Il Tribunale revocava il decreto ingiuntivo, accertava la nullità della pattuizione delle clausole aventi ad oggetto la capitalizzazione e la commissione di massimo scoperto e condannava – gli opponenti al pagamento della somma di Euro 421.695,11, oltre interessi.

2. – Interposto gravame, la Corte di appello di Roma, con sentenza pubblicata il 6 febbraio 2015, accoglieva parzialmente l’impugnazione e rideterminava la somma dovuta dagli appellanti in Euro 251.974,87, oltre interessi. La Corte di merito – giova qui ricordare – ha escluso che dovesse farsi luogo all’azzeramento dei saldi riprodotti nei primi estratti conto (relativi all’anno 1993) e ha inoltre osservato che gli appellanti, a fronte della pattuizione scritta della misura degli interessi, si erano limitati a contestazioni generiche circa la variazione dei relativi tassi.

3. – Contro tale pronuncia ricorrono per cassazione P.S., A. e R., nonchè F.R., i quali fanno valere tre motivi di impugnazione. Resiste con controricorso doBank s.p.a., già Unicredit Credit Management Bank s.p.a., rappresentata in giudizio dalla procuratrice Arena NPL One s.r.l.. Il ricorso è stato notificato anche a Unicredit s.p.a. che, tuttavia, non ha svolto difese in questa fase di legittimità. I ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso è anzitutto ammissibile. Salvo quanto sarà evidenziato con riferimento al terzo motivo, esso presenta, infatti, le connotazioni di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata.

2. – Con il primo motivo è denunciata nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Rilevano i ricorrenti di aver convenuto in appello sia Unicredit, incorporante per fusione Capitalia s.p.a., già Banca di Roma, che Unicredit Credit Management Bank, incorporante Aspra Finance, cessionaria del credito controverso. Rilevano che la Corte di appello aveva però reso pronuncia nei soli confronti di Unicredit Credit Management Bank, mentre Unicredit non risultava affatto indicata nella sentenza. Sottolineano gli istanti che, nondimeno, i due istituti bancari costituivano parti distinte ed autonome del processo.

La censura va disattesa.

Vero è che l’intestazione della sentenza impugnata non menziona Unicredit s.p.a., che non è inoltre specificamente nominata nel corpo della decisione, nemmeno ai fini della declaratoria di contumacia della stessa. Tuttavia, la mancata indicazione della parte contumace nell’epigrafe della sentenza, al pari della mancata dichiarazione di contumacia della stessa, non incide sulla regolarità del contraddittorio e non comporta, quindi, alcuna nullità, ove risulti che la parte sia stata regolarmente citata in giudizio – evenienza, questa, nella specie assolutamente pacifica – configurandosi al riguardo un mero errore materiale, emendabile con il procedimento di cui all’art. 287 c.p.c. (Cass. 9 ottobre 2013, n. 22918; Cass. 28 maggio 2003, n. 8545).

2. – Il secondo motivo prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1832 e 1827 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c.. La sentenza è sottoposta la censura nella parte in cui ha affermato che se il credito esistente in un dato periodo, successivo all’inizio dei rapporti bancari, può essere ricostruito con prove diverse dagli estratti conto, “esso non può ritenersi pari a zero”; la doglianza investe, inoltre, la valorizzazione, da parte del giudice distrettuale, della circostanza per cui gli estratti conto non erano stati “tempestivamente contestati all’atto del loro invio al correntista”; è inoltre avversato l’argomento, pure speso dalla Corte di merito, secondo cui sarebbe risultato “del tutto ipotetico che medio tempore, cioè dall’inizio dei rapporti bancari in esame e sino al 1993, siano state applicate clausole invalide”. Sul punto i ricorrenti richiamano la giurisprudenza di questa S.C. sull’onere probatorio in tema di rapporti di conto corrente.

Il motivo è fondato.

Va premesso che l’approvazione degli estratti conto non implica l’insussistenza di addebiti illegittimi da parte della banca. Come è noto, infatti, l’approvazione tacita dell’estratto di conto corrente non si estende alla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori sottostanti, ma ha la funzione di certificare la verità storica dei dati riportati nel conto (Cass. 14 febbraio 2011, n. 3574); la mancata contestazione dell’estratto conto e la connessa implicita approvazione delle operazioni in esso annotate riguardano, dunque, solo gli accrediti e gli addebiti considerati nella loro realtà effettuale (Cass. 26 maggio 2011, n. 11626).

Ciò posto, per giurisprudenza costante di questa S.C., nei rapporti bancari in conto corrente, una volta che sia stata esclusa la validità, per mancanza dei requisiti di legge, della pattuizione di interessi ultralegali a carico del correntista, la banca ha l’onere di produrre gli estratti a partire dall’apertura del conto; nè essa banca può sottrarsi all’assolvimento di tale onere invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, perchè non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito (Cass. 20 aprile 2016, n. 7972; Cass. 18 settembre 2014, n. 19696; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1842; Cass. 25 novembre 2010, n. 23974; Cass. 10 maggio 2007, n. 10692). Tale principio vale, ovviamente, anche ove si faccia questione dell’addebito di interessi anatocistici non dovuti. Come è stato osservato, negata la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la produzione degli estratti conto a partire dall’apertura del conto corrente consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell’avere con l’applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca, sempre che la stessa non risulti addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla illegittima capitalizzazione: allo stesso risultato, evidentemente, non si può pervenire con la prova del saldo, comprensivo di capitali ed interessi, al momento della chiusura del conto; infatti, tale saldo non solo non consente di conoscere quali addebiti, nell’ultimo periodo di contabilizzazione, siano dovuti ad operazioni passive per il cliente e quali alla capitalizzazione degli interessi, ma esso a sua volta discende da una base di computo che è il risultato di precedenti capitalizzazioni degli interessi (Cass. 10 maggio 2007, n. 10692 cit., in motivazione). D’altro canto, l’assenza degli estratti conto per il periodo iniziale del rapporto non era astrattamente preclusiva di un’indagine contabile per il periodo successivo, potendo questa attestarsi sulla base di riferimento più sfavorevole per il creditore istante, quale, a titolo esemplificativo, quella di un calcolo che preveda l’inesistenza di un saldo debitore alla data dell’estratto conto iniziale (così Cass. 26 gennaio 2011, n. 1842 cit., in motivazione).

Nè la sentenza impugnata può condividersi laddove afferma che sarebbe del tutto ipotetica (e quindi indimostrata) l’applicazione, nel tempo, di clausole invalide (nella specie: quelle di cui era stata accertata la nullità). Un tale assunto sovverte infatti l’ordine naturale degli oneri di allegazione e di prova, giacchè a fronte di una clausola di un determinato contenuto, il fatto modificativo o estintivo che determini la caducazione, totale o parziale della clausola stessa, o comunque la sua sopravvenuta inettitudine a regolamentare il rapporto in conformità di quanto in essa prescritto non può essere affermata giudizialmente senza che la parte interessata deduca e dimostri le circostanze rilevanti a tal fine.

3. – Col terzo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione e falsa applicazione dell’art. 1284 c.c., comma 3, artt. 1346 e 1418 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. In sintesi gli istanti lamentano che il giudice dell’impugnazione abbia attribuito rilievo al tasso di interesse convenuto contrattualmente, senza considerare che lo stesso era suscettibile di variazioni in rapporto alle “condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza”.

Il motivo è privo di autosufficienza e, correlativamente, di decisività.

Deve premettersi che gli istanti non hanno alcun interesse a dolersi di una riduzione del tasso iniziale; ciò che assume rilievo, rispetto alla loro posizione, è l’incremento, non la diminuzione del tasso. Ora, nel ricorso non sono indicate le variazioni che avrebbero concretamente inciso, nel tempo, sulla misura del tasso di interesse: in particolare non è specificato se siano intervenute modificazioni in aumento rispetto al saggio originario del 21,25%. Ne discende che la censura, incentrata sulla pattuizione dello jus variandi, non è comunque idonea a dar conto del vizio denunciato.

In conclusione, vanno respinti il primo e il terzo motivo, mentre deve essere accolto il secondo. La sentenza è cassata e la causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte di appello di Roma, la quale dovrà fare applicazione dei seguenti principi di diritto:

nei rapporti bancari in conto corrente, una volta che sia stata esclusa la validità, della pattuizione relativa agli interessi a carico del correntista, la banca ha l’onere di produrre gli estratti a partire dall’apertura del conto, nè essa banca può sottrarsi all’assolvimento di tale onere invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, perchè non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito;

una volta accertata la pattuizione di interessi non dovuti, il giudice di merito non può ritenere che la disposizione contrattuale non abbia trovato applicazione nel periodo non documentato dagli estratti conto, salvo che la banca non alleghi e non provi il fatto modificativo o estintivo che determini la caducazione, totale o parziale, della disposizione stessa, o comunque la sopravvenuta sua inettitudine a regolamentare il rapporto in conformità di quanto in essa prescritto.

Spetterà alla stessa Corte del rinvio disciplinare la sorte delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

 

La Corte accoglie il secondo motivo e rigetta gli altri; cassa la sentenza con riferimento al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Milano anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile, il 11 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2017

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