Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1325 del 18/01/2019

Cassazione civile sez. trib., 18/01/2019, (ud. 27/09/2018, dep. 18/01/2019), n.1325

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5777/2012 R.G. proposto da:

A.G., rappresentato e difeso dall’avv. Claudio

Lucisano, presso cui elettivamente domicilia in Roma alla via

Crescenzio n. 91;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6/36/11 della Commissione Tributaria Regionale

del Piemonte, emessa in data 13/12/2010, depositata in data

11/1/2011 e non notificata;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 settembre

2018 dal Consigliere Dott.ssa Giudicepietro Andreina.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. A.G. ricorre con quattro motivi contro l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n. 6/36/11 della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, emessa in data 13/12/2010, depositata in data 11/1/2011 e non notificata, che ha rigettato l’appello del contribuente, in controversia concernente l’impugnativa della cartella di pagamento notificata in data 10 marzo 2008, avente ad oggetto la definizione della lite L. n. 289 del 2002, ex art. 9, per un totale di Euro 40.383,71;

2. con la sentenza impugnata, la C.T.R. del Piemonte esponeva in fatto che A.G. in data 16/6/2003 aveva presentato, ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 9, dichiarazione per l’integrazione e la definizione dell’imposta sui redditi e dell’Iva per gli anni pregressi ed effettuato il relativo versamento d’acconto, riportando l’importo delle perdite da affrancare e l’importo da versare per l’affrancamento per Euro 31.610,00, e successivamente, a seguito delle modifiche di cui alla L. n. 355 del 2003, aveva inviato nuova dichiarazione con esclusione dei campi relativi all’affrancamento delle perdite;

3. la C.T.R., quindi, riteneva in diritto che il contribuente, che aveva già aderito al condono, poteva, a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina, beneficiare della riapertura dei termini solo per correggere eventuali errori ed integrare le dichiarazioni già presentate, ma non revocare le opzioni effettuate in occasione dell’istanza originaria;

secondo la C.T.R., il contribuente, avvalendosi della L. n. 355 del 2003, art. 1, avrebbe potuto affrancare perdite non indicate precedentemente, ma non modificare quanto precedentemente dichiarato, poichè le scelte in materia di sanatoria fiscale (condono tombale) sono irretrattabili ed immodificabili;

4. a seguito del ricorso, l’Ufficio si costituisce, resistendo con controricorso;

5. il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 27 settembre 2018, ai sensi degli artt. 375 c.p.c., u.c., e art. 380bis1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.1. con il primo motivo di ricorso, il contribuente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, commi 8 e 8 bis, L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 44, L. n. 212 del 2000, art. 10, violazione e mancata applicazione dell’Agenzia delle Entrate, provv. del direttore 18 febbraio 2004, penultimo comma, paragrafo 1, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5;

deduce il ricorrente che, avvalendosi delle nuove norme di cui alla L. n. 355 del 2003, aveva corretto la dichiarazione integrativa già presentata L. n. 289 del 2002, ex art. 9, barrando l’apposita casella “modificativa” presente sulla modulistica 2004, nonchè riproducendo tutti i dati relativi agli anni pregressi, ad eccezione dell’affrancamento delle perdite, indicato per mero errore nella dichiarazione originaria, ed aggiungendo i dati del 2002;

secondo il ricorrente era possibile per il contribuente modificare, con una seconda dichiarazione, quella presentata precedentemente in suo favore, sia sotto un profilo generale di emendabilità della dichiarazione, sia sotto quello specifico della modificabilità della dichiarazione di condono;

nel caso di specie la possibilità di emenda della dichiarazione, riconosciuta in linea generale dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 2226/2011, era prevista da una specifica norma sulla riapertura dei termini, secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate provv. del direttore 18 febbraio 2004, penultimo comma, paragrafo 1;

il ricorrente denuncia, inoltre, il difetto della motivazione della sentenza impugnata, laddove non chiarisce perchè sarebbe inconferente il riferimento al principio di buona fede tra contribuente e P.A.;

1.2. il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato;

1.3. invero, è inammissibile sotto il profilo dell’omessa o insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, poichè tale censura può avere ad oggetto solo carenze o vizi logici della motivazione in fatto e non della motivazione in diritto;

è, invece, infondato sotto il profilo della violazione di legge, poichè correttamente il giudice di appello ha ritenuto che la scelta di affrancare le perdite, indicate nella prima dichiarazione, costituisce una manifestazione di volontà, perchè espressione di un’opzione compiuta consapevolmente e volontariamente dal contribuente, come tale irrevocabile;

L. n. 289 del 2002, art. 9, comma 7, in tema di riporto delle perdite, prescrive che “ai fini della definizione automatica è esclusa la rilevanza a qualsiasi effetto delle eventuali perdite risultanti dalle dichiarazioni originarie, fatta eccezione di quelle determinate dall’applicazione delle disposizioni di cui alla L. 18 ottobre 2001, n. 383, art. 4. Il riporto a nuovo delle predette perdite è consentito con il versamento di una somma pari al 10 per cento delle perdite stesse fino ad un importo di 250.000.000 Euro, nonchè di una somma pari al 5 % delle perdite eccedenti il predetto importo. Per la definizione automatica dei periodi d’imposta chiusi in perdita o in pareggio è versato un importo almeno pari a quello minimo di cui al comma 3, lett. b), per ciascuno dei periodi stessi”;

in base alla citata norma, il contribuente ha facoltà di scegliere se usufruire del riporto delle perdite, versando il 10% della perdita che intende affrancare, o rinunciarvi, pagando gli importi dovuti sulla base delle imposte lorde originariamente dovute;

la scelta di mantenere il riporto delle perdite comporta per il contribuente l’obbligo di corrispondere, per i periodi di imposta nei quali le perdite sono state utilizzate, le somme ordinariamente dovute sulla base di quanto originariamente dichiarato, con l’aggiunta del 10% delle perdite pregresse utilizzate;

nel caso di specie, quindi, il riferimento del ricorrente alla giurisprudenza in tema di emendabilità della dichiarazione non coglie nel segno, per la ragione che tale orientamento si riferisce a quelle parti della dichiarazione che costituiscono mera dichiarazione di scienza;

il principio è quello per cui, laddove il contribuente abbia manifestato nella dichiarazione una volontà, esercitando un’opzione, non può, a posteriori, modificare la stessa;

in questo senso, sebbene in riferimento ad una fattispecie diversa da quella del presente ricorso, si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. 5, ord. n. 19215 del 2017, secondo cui, a differenza delle dichiarazioni di scienza suscettibili di essere corrette in caso di errore, le manifestazioni di volontà espresse in dichiarazione sono irretrattabili, e non possono essere modificate (neppure ricorrendo alla procedura di rimborso D.P.R. 602 del 1973, ex art. 38), salvo nel caso di errore obiettivamente riconoscibile ed essenziale ai sensi dell’art. 1428 c.c. (ipotesi che non ricorre nella fattispecie in esame, in cui, a fronte della scelta dal contribuente di riportare le perdite nell’originaria dichiarazione, non si può ritenere di essere di fronte ad un errore riconoscibile da parte dell’Amministrazione, potendo la modalità adottata dal contribuente essere una delle possibili opzioni di compilazione della dichiarazione, che non era idonea a destare alcun sospetto di errore nell’ufficio. – in un caso di omesso riporto delle perdite, vedi Cass. sent. n. 1117/18-);

tali principi generali valgono anche in tema di condono fiscale, in cui “la dichiarazione di volersi avvalere di una determinata definizione agevolata non ha natura di mera dichiarazione di scienza o di giudizio, come tale modificabile, ma integra un atto volontario, frutto di scelta ed autodeterminazione da parte del contribuente, i cui effetti sono previsti dalla legge, sicchè, una volta presentata, è irrevocabile e non può essere modificata dall’ufficio, nè contestata dal contribuente per un ripensamento successivo, ma solo per errore materiale manifesto e riconoscibile” (Sez. 5, Sentenza n. 15295 del 21/07/2015);

il contribuente, dunque, nel presentare la seconda dichiarazione, avrebbe dovuto inserire i dati della precedente dichiarazioni e le integrazioni della nuova e, comunque, corrispondere un importo non inferiore a quello che si era impegnato a versare con la dichiarazione originaria;

anche la circolare 51/E chiarisce che la riapertura dei termini del condono (per chi ha utilizzato il condono tombale) consente la correzione di errori commessi nella regolarizzazione originaria, per cui chi ha presentato a giugno un’integrativa semplice può, con la riapertura dei termini, presentarne un’altra per tributi e anni diversi, così come può ora indicare un maggiore imponibile rispetto a quello riportato nella precedente dichiarazione integrativa oppure può affrancare ora le perdite in precedenza non “liberate”;

da ciò deriva il limite alla modifica della prima dichiarazione, con l’irrevocabilità delle scelte già effettuate e l’impossibilità di escludere l’importo delle perdite da affrancare, già indicato nell’originaria dichiarazione;

2.1. con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 125 e 91 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 23 e 62, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

il ricorrente sostiene di aver censurato con l’atto di appello l’omessa sottoscrizione della costituzione dell’Ufficio nel giudizio di primo grado e che tale omissione, sulla quale la C.T.R. non si era pronunciata, avrebbe determinato, ove rilevata, il venir meno della condanna alle spese del giudizio in favore dell’Agenzia delle Entrate;

2.2. il motivo è inammissibile;

2.3. invero, difetta di autosufficienza, poichè non riporta nè l’atto di costituzione del primo grado dell’Agenzia delle Entrate, cui fa solo un generico riferimento, nè l’atto di appello del contribuente, contenente la contestazione sull’omessa sottoscrizione;

inoltre, il ricorrente non sembra avere un interesse giuridicamente rilevante alla pronuncia sulla validità dell’atto di costituzione della controparte (la quale comunque avrebbe partecipato all’udienza di trattazione innanzi alla C.T.P., in assenza di qualsivoglia contestazione), poichè non risulta aver impugnato sotto tale profilo la liquidazione in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di primo grado;

3.1. con il terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza d’appello per aver operato la liquidazione delle spese di lite, indicando un importo unico, senza distinguere fra spese, diritti e onorari;

3.2. anche tale motivo è inammissibile;

3.3. la parte denuncia la liquidazione cumulativa, ma in modo formale, mentre avrebbe dovuto indicare il concreto aggravio economico subito rispetto a quanto sarebbe risultato sulla base dell’applicazione delle tariffe (Cass. 20128 del 2015; Cass. 15363 del 2016);

4.1. parimenti inammissibile è il quarto motivo, con cui il ricorrente denunzia il vizio di ultrapetizione della condanna alle spese processuali, per non aver motivato il giudice di appello in ordine all’applicazione delle tariffe in valori superiori ai minimi ed in alcuni casi pari ai massimi tariffari;

4.2. invero, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito provvedere alla quantificazione delle spese processuali, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti ratione temporis (vedi Cass. ord. n. 19613/2017), nè il ricorrente ha specificamente dedotto il superamento di tali limiti;

5.1. per quanto fin qui detto, il ricorso va rigettato e parte ricorrente va condannata al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo;

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2019

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