Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13238 del 16/06/2011
Cassazione civile sez. I, 16/06/2011, (ud. 05/04/2011, dep. 16/06/2011), n.13238
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –
Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
B.L., elettivamente domiciliata in Roma, alla via
Cosseria n. 2, presso il dott. PLACIDI Alfredo, unitamente al prof.
avv. RODIO RAFFAELE GUIDO, dal quale è rappresentata e difeso in
virtù di procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro p.t,
domiciliato in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso
l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, dalla quale è rappresentato e
difeso per legge;
– controricorrente –
avverso il decreto della Corte di Appello di Bari depositato il 27
marzo 2008;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 5
aprile 2011 dal Consigliere dott. Guido Mercolino;
udito l’avv. Alessi per delega del difensore del ricorrente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale dott. RUSSO Libertino Alberto, il quale ha concluso per il
rigetto del ricorso.
Fatto
FATTO E DIRITTO
1. – Ritenuto che B.L. ha proposto ricorso per cassazione avverso il decreto del 27 marzo 2008, con cui la Corte di Appello di Bari ha rigettato la domanda di equa riparazione da essa proposta nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio promosso dall’istante dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia;
che a fondamento dell’impugnazione la ricorrente ha dedotto la violazione e la falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, nonchè dell’art. 163 cod. proc. civ. e dell’art. 3 Cost., sostenendo a) che la Corte d’Appello le ha erroneamente addebitato l’eccessiva durata del giudizio presupposto, in virtù del disinteresse alla definizione dello stesso da lei manifestato attraverso la rinuncia alla decisione di merito, b) che la mancata allegazione di specifici elementi da cui possa desumersi il danno non patrimoniale non impedisce l’accoglimento della domanda, dovendo ritenersi sussistente tale pregiudizio in virtù del mero accertamento della violazione del termine di ragionevole durata del processo, c) che il decreto impugnato ha escluso la sussistenza del danno non patrimoniale in presenza della medesima situazione di fatto che aveva indotto la Corte d’Appello ad accogliere la domanda proposta da un altro ricorrente;
che il Collegio ha raccomandato l’adozione di una motivazione semplificata.
Considerato che il primo motivo d’impugnazione è inammissibile, in quanto non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, nella quale la Corte territoriale ha fatto discendere dal disinteresse dimostrato dalla ricorrente per la definizione del giudizio presupposto non già l’esclusione della violazione del termine di ragionevole durata, ma l’insussistenza del danno non patrimoniale;
che parimenti inammissibile è il secondo motivo, non essendo stata rigettata la domanda a causa della mancata allegazione di specifici elementi a sostegno dell’affermata sussistenza dell’ansia e del patema d’animo conseguenti all’eccessiva durata del giudizio presupposto, bensì in virtù dell’accertato venir meno dell’interesse della ricorrente alla definizione di tale giudizio, ritenuto idoneo ad escludere nella specie l’operatività della presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale, ordinariamente ricollegabile all’accertamento della violazione del termine di ragionevole durata del processo;
che tale conclusione appare conforme all’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il danno non patrimoniale, pur rappresentando una conseguenza normale della lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, non è configurabile come danno in re ipsa, non costituendo un effetto nè automatico ne necessario di detta lesione, con la conseguenza che il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione del termine di ragionevole durata secondo le norme della L. n. 89 del 2001, deve ritenerlo sussistente, a meno che non ricorrano, come nella specie, circostanze particolari tali da consentire di escludere plausibilmente che esso sia stato in concreto subito dal ricorrente (cfr. Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2004, n. 1338; Cass., Sez. 1^, 26 settembre 2008, n. 24269; 13 settembre 2006, n. 19666);
che è infine inammissibile il terzo motivo, con cui la ricorrente lamenta la disparità di trattamento conseguente al diverso esito della domanda proposta da altro soggetto in riferimento alla medesima situazione di fatto, in tal modo censurando la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello in ordine alla sussistenza del danno non patrimoniale, che costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito;
che il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso, e condanna B.L. al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in Euro 900,00 per onorario, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 5 aprile 2011.
Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2011