Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13237 del 30/06/2020

Cassazione civile sez. I, 30/06/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 30/06/2020), n.13237

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24874/2018 proposto da:

O.V., rappresentato e difeso dall’avv. Maria Monica Bassan;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, Commissione Territoriale per il

Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona – Sezione

di Padova;

– intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, depositato il

12/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio in

data 1/10/2019 dal Consigliere Dott. SCRIMA ANTONIETTA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

O.V., cittadino (OMISSIS), ha proposto ricorso per cassazione, basato su un unico motivo, nei confronti del Ministero dell’Interno e della Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona – Sezione di Padova e avverso il decreto del Tribunale di Venezia, depositato il 2 luglio 2018 e in pari data comunicato, di rigetto del ricorso dallo stesso proposto in primo grado e volto ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato politico o, in subordine, della protezione sussidiaria o della protezione umanitaria.

Il Tribunale adito ha ritenuto poco credibile il racconto del ricorrente, che ha riferito di essere fuggito in quanto appartenenti al culto (OMISSIS) volevano reclutarlo, come già avvenuto con suo fratello, che non era riuscito ad opporsi alla sua affiliazione. In particolare, quel Giudice ha rilevato in tale racconto profili di incoerenza estrinseca, evidenziando che la predetta setta era una setta universitaria, che non vi era alcun collegamento tra l’ambiente universitario e il fratello del ricorrente, che lo stesso ricorrente non era legato all’ambiente in parola, avendo dichiarato di lavorare come stilista di moda, e non aveva fornito valide spiegazioni sulle ragioni per le quali i cultisti volevano che diventasse, con il fratello, membro del clan. Quel Giudice, inoltre, ha sottolineato che il ricorrente non ha fornito alcun indizio a supporto delle sue affermazioni, non avendo depositato alcun documento significativo al riguardo. Il Tribunale ha ritenuto, quindi, non ricorrenti i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione, tenuto conto anche della situazione generale della (OMISSIS) e dell'(OMISSIS), descritta nel decreto impugnato, con l’indicazione delle fonti, considerato che il ricorrente non ha allegato profili di vulnerabilità rilevanti ai fini della protezione umanitaria, posto che “non si è in presenza di una situazione personale oggettiva e grave che non consenta l’allontanamento dal territorio nazionale, nè sono state allegate nell’ottica di un giudizio comparativo rispetto alle attuali condizioni del ricorrente, circostanze alla stregua delle quali poter ritenere che il ricorrente si sia allontanato da una condizione di vulnerabilità effettiva sotto il profilo specifico della grave e sistematica violazione individualizzata dei diritti umani o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili a danno del ricorrente qualora facesse ritorno al proprio Paese, alla luce della recente pronuncia della Cassazione 4455/2018”. Quel Giudice ha, infine, precisato che non può ritenersi determinante, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, il semplice inserimento sociale del ricorrente nel nostro Paese, richiamando sul punto il principio affermato da Cass. 2737/2018.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso deve essere dichiarato improcedibile.

1.1. L’attestazione di conformità del difensore, D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16 bis, comma 9-bis, conv., con modif., dalla L. n. 221 del 2012, della copia analogica del decreto impugnato, predisposto in originale telematico, è priva di sottoscrizione autografa, essendo stata autenticata dal difensore mediante firma digitale, e, poichè il giudizio di legittimità non è ancora inserito nel sistema del PCT, questa Corte si trova nell’impossibilità di effettuare la verifica diretta sull’originale nativo digitale (Cass., ord., 29/11/2017, n. 28473 e Cass., sez. un., 25/03/2019, n. 8312).

In particolare, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza da ultimo citata, hanno precisato che “Il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione, di copia analogica della decisione impugnata – redatta in formato elettronico e sottoscritta digitalmente, e necessariamente inserita nel fascicolo informatico -, priva di attestazione di conformità del difensore D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16 bis, comma 9 bis, convertito dalla L. n. 221 del 2012, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non determina l’improcedibilità del ricorso per cassazione laddove il controricorrente (o uno dei controricorrenti), nel costituirsi (anche tardivamente), depositi a sua volta copia analogica della decisione ritualmente autenticata, ovvero non disconosca la conformità della copia informale all’originale; nell’ipotesi in cui, invece, la controparte (o una delle controparti) sia rimasta soltanto intimata, ovvero abbia effettuato il suddetto disconoscimento, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica, entro l’udienza di discussione o l’adunanza in camera di consiglio”.

Nel caso di specie non ricorre alcuna delle suddette ipotesi idonee ad impedire la declaratoria di improcedibilità del ricorso, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede e non avendo il ricorrente proceduto al deposito di rituale asseverazione di conformità entro l’adunanza in camera di consiglio.

1.2. A quanto precede va aggiunto che non risulta neppure attestata la conformità della copia analogica del ricorso predisposto in originale telematico e notificato a mezzo PEC senza che sia peraltro stata attestata la conformità agli originali della relata di notifica, della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna depositati in copia analogica, ribadendosi che, nella specie, gli intimati non hanno svolto attività difensiva e il ricorrente non ha depositato le asseverazioni, del difensore, di conformità agli originali delle copie analogiche dei predetti atti sino all’adunanza in camera di consiglio.

Al riguardo si osserva che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza 24/09/2018, n. 2243 hanno, tra l’altro, affermato che: “Il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo posta elettronica certificata, senza attestazione di conformità del difensore L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1ter, o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non ne comporta l’improcedibilità ai sensi dell’art. 369 c.p.c. sia nel caso in cui il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica di detto ricorso autenticata dal proprio difensore, sia in quello in cui, ai sensi del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, comma 2, non ne abbia disconosciuto la conformità all’originale notificatogli.

Anche ai fini della tempestività della notificazione del ricorso in originale telematico sarà onere del controricorrente disconoscere la conformità agli originali dei messaggi di p.e.c. e della relata di notificazione depositati in copia analogica non autenticata dal ricorrente.

Ove, poi, il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale rimanga solo intimato, il ricorrente potrà depositare, ai sensi dell’art. 372 c.p.c. (e senza necessità di notificazione ai sensi del comma 2 medesima disposizione), l’asseverazione di conformità all’originale (L. n. 53 del 1994, ex art. 9) della copia analogica depositata sino all’udienza di discussione (art. 379 c.p.c.) o all’adunanza in camera di consiglio (artt. 380 bis, 380 bis.1 e 380 ter c.p.c.). In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile” (v. sentenza citata, in motivazione).

2. Per completezza, si evidenzia che il ricorso è da ritenersi, comunque, inammissibile.

2.1. Con l’unico motivo il ricorrente lamenta “violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (anche in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. h-bis) per mancata valutazione della situazione del Paese di origine del richiedente ((OMISSIS)) e della situazione personale del richiedente ai fini del riconoscimento della sussistenza dei presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6”.

2.1.1. In particolare i ricorrente, nel denunciare il vizio di violazione di legge con riguardo alla statuizione di diniego della protezione umanitaria, propone doglianze alquanto generiche, con riferimento sia alla dedotta situazione di vulnerabilità soggettiva, sia alla situazione della (OMISSIS), sollecitando un’inammissibile rivalutazione degli accertamenti di fatto effettuata dai Giudici di merito, che hanno, con adeguata motivazione, escluso, nel caso concreto, la sussistenza di fattori di vulnerabilità soggettiva ed oggettiva, anche mediante ampia e dettagliata descrizione della situazione del Paese di origine del richiedente, ed in particolare della zona specifica di provenienza del ricorrente ((OMISSIS)) con indicazione delle fonti. Si precisa che, contrariamente a quanto lamentato dal ricorrente, il Tribunale ha fatto riferimento proprio alla situazione esistente nell'(OMISSIS), regione di provenienza del richiedente (v. decreto p. 10), pur avendo esaminato anche la situazione degli altri stati del (OMISSIS) (v. decreto p. 12).

2.1.2. Va poi aggiunto che il fattore dell’integrazione sociale in Italia, peraltro genericamente allegato in ricorso, è recessivo, qualora difetti la vulnerabilità, come affermato da questa Corte proprio con la sentenza 23/02/2018, n. 4455, richiamata nel decreto impugnato nonchè dallo stesso ricorrente.

3. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile.

4. Non vi è luogo a provvedere per le spese del giudizio di cassazione nei confronti degli intimati, non avendo gli stessi svolto attività difensiva in questa sede.

5. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass., sez. un., 20 settembre 2019, n. 23535), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

PQM

La Corte dichiara improcedibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2020

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