Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13234 del 16/06/2011

Cassazione civile sez. I, 16/06/2011, (ud. 22/03/2011, dep. 16/06/2011), n.13234

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 914/2005 proposto da:

M.A. (c.f. (OMISSIS)), G.G. (C.F.

(OMISSIS)), L.B. (C.F. (OMISSIS)),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 83, presso

l’avvocato GITTO Giuseppe, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato PAPPALARDO SANTI, giusta procura a margine ricorso;

– ricorrenti –

contro

ISTITUTO EDILIZIA POPOLARE S. BERILLO S.P.A. (C.F. (OMISSIS)), in

persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA S. DOMENICO 20, presso l’avvocato FORTI ROBERTO,

rappresentato e difeso dall’avvocato MARCHESE Francesco, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 717/2004 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 31/07/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

22/03/2011 dal Consigliere Dott. ANDREA SCALDAFERRI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LETTIERI Nicola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. In attuazione del piano comunale di risanamento della zona San Berillo di Catania approvato dalla Regione Sicilia con L. n. 13 del 1954, l’Istituto per l’Edilizia Popolare di San Berillo s.p.a., partecipato dal Comune di Catania e dall’Istituto Immobiliare di Catania s.p.a., costruì in quel territorio numerose unità immobiliari aventi le caratteristiche di alloggi popolari da destinare, anche mediante contratto di locazione con patto di futura vendita, agli sfollati del vecchio quartiere di (OMISSIS).

Nell’aprile 1998 alcuni degli occupanti di tali unità – divenuti proprietari o assegnatari, tra i quali M.A., L. B. e G.G., convennero dinanzi al Tribunale di Catania l’Istituto per l’Edilizia Popolare di San Berillo s.p.a.

deducendo che, in base ad una clausola, contenuta in tutti gli originari contratti di locazione, sostanzialmente riproduttiva del disposto del R.D. 28 aprile 1938, n. 1165, art. 35, comma 3 (T.U. edilizia popolare ed economica), la gestione di detti immobili sarebbe spettata all’Istituto fino a quando gli stessi non fossero stati tutti venduti e non fosse stato pagato dai rispettivi acquirenti l’intero prezzo; e che tale clausola, in quanto prevedente una riserva assoluta ed a tempo indeterminato dei poteri assembleari e di amministrazione in capo a soggetti diversi dai proprietari, si poneva in contrasto con le norme inderogabili del codice civile disciplinanti la nomina dell’amministratore ed il diritto di ciascun condomino di amministrare la cosa comune (senza che, in contrario, potesse richiamarsi il disposto dell’art. 35 T.U citato, applicabile solo ai Comuni, agli Istituti Autonomi Case Popolari ed alle società non aventi scopo di lucro, non già ad una società per azioni con scopo di lucro quale quella in questione. Chiedevano pertanto dichiararsi la nullità di tale clausola, o in subordine il loro diritto alla costituzione di condomini di gestione. La società convenuta, costituitasi, contestò sotto più profili la domanda. Il Tribunale definì il giudizio – per quanto qui ancora rileva – rigettando la domanda proposta dal M., dal L. e dal G..

2. L’appello proposto (anche) da questi ultimi, i quali lamentavano l’erroneità della prevalenza attribuita dal primo giudice alla – comunque inapplicabile nella specie-disposizione dell’art. 35 T.U. Edilizia popolare rispetto alle norme inderogabili del codice civile sopra richiamate e l’omessa considerazione del nulla osta alla costituzione di un condominio di gestione concesso dall’Assessore Regionale ai Lavori Pubblici, veniva rigettato dalla Corte di Appello di Catania con sentenza depositata il 31 luglio 2004 e notificata il 27 ottobre 2004. Osservava la Corte – per quanto qui ancora rileva – che il disposto del R.D. n. 1165 del 1938, art. 35, in esecuzione del quale era intervenuta la pattuizione contestata, era improntato a specifici principi regolanti la materia dell’edilizia popolare ed economica posti a tutela di un interesse avente pubblica rilevanza e ritenuti prevalenti su quelli richiamati dagli appellanti, la cui inderogabilità peraltro era stata affermata dalla Corte di Cassazione, in un remoto arresto, solo con riferimento a regolamenti condominiali o ad altre convenzioni tra le parti, non certo con riguardo alla particolare disciplina pubblicistica sopra richiamata.

D’altra parte, non era da dubitare dall’applicabilità dell’art. 35 T.U. all’Istituto appellato, il cui atto costitutivo e statuto precisavano chiaramente l’assenza di scopo di lucro, in espresso collegamento con l’ammissione – della quale tale caratteristica è condizione essenziale – dell’Istituto alla costruzione di case popolari di cui al cit. T.U. n. 1165/1938, ed in coerenza con le clausole statutarie inerenti alla non prevedibilità di utili di bilancio ed alla devoluzione del patrimonio in caso di scioglimento della società. Vero è che gli appellanti avevano anche fatto riferimento al disposto della L.R. n. 18 del 1994, art. 6, che, ove sia stato effettuato il trasferimento in proprietà di almeno il 50% degli alloggi, consentirebbe la gestione dei servizi accessori e degli spazi comuni da parte di coloro che ne hanno acquisito la proprietà. Ma, da un lato, l’art. 1 della legge citata ne escludeva l’applicabilità agli alloggi realizzati – come nella specie – con programmi di edilizia agevolata e convenzionata, dall’altro il fatto dell’avvenuto trasferimento in proprietà di almeno il 50% degli alloggi era stato inammissibilmente dedotto in causa per la prima volta in appello, peraltro sostenuto da una altrettanto inammissibile nuova richiesta di prova orale per interrogatorio formale.

3. Avverso tale sentenza il M., il L. ed il G. hanno proposto ricorso a questa Corte con atto notificato il 27 dicembre 2004, basato su due motivi. Resiste l’Istituto per l’edilizia popolare San Berillo s.p.a. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti si dolgono della statuizione sulla applicabilità dell’art. 35 T.U., nei confronti dell’Istituto per l’edilizia popolare San Berillo s.p.a., denunciando l’insufficienza della motivazione nonchè la falsa applicazione di tale norma e del collegato art. 34 stesso T.U..

1.1 Sostengono, sotto il primo profilo, che non è sufficiente far riferimento alle clausole statutarie evidenziate dalla Corte di merito per escludere nella specie lo scopo di lucro: se è vero che possono esistere società senza scopo di lucro (purchè sussista la economicità della gestione, quale che sia lo scopo anche ideale dell’attività), l’eventuale assenza di questo elemento, indicato nell’art. 2247 c.c., dovrebbe però essere dimostrata, sulla base delle circostanze nelle quali la società in questione è stata costituita e delle condizioni nelle quali esercita la sua attività, mentre l’indagine su tali elementi di fatto risulta del tutto omessa nella motivazione della sentenza impugnata.

Inoltre, il fine di lucro giuridicamente rilevante non è quello soggettivo (divisione degli utili), bensì quello oggettivo, cioè la potenziale attitudine dell’attività esercitata a produrre dei profitti; e d’altra parte il concetto di utile comprende ogni utilità economica, consistente sia in un risparmio di spesa sia in altro vantaggio patrimoniale, e non è dubbio che la società resistente riceva un vantaggio economico dall’esercizio della propria attività, concretizzantesi nella percezione di un corrispettivo, anche con riguardo ai canoni di locazione degli appartamenti ancora in sua proprietà. 1.2 Sotto il secondo profilo, sostengono i ricorrenti che l’erronea esclusione nella specie dello scopo di lucro conduce alla falsa applicazione degli artt. 34 e 35 T.U., nella misura in cui si è ritenuta applicabile tale normativa alla società resistente.

2. Sotto entrambi i profili enunciati, da esaminare congiuntamente in quanto connessi giuridicamente e logicamente, il motivo non merita accoglimento.

Quanto al dedotto vizio di motivazione, premesso che in questa sede non si controverte intorno alla ammissibilità di una società per azioni priva dello scopo di lucro, va escluso che la verifica in ordine alla sussistenza nel caso specifico di tale elemento implichi anche la disamina circa le circostanze nelle quali la società è stata costituita e le condizioni nelle quali esercita la sua attività. A differenza della società di fatto – nella quale il momento negoziale del rapporto e quello operativo coincidono, la società per azioni presuppone la stipula nella forma prescritta di un atto costitutivo, con lo statuto che ne costituisce parte integrante, e l’iscrizione dello stesso nel registro delle imprese, secondo un sistema normativo di pubblicità legale cui peraltro conseguono significative divergenze – anche in tema di interpretazione del contratto (cfr. ex multis Cass. n. 10970/1996) – rispetto alla generale disciplina codicistica dei contratti, in gran parte riferibile ai c.d. contratti di scambio. Ne deriva che è al contenuto dell’atto costitutivo e dello statuto che deve farsi esclusivo riferimento onde verificare la sussistenza nella specie dello scopo di lucro. La eventuale sussistenza di (peraltro nella specie imprecisati) elementi di fatto esterni, antecedenti o successivi alla stipula dell’atto, da ritenere indici di una volontà dei soci difforme da quella manifestata negli atti pubblicati, sarebbe priva di rilevanza ai fini che qui interessano (quelli successivi potrebbero semmai rilevare quali violazioni dello statuto, ad altri fini); così come inammissibile è, una volta che l’iscrizione nel Registro sia avvenuta, il ricorso a criteri interpretativi dell’atto costitutivo basati sulla comune intenzione dei contraenti, dovendo piuttosto l’interpretazione dell’atto stesso basarsi su criteri obiettivi.

La motivazione espressa sul punto dalla corte di merito si mostra dunque tutt’altro che insufficiente: le clausole statutarie inerenti alla non prevedibilità di utili di bilancio ed alla devoluzione del patrimonio in caso di scioglimento della società, considerate unitamente agli altri elementi testuali indicati nella sentenza impugnata, ben possono costituire validi elementi di riscontro della esclusione dello scopo di lucro della attività sociale, tenendo anche presente che – contrariamente a quanto argomentato in ricorso – tale scopo deve consistere non solo nel perseguimento di un utile (c.d. lucro oggettivo); ma anche nella volontà di ripartirlo tra i soci (c.d. lucro soggettivo), secondo principi consolidati da tempo nella giurisprudenza di questa corte. All’insussistenza del dedotto vizio di motivazione segue anche l’infondatezza dell’altra doglianza espressa nel motivo di ricorso, essendo pacifico che l’art. 35, comma 3 cit. T.U. costituisce regola applicabile alle società senza scopo di lucro.

3. Con il secondo motivo, i ricorrenti si dolgono della statuizione con la quale la corte di merito ha ritenuto inammissibile la nuova deduzione in appello, e la nuova richiesta di prova orale, di un fatto rilevante ai fini della applicazione nella specie di una normativa speciale non invocata in primo grado. Denunciano la violazione dell’art. 345 cod. proc. civ., sostenendo che la deduzione in appello del fatto consistente nell’intervenuto trasferimento di almeno il 50% degli alloggi costruiti non integra mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto velere nè introduzione di un nuovo tema di indagine, bensì solo la modificazione del profilo giuridico, con il richiamo alla normativa della L.R. n. 18 del 1994; e che la richiesta di prova orale sul dato di fatto sopra indicato era parimenti ammissibile, trattandosi di prova indispensabile ai fini della decisione. Va tuttavia considerato che la corte d’appello ha anche rilevato che l’art. 1 della citata legge regionale ne escludeva 1’applicazione agli alloggi realizzati, come nella specie, con programmi di edilizia agevolata e convenzionata. E poichè tale distinta ragione della statuizione circa la applicazione nella specie della normativa suddetta, sufficiente a sorreggerla autonomamente sul piano logico giuridico, non risulta censurata, il ricorso non merita neppure sul punto accoglimento (cfr. ex multis Cass. n. 24540/2009).

4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese in favore della resistente, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, in Euro 2.000,00 per onorari e Euro 200,00 per spese, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Suprema Corte di Cassazione, il 22 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2011

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