Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13233 del 30/06/2020

Cassazione civile sez. I, 30/06/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 30/06/2020), n.13233

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21346/2018 proposto da:

S.S., (alias S.), rappresentato e difeso dall’avv. Maria

Monica Bausan;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato ex lege in Roma Via Dei Portoghesi 12 presso

l’Avvocatura Generale Dello Stato che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

e contro

Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione

Internazionale di Verona Sezione Padova;

– intimata –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, depositato il

29/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

1/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIETTA SCRIMA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

S.S. (alias S.), cittadino del (OMISSIS), ha proposto ricorso per cassazione, basato su tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno e della Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona – Sezione di Padova e avverso il decreto n. 2878/2018 del Tribunale di Venezia, depositato il 29 maggio 2018 e in pari data comunicato, di rigetto del ricorso dallo stesso proposto in primo grado e volto ad ottenere (come precisato nella nota integrativa del 22 marzo 2018), in via principale, il riconoscimento della protezione sussidiaria o, in subordine, della protezione umanitaria.

A fondamento della proposta domanda, il ricorrente aveva dedotto di aver lasciato il suo Paese a seguito delle minacce subite per aver assistito all’assassinio del proprio datore di lavoro da parte di coloro che gli chiedevano il pizzo ed aveva rappresentato che gli amici degli assassini lo avevano minacciato di morte qualora avesse sporto denuncia alla polizia mentre i familiari della vittima lo avevano denunciato perchè non aveva testimoniato.

Il Ministero dell’Interno ha depositato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa.

La Commissione intimata non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo è così rubricato: “violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – errata motivazione sulla credibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente”.

Con tale mezzo la parte ricorrente contesta le motivazioni addotte dal Tribunale circa la ritenuta sua non credibilità.

2. Con il secondo motivo si denuncia “violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, art. 14, lett. b) e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1bis, per mancata valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria”.

3. Con il terzo motivo si deduce “violazione art. 360 c.p.c., comma 1 comma, n. 3, – violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3) per mancata valutazione della situazione del Paese di origine del richiedente ((OMISSIS)) e errata valutazione dei presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari”.

4. I motivi, da trattare unitariamente, perchè strettamente connessi, devono essere disattesi per le ragioni che seguono.

4.1. Le doglianze proposte con il primo motivo, attinenti alla motivazione del provvedimento impugnato, in relazione alla ritenuta non credibilità del ricorrente, sono inammissibili. Ed invero, lo stabilire se una persona sia credibile o meno costituisce apprezzamento di fatto e, come tale, sfugge al sindacato di legittimità. Inoltre, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il sindacato della motivazione del provvedimento impugnato è consentito nei soli ristretti limiti delineati da tale norma, ai sensi della quale non è più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del medesimo art. 360 c.p.c., n. 4 (Cass., ord., 6/07/2015, n. 13928; v. pure Cass., ord., 16/07/2014, n. 16300) e va, inoltre, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., ord., 8/10/2014, n. 21257). E ciò in conformità al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 7/04/2014, secondo cui la già richiamata riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia – nella specie all’esame non sussistente – si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Le Sezioni Unite, con la richiamata pronuncia, hanno pure precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come da ultimo riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Con riferimento specifico alla protezione internazionale, questa Corte ha già avuto modo di precisare condivisitImente che “La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito” (Cass., ord., 5/02/2019, n. 3340, v. anche Cass., ord., 7/08/2019, n. 21142).

Nella specie, in sostanza, il ricorrente censura, inammissibilmente, la valutazione delle sue dichiarazioni e della documentazione prodotta operata dal Tribunale, il quale ha ampiamente motivato in tema di non credibilità della detta parte (v. p. 6 e 7 del decreto impugnato).

A quanto precede va aggiunto che non è stato riportato in ricorso il tenore letterale dei documenti indicati a p. 5 di tale atto, con conseguente difetto di specificità delle censure proposte al riguardo, e che non risulta specificamente contestata la ratio decidendi del decreto impugnato (v. p. 7) circa la ritenuta non significatività della documentazione prodotta, priva di data certa e di incerta provenienza.

4.2. Vanno rigettate le doglianze relative alla lamentata inosservanza, da parte del primo Giudice, del principio di cooperazione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 alla luce dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, al quale va data continuità in questa sede, secondo cui, in tema di riconoscimento della protezione sussidiaria, il principio secondo il quale, una volta che le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere ad approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori, non riguarda soltanto le domande formulate ai sensi dell’art. 14, lett. a) e b) predetto decreto, ma anche quelle formulate ai sensi dell’art. 14, lett. c), poichè la valutazione di coerenza, plausibilità e generale attendibilità della narrazione riguarda “tutti gli aspetti significativi della domanda” (art. 3, comma 1) e si riferisce a tutti i profili di gravità del danno dai quali dipende il riconoscimento della protezione sussidiaria (Cass., ord., 19/02/2019, n. 4892). Questa Corte ha pure condivisibilmente precisato che “In materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5” (Cass., ord., 12/06/2019, n. 15794).

Va pure evidenziato che questa Corte ha altresì affermato che “In tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a) essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati. La valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c) ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate” (Cass., ord., 30/10/2018, n. 27503) e nella specie, con accertamento in fatto, il Tribunale ha ritenuto che le dichiarazioni rese dal ricorrente sono poco credibili e che la predetta parte non ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda come previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, motivando al riguardo.

Stante la ritenuta non credibilità del suo racconto, il ricorrente non può, quindi, dolersi della circostanza che il Giudice di merito non abbia “indagato” in relazione al “reale pericolo di danno grave che correrebbe… (la predetta parte) qualora fosse detenut(a) in carcere”.

4.3. A quanto precede va aggiunto che, citando fonti internazionali attendibili e sufficientemente aggiornate (v. p. 10 del decreto impugnato), il Tribunale ha pure accertato in fatto che nel Paese di origine del ricorrente non si è in presenza di un conflitto armato interno da cui possa conseguire violenza indiscriminata e che, pur registrandosi in (OMISSIS) moderate tensioni politiche, con particolare riferimento al conflitto tra il partito al governo, (OMISSIS), e quello di minoranza, (OMISSIS), i contrasti tra le opposte fazioni non si spingono al punto di concretare un rischio generalizzato di violenza per la popolazione civile.

4.5. Parimenti da disattendere sono le doglianze relative al mancato riconoscimento della protezione umanitaria.

A tale proposito il ricorrente sostiene che debba essere a lui riconosciuta “una situazione di vulnerabilità da proteggere” per il fatto che, qualora tornasse nel paese d’origine, potrebbe essere condannato a morte per l’accusa di omicidio, sarebbe messo nella condizione di rischiare la vita per la dura condizione carceraria, i soprusi da parte della polizia, le violenze a cui la popolazione è soggetta a causa degli scontri tra le fazioni politiche e l’insicurezza generale del suo Paese; chiede, inoltre, la rivalutazione del suo percorso di integrazione in Italia.

Le censure sono inammissibili in quanto, con le riportate doglianze, il ricorrente, sia con riferimento alla dedotta situazione di vulnerabilità soggettiva, sia in relazione alla situazione del suo Paese, tende ad una rivalutazione degli accertamenti di fatto effettuata dai Tribunale che ha escluso, con adeguata motivazione, nel caso concreto, la sussistenza di fattori di vulnerabilità soggettiva e oggettiva, evidenziando anche la ritenuta non credibilità del ricorrente. Va peraltro rimarcato che il fattore dell’integrazione sociale è recessivo, qualora difetti, come nel caso all’esame, la vulnerabilità, come affermato da questa Corte proprio con la sentenza 23/02/2018, n. 4455, richiamata nel decreto impugnato nonchè dallo stesso ricorrente.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

6. Non vi è necessità di pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità, atteso che il Ministero dell’Interno si è costituto, oltre i termini di legge per il controricorso, al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione (non tenutasi, poichè la controversia è stata decisa in adunanza camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c.), mentre l’altra parte destinataria della notifica del ricorso è rimasta intimata.

7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass., sez. un., 20 settembre 2019, n. 23535), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2020

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