Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13223 del 28/05/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 13223 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: GARRI FABRIZIA

SENTENZA

sul ricorso 15609-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

691

LA SALA ANTONIO, domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato

Data pubblicazione: 28/05/2013

SCARTABELLI

CARLO,

giusta

delega

in

atti

e

dall’avvocato BECHI ROBERTA, giusta procura notarile
in atti;
– controricorrente
avverso la sentenza n.

718/2007 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 21/02/2013 dal Consigliere Dott. FABRIZIA
GARRI;
udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega PESSI
ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

di FIRENZE, depositata il 05/06/2007 R.G.N. 889/2005;

Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Firenze ha respinto l’appello proposto da Poste Italiane s.p.a. e dichiarato
assorbito l’appello incidentale proposto in via condizionata da Antonio La Sala , confermando la
sentenza di primo grado che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al primo dei contratti
stipulati con la società a decorrere dal 29.12.1999 e accertata la persistenza da tale data del rapporto di
lavoro ?ha condannato la società al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dalla messa in

Per la cassazione della sentenza ricorre la società Poste Italiane sulla base di sei motivi ulteriormente
illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..
Resiste con controricorso il Di Domenico.

Motivi della decisione
Vanno esaminate con precedenza le censure mosse alla sentenza e relative al secondo ed il terzo
motivo di ricorso relativi alla violazione e falsa applicazione dell’art. 23 della 1. n. 56 del 1987 e degli
accordi collettivi stipulati con specifico riferimento alla possibilità, o meno, per le parti socieli
destinatarie di una “delega in bianco” da parte del legislatore di “individuare in astratto le condizioni per
il riwr o alle assunzioni a termine, avendo il legislatore ritenuto di costituire sufficiente garanzia di
legalid la valutazione operata dalle parti sociAli pArtieolfternente qualificate” e per violazione &Watt
1362 e ss c.c., oltre che per omessa ed insufficiente motivazione in relazione ad un fatto conttovetso z
decisivo per il giudizio evidenziando che non vi sono limiti ed ostacoli nella tipologia dei nuovi contratti
a termine in relazione alle ipotesi che ne legittimano la conclusione e che gli accordi successivi a
quello del 25.9.1997 non hanno natura negoziale ma meramente ricognitiva del fenomeno della
ristrutturazione e riorganizzazione in atto.
Contesta, poi, l’interpretazione data dal Tribunale e confermata dalla Corte d’appello all’accordo
collettivo del 1997 ritenendo che la disposizione collettiva, che aveva capovolto il rapporto tra regola
generale, del rapporto a tempo indeterminato, ed eccezione, del rapporto di lavoro a termine, non
dovesse avere necessariamente una efficacia temporale limitata
Tali censure sono infondate.
I giudici di merito hanno infatti individuato negli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza,
l’imposizione di un termine finale di efficacia alla causale giustificativa dell’apposizione di un termine al
contratto di lavoro – di origine contrattuale collettiva (come consentito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23) zglaúya alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, rilevando che tale termine era scaduto il 30
aprile 1995 e quindi in duni una:cedente :4 41-1C11A diCe3 ritrati di lavero eaamlati.
In proposito, va ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Gess.
S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09),
la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione
collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un
termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del
1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.
r.g. n. 15609/2008

F.Garri

mora del 16.7.2004 oltre accessori di legge e spese.

confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno
dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla
previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno
opposto.
Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è
affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba
essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta
l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo
sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27
aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione
descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per
far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con
contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei
contratti stipulati successivamente a tale data.
Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:
– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è
stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più
diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;
– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o
le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anziché in quello
secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero
inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;
– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti,
l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga
e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto si era già perfezionato.
Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte
r.g. n. 15609/2008
carri

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso
l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle
stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto
2008 n. 21063).
Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre
1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2
del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro
(oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze
eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso,
quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale
introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione
del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”. Inoltre, in pari data, le
medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31
gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per
affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali
condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.
Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866,
28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla
presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente

stipulato successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla
ricorrente, sopra riassunte. Le esposte considerazioni rendono irrilevante, in quanto assorbito, l’esame
della censura formulata nel quarto e nel quinto motivo di ricorso (quest’ultimo relativo alla legittimità
del termine apposto al contratto successivamente intercorso tra le parti e regolato dalla L. n. 368/2001).
Peraltro con riguardo al citato contratto (del 1.2.2002) la Corte di appello ne ha omesso l’esame,
oggetto di specifico appello incidentale, proprio perché ha ritenuto assorbita la questione.
Tale specifica ratio decidendi non è stata censurata dalla società che con il quinto motivo di ricorso ha
invece concentrato le sue doglianze su una pretesa errata applicazione della legge n. 368/2001 con
riguardo alla facoltà per le parti sociali di individuare fattispecie autorizzato rie dell’apposizione del
termine con efficacia per tutti i dipendenti.
Quanto alla risoluzione per mutuo consenso del rapporto, oggetto del primo motivo di ricorso sotto il
profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 commi 1 e 2 c.c., oltre che della insufficiente e
contraddittoria motivazione in relazione a circostanze rivelatrici della volontà di sciogliere il rapporto (la
mancanza di obiezioni da parte del lavoratore all’atto della cessazione del rapporto, durato pochi mesi,
accompagnata dalla percezione senza riserve del tfr) ritiene la Corte che la sentenza di appello non sia
incorsa nei vizi denunciati.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (vedi, per tutte, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554 e
Cass. 20 gennaio 2012, n. 802) nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un
unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione a relativo
contratto di un termine finale ormai scaduto) per la configurabilità di una risoluzione del rapporto
per mutuo consenso è necessario che sia accertata — sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la
conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché alla stregua delle modalità di tale
conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e
certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto
lavorativo.
La valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice
del merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o
errori di diritto. Nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che la mera inerzia del lavoratore dopo
la scadenza del contratto non fosse sufficiente, stante la sua durata, e in mancanza di ulteriori elementi
di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto
per mutuo consenso e tale conclusione in quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle
censure mosse in ricorso (cfr. in senso conforme anche Cass. n. 4655/2013 e 1562/2013).

r.g. n. 15609/2008

Fnr i

valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati
nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la
Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti (ancorché non intesi nel caso di specie in senso tecnico,
trattandosi della interpretazione di contratti collettivi di diritto comune, il cui controllo in sede di
legittimità non è diretto, come poi stabilito per le sentenze depositate successivamente al 1 marzo 2006
dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 e art. 27, comma 2), sul quale si fonda per larga parte
l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme
interpretazione della legge. La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola
appositiva del termine al contratto di lavoro della parte resistente per la causale indicata, in quanto

Ed infatti la censura è in parte inammissibile poiché non incide direttamente sulla pronuncia della Corte
territoriale che ha accertato che sulla decorrenza del risarcimento, in mancanza di una specifica
impugnazione, si era formato un giudicato interno.
Tale passo della decisione non è stato specificatamente impugnato ed è divenuto intangibile.
Quanto alla prova del danno ed alla necessità di detrarre l’ aliunde percotum , che ne può anche del tutto
elidere il contenuto, rileva la Corte che la censura è prospettata sia sotto il profilo della violazione di
legge (art. 360 c.p.c., n. 1, comma 3) che con riferimento ad una omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Ad avviso della società ricorrente, in ordine alla richieste economiche, la domanda di condanna non
appariva supportata dal benché minimo elemento probatorio ex art. 2697 c.c..
Il quesito di diritto ha il seguente oggetto: “se in caso di domanda di risarcimento danni proposta dal
lavoratore a seguito dell’intervenuto scioglimento del rapporto di lavoro determinatosi per effetto
dell’iniziativa del datore di lavoro fondata su clausola risolutiva contrattuale nulla, rimane a carico dello
stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e di provare il danno da “scioglimento del
rapporto di lavoro fondato su clausola risolutiva contrattuale nulla” e se tale danno può equivalere alle
retribuzioni perdute – detratto l’aliunde percOtum – a causa della mancata esecuzione delle prestazioni
lavorative, e se presuppone che queste siano state offerte dal lavoratore e che il datore le abbia
illegittimamente rifiutate; se il risarcimento è da escludere ove si accerti che il danno del lavoratore
(derivante dalla perdita delle retribuzioni) si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi
percepiti per prestazioni lavorative svolte – nel periodo considerato – presso altri datori di lavoro.”
Con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la società ricorrente, invoca, altresì, quanto alle
conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine,
l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32.
Il motivo è inammissibile.
Va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio
di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del
rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni
oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è
limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass., n. 10547 del 2006). In tale contesto, è, altresì,
necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina
sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (Cass.,
n. 80 del 2011).
In caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche
dell’accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la
stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.
(g?Garri
r.g. n. 15609/2008

Da ultimo, è infondato il sesto motivo di ricorso con il quale viene censurata la sentenza nella parte in
cui, con riguardo alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del
termine, ha ritenuto che la società non avesse offerto alcuna prova dell’ allegato aliunde perceptum laddove
invece era onere del lavoratore allegare e provare il danno subito per effetto dell’interruzione del
rapporto, che può, ma non deve , equivalere alle retribuzioni perdute dall’effettiva offerta della
prestazione (che non può automaticamente essere identificata nella richiesta di tentativo obbligatorio di
conciliazione della lite) e che debbano essere decurtate le somme dal lavoratore medio tempore percepite
a titolo retributivo.

conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.
Ciò tenuto conto che, come questa Corte ha avuto modo di affermare, il dipendente che cessa
l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del
danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di
lavoro di riceverla, a condizione che il datore stesso sia stato posto in una condizione di
“mora accipiendt” senza, peraltro, che si configuri l’automatica equivalenza del risarcimento ai compensi
retributivi perduti, poiché tale automatismo è da escludersi ove si accerti che il danno del lavoratore
(derivante dalla perdita della retribuzione) si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi
percepiti per prestazioni lavorative svolte – nel periodo considerato – presso altri datori di lavoro (Cass.,
n. 24886 del 2006, n. 4677 del 2006).
Nel caso in esame la genericità, astrattezza e quindi non pertinenza del quesito determina
l’inammissibilità del relativo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. (cfr. per una fattispecie
identica Cass. n. 2499/2012).
Quanto all’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32
commi 5, 6 e 7, e chiesta nelle note depositate ai sensi dell’art. 378 c.p.c., occorre premettere che nel
giudizio di legittimità costituisce condizione necessaria per poter applicare lo ius superveniens che abbia
introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che
quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in
ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di
ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).
In particolare, con riferimento alla disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa
pertinente presuppone, nel giudizio di cassazione, che i motivi del ricorso investano specificatamente e
in maniera ammissibile, secondo la disciplina loro propria, le conseguenze patrimoniali dell’accertata
nullità del termine; deve pertanto altresì trattarsi di motivi non tardivi, generici o affetti da altra causa di
inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto dell’art. 366 bis c.p.c., ove applicabile

ratione temporis.
In caso di assenza o inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche della
clausola di durata, illegittimamente apposta, il rigetto per tali cause dei motivi non può, quindi, che
determinare la stabilità e irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate.
Poiché, come si è sopra rammentato, la censura della società relativa al risarcimento del danno è
inammissibile, l’ art. 32, commi 5-7 della L. n. 183 del 2010 non trova applicazione al caso in esame.
Concludendo, in base alle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in
r.g. n. 15609/2008

garri

Il quesito di diritto, che la norma del codice di rito richiede a pena di inammissibilità del relativo
motivo, deve infatti essere formulato, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in maniera specifica e
deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr., ad es., Cass., S.U., n. 36 del
2007), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico o non pertinente.
In proposito, come rilevato da Cass., S.U., n. 2658 del 2008, a fini indicativi “potrebbe apparire utile il
ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale
quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto
auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui
erroneità sono adeguatamente illustrate nel motivo.
Il quesito di diritto sopra richiamato è generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si
risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di

ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, secondo la liquidazione fatta in
dispositivo.

PQM
LA CORTE
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che si liquidano in € 3.500,00 per

Così deciso in Roma il 21.2.2013

compensi professionali ed in € 50,00 per esborsi. Oltre I.V.A. e C.P.A..

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