Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13202 del 30/06/2020

Cassazione civile sez. I, 30/06/2020, (ud. 19/12/2019, dep. 30/06/2020), n.13202

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ARIOLLI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33869/2018 proposto da:

I.A., considerato domiciliato in Roma, piazza Cavour,

presso la Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avv.

Irene Maruccoi;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di TORINO, depositato il 9/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/12/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

I.A., cittadino (OMISSIS), ha proposto ricorso per cassazione – basato su tre motivi e con il quale ha prospettato pure dubbi sulla costituzionalità del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, introdotto dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g) – nei confronti del Ministero dell’Interno e avverso il decreto n. 5087/2018 del Tribunale di Torino, depositato il 9 ottobre 2018 e comunicato in pari data, di rigetto del ricorso dallo stesso proposto in primo grado e volto ad ottenere il riconoscimento della protezione sussidiaria o, in subordine, della protezione umanitaria.

A fondamento della domanda il ricorrente ha sostenuto che: era figlio unico e di religione cristiana; dopo la morte dei suoi genitori, era andato a vivere con una zia che era una native doctor, la quale aveva “fatto il malocchio su di lui” per salvare suo figlio da un ritardo mentale; a causa del terrore provato nei confronti della zia e credendo nei poteri della stessa, era fuggito ed era andato a vivere con un amico, lavorando con questi in un’officina meccanica; si era poi recato in Libia dove era rimasto per cinque anni continuando a lavorare come meccanico e vivendo con la sua ragazza; essendo peggiorata la situazione in Libia, era venuto in Italia e, dopo alcuni mesi, era stato raggiunto dalla sua ragazza; a causa di un litigio con tale ragazza, aveva lasciato il centro di accoglienza e viveva per strada. Il ricorrente ha pure dichiarato di non avere futuro in Nigeria e che in caso di rimpatrio si troverebbe a vivere in situazione di povertà e di insicurezza.

L’intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Come già sopra evidenziato, il ricorrente ha, in ricorso, prospettato dubbi sulla “legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, introdotto dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g), per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1; art. 24 Cost., commi 1 e 2; art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5; art. 117 Cost., comma 1, così come integrato dall’art. 46, paragr. 3 della Direttiva n. 32/2013 e degli artt. 6 e 13 della CEDU, per quanto concerne la previsione del rito camerale ex artt. 737 c.p.c. e segg. e relative deroghe espresse dal legislatore, nelle controversie in materia di protezione internazionale”.

1.1. Il Collegio ritiene carente del requisito della non manifesta infondatezza la questione di costituzionalità prospettata dal ricorrente. Sul punto questa Corte ha già condivisibilmente precisato che “E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 1, poichè il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di “status”, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte” (Cass. 5/07/2018, n. 17717).

Con riferimento, poi, alla eliminazione del grado di appello disposta con dell’art. 35-bis, comma 13, di cui pure si duole il ricorrente, va ribadito l’orientamento espresso già da questa Corte e secondo cui “E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che il procedimento per l’ottenimento della protezione internazionale è definito con decreto non reclamabile in quanto è necessario soddisfare esigenze di celerità, non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado ed il procedimento giurisdizionale è preceduto da una fase amministrativa che si svolge davanti alle commissioni territoriali deputate ad acquisire, attraverso il colloquio con l’istante, l’elemento istruttorio centrale ai fini della valutazione della domanda di protezione” (Cass. ord., 30/10/2018, n. 27700; Cass., ord., 5/11/2018, n. 28119).

2. Con il primo motivo si deduce “violazione e/o erronea applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 9, 10 e 11, anche per totale mancanza di motivazione”.

Il ricorrente lamenta che, pur avendo il suo difensore chiesto di fissare l’udienza in Camera di consiglio, stante la mancata messa a disposizione, da parte della Commissione territoriale competente, della videoregistrazione della sua audizione, il Tribunale non abbia fissato tale udienza, omettendo ogni motivazione al riguardo.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Ed invero, oltre a difettare di specificità, non essendo stato riportato in ricorso in quali esatti termini testuali sia stata proposta l’istanza di fissazione dell’udienza in Camera di consiglio, la censura risulta pure formulata in termini contraddittori (mancata messa a disposizione della videoregistrazione dell’audizione del ricorrente da parte della Commissione territoriale competente, v. ricorso p. 14) rispetto a quanto dedotto nello stesso ricorso a p. 2 (totale mancanza della videoregistrazione). Si evidenzia, inoltre, che, nelle “premesse in fatto” del decreto impugnato, il Tribunale ha dato atto che “Con decreto dell’11 luglio 2018, il Collegio ha disposto l’udienza che si è svolta il 3 ottobre davanti al giudice delegato cui il Richiedente ha rilasciato dichiarazioni; in seguito, il fascicolo è stato rimesso al Collegio per la decisione”, senza che alcuna contestazione sia stata specificamente sollevata al riguardo dal ricorrente, sicchè, alla luce di quanto risulta dal decreto impugnato e appena riportato, difetta pure ogni interesse alla doglianza.

3. Con il secondo motivo si denuncia: “violazione e/o erronea applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b e c), in combinato disposto con il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8”.

Il ricorrente lamenta che il Tribunale abbia rigettato la richiesta di protezione sussidiaria ritenendo insussistenti gli elementi previsti dalla normativa in relazione alla protezione in parola, avendo ritenuto inattendibile il ricorrente, in relazione alle condizioni del Paese di origine e al rischio del danno grave in caso di rientro; sostiene che la non disposta audizione non avrebbe consentito di chiarire quanto dalla predetta parte dichiarato e deduce che la situazione di instabilità della Nigeria abbia condotto ad una generalizzata violazione dei diritti umanitari, “per cui in caso di rientro nel paese di origine, il ricorrente avrebbe gravissime conseguenze anche in relazione alla sua vita stessa”.

3.1. Il motivo è inammissibile, in quanto, con lo stesso, pur dietro la formale prospettazione del vizio di violazione di legge, si propongono, in sostanza, censure riferite al merito della decisione impugnata.

Le eccezioni difensive sono volte, in effetti, non a censurare l’applicazione della norma di legge, siccome compiuta dal Tribunale – il quale, dopo aver evidenziato che il richiedente non ha ricollegato “al rimpatrio alcun timore specifico, ma generiche insicurezze”, e tali affermazioni non sono state oggetto di specifiche censure da parte del ricorrente, e dopo aver ritenuto che la paura del malocchio della zia non integri il rischio di subire un trattamento disumano, ha accertato, in fatto, l’insussistenza di una situazione di pericolo nel Paese d’origine con riferimento specifico dalla zona di provenienza del ricorrente (Sud-Ovest della Nigeria), avvalendosi di fonti aggiornate, peraltro autorevoli e specificamente richiamate – ma a proporre una valutazione alternativa della situazione esistente in generale in Nigeria rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, sulla base di fonti diverse, e in tesi più affidabili, rispetto a quelle considerate dal giudice di merito.

4. Con il terzo motivo si deduce “violazione e/o erronea applicazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6, art. 19, ed in relazione all’art. 10 Cost., comma 3”.

Sostiene il ricorrente che il Tribunale avrebbe attuato una ingiustificata sovrapposizione della protezione umanitaria con quella sussidiaria, richiamando gli elementi di quest’ultima in relazione alla prima; rappresenta che, nel caso all’esame, sussisterebbe la sua vulnerabilità, tenuto conto delle terribili esperienze subite cui andrebbero aggiunti gli elementi di integrazione sul territorio nazionale; assume che la situazione della Nigeria, pur a voler ritenere che non costituisca elemento per la concessione della protezione sussidiaria, delineerebbe, comunque, a suo avviso, un quadro lontanissimo dalle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.

4.1. Il motivo è inammissibile, evidenziandosi che il Tribunale non è incorso nella lamentata sovrapposizione e, in base ad un accertamento in fatto, insindacabile in questa sede, ha escluso, nella specie, condizioni di vulnerabilità meritevoli della protezione umanitaria, debitamente motivando al riguardo.

Va peraltro rimarcato che questa Corte ha già avuto modo di affermare che non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè tale diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 3/06/2018, n. 17071). Va ribadito al riguardo quanto affermato da questa Corte con l’ordinanza 24/09/2019, n. 23778 (pur sulla scia di Cass. 23/02/2018, n. 4455), secondo cui “occorre il riscontro di “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale, mediante una valutazione comparata della vita privata e familiare del richiedente in Italia e nel Paese di origine, che faccia emergere un’effettiva ed incolmabile sproporzione nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, da correlare però alla specifica vicenda personale del richiedente… altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 cit., art. 5, comma 6″ (v. anche Cass. 3/04/2019, n. 9304).

Trattasi di principi ribaditi da ultimo anche da Cass., sez. un. 13/11/2019, n. 29460.

Nella specie, difettano i termini oggettivi di un’effettiva comparabilità, al fine di censire la vulnerabilità del ricorrente e va pure aggiunto che l’odierna censura è inammissibile anche per sostanziale genericità.

5. Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.

6. Non vi è luogo a provvedere per le spese del giudizio di cassazione nei confronti dell’intimato, non avendo lo stesso svolto attività difensiva in questa sede.

7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20 settembre 2019, n. 23535; v. anche Cass. 5/04/2019, n. 9660; Cass., ord., 30/10/2019, n. 27867; Cass., ord., 14710/2019, n. 25862), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2020

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