Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13196 del 25/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 25/05/2017, (ud. 01/03/2017, dep.25/05/2017),  n. 13196

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11040/2015 proposto da:

P.S., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA LUNIGIANA 6, presso GREGORIO D’AGOSTINO, rappresentato e difeso

dall’avvocato ANTONIO CARDILE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ENCAL – CISAL Confederazione Italiana Sindacati Autonomi Lavoratori,

C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TORINO 95 – ENCAL CISAL,

presso lo studio dell’avvocato FRANCO GIAMPA’, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1390/2014 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 08/10/2014 R.G.N. 535/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/03/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto; è comparso l’Avvocato FRANCO GIAMPA’.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte di appello di Messina, con sentenza del 23 settembre 2014, in accoglimento del gravame proposto da ENCAL CISAL, riformando la sentenza del Giudice del lavoro del locale Tribunale, ha rigettato la domanda proposta da P.S. avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato dal Patronato ENCAL in data 6.10.2011.

2. Al P., dipendente part-time, era stato contestato: a) di avere violato l’art. 10 del Regolamento organico del personale, secondo cui con la qualità di dipendente ENCAL è incompatibile qualunque altro impiego sia pubblico che privato ed è pure incompatibile ogni altra occupazione o attività che non sia ritenuta conciliabile con l’osservanza dei doveri d’ufficio e con il decoro dell’ente; b) di essersi reso irreperibile alla visita medica di controllo nei giorni (OMISSIS) e (OMISSIS); c) di essere rimasto ingiustificatamente assente dal posto di lavoro il giorno (OMISSIS) per non avere ottenuto l’autorizzazione a fruire del giorno di ferie.

3. La Corte territoriale, respinte le eccezioni preliminari sollevate dal Patronato, ha accolto nel merito il gravame, sulla base delle seguenti considerazioni:

a) il lavoratore non aveva provato di avere comunicato preventivamente al datore di lavoro di avere intrapreso un’altra attività lavorativa; stante l’assoluto divieto di espletare una qualunque altra forma di attività di lavoro, l’averla svolta costituiva un grave inadempimento disciplinare, restando irrilevante la circostanza che la diversa attività fosse stata prestata al di fuori dell’orario di lavoro;

b) quanto alla violazione dell’obbligo di rendersi reperibile durante le prescritte fasce orarie per sottoporsi a visita sanitaria di controllo, era onere del ricorrente provare l’esistenza di uno specifico impedimento, nella specie non dimostrato;

c) quanto all’assenza ingiustificata dal lavoro del (OMISSIS), una volta richiesta l’autorizzazione a fruire di un giorno di ferie, era onere del lavoratore munirsene, non potendo attribuirsi alla mancata ricezione il significato di concessione, per cui deve ritenersi arbitraria l’assenza del dipendente che non abbia previamente accertato di essere stato autorizzato.

4. Per la cassazione di tale sentenza S. propone ricorso affidato a tre motivi. Resiste ENCAL CISAL con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, per inosservanza del principio di tempestività e immediatezza nell’irrogazione della sanzione disciplinare, nonchè omesso esame di un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5), sostiene di avere prospettato in primo grado, con eccezione riproposta in appello ex art. 436 c.p.c., che la contestazione relativa al primo addebito risaliva al 5.8.2011 e le giustificazioni erano state espresse con nota ricevuta da ENCAL il 22.8.2011; che pertanto il Patronato avrebbe dovuto adottare il provvedimento disciplinare entro quindici giorni dalla risposta dell’incolpato, come previsto dal CCNL di settore firmato da CISAL, e quindi entro il 6.9.2011, non essendovi motivo di attendere due mesi e mezzo, come nella specie era avvenuto con l’irrogazione del licenziamento del 4.11.2011.

2. Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, con riguardo all’art. 10 del Regolamento organico del Personale, deduce che:

– sebbene l’incompatibilità fosse stata chiaramente contemplata dal Regolamento, non vi era alcuna previsione che portasse a sanzionare come illecito disciplinare tale violazione;

– che comunque lo svolgimento di un’attività lavorativa integrativa da parte di un lavoratore in regime di part-time, quale era il rapporto da lui intrattenuto con ENCAL, non è da considerare comportamento illecito, ma neppure biasimevole, in particolare nei casi in cui il reddito da lavoro dipendente sia insufficiente a garantire un sostentamento dignitoso (il reddito percepito presso ENCAL ammontava ad Euro 500,00 mensili);

– ove la norma regolamentare fosse interpretata in modo da non consentire che l’incompatibilità venga valutata in concreto e non in astratto, la stessa si porrebbe in contrasto con l’art. 4 Cost.;

– nel caso di specie, ENCAL non aveva dimostrato in che cosa consistesse l’asserita incompatibilità: il ricorrente non era stato accusato di sviamento di clientela, nè di attività concorrenziale, nè di assenze dal posto di lavoro finalizzate allo svolgimento di altra attività lavorativa.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c., nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 7, per difetto di proporzione tra addebiti contestati e sanzione disciplinare irrogata, divieto di cumulo di sanzioni, nonchè motivazione apparente in ordine a tali eccezioni (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5). Contesta specificamente la rilevanza disciplinare del secondo e del terzo addebito.

4. Il primo motivo è infondato. La sentenza impugnata, pur non avendo espressamente motivato in ordine alla tempestività della sanzione disciplinare, ha comunque implicitamente disatteso la relativa eccezione, com’è possibile desumere dal complessivo tenore della decisione, la quale ha considerato ammissibile l’unificazione ai fini sanzionatori dei fatti successivi, intervenuti in un ristretto lasso temporale; difatti, la seconda infrazione risale al 31 agosto, a pochi giorni di distanza dalle giustificazioni rese il 22 agosto per il precedente addebito (e quando ancora non era scaduto il termine di quindici giorni indicato dal ricorrente). Il giudizio espresso dalla Corte di appello ha dunque investito il licenziamento basato sulla predetta unificazione sul presupposto della legittimità della valorizzazione unitaria degli illeciti, quali apprezzati nella loro globalità dallo stesso datore di lavoro ai fini dell’irrogazione della sanzione espulsiva. La tempestività della sanzione va valutata in rapporto all’ultimo dei fatti contestati, riconducibili ad una sequenza connotata da ragionevole unitarietà temporale, e non solo del primo, isolatamente considerato.

5. Il secondo motivo è fondato. L’art. 10 del Regolamento organico del personale ENCAL così dispone: “Con la qualità di dipendente dell’ENCAL è incompatibile qualunque altro impiego sia pubblico che privato. E’ pure incompatibile ogni altra occupazione o attività che non sia ritenuta conciliabile con l’osservanza dei doveri di ufficio e con il decoro dell’Ente”.

5.1. La sentenza impugnata ha fondato il proprio convincimento sul fatto rappresentato dall’esercizio (in sè) di un’altra attività lavorativa, prestata dal P., dipendente dal Patronato ENCAL in regime di part-time, al di fuori dell’orario di lavoro, osservando che il divieto contemplato dalla prima parte della suddetta disposizione ha carattere assoluto e non presenta spazi interpretativi di sorta che giustifichino l’inottemperanza allo stesso, a meno di munirsi di apposita autorizzazione.

5.2. Il motivo del ricorso per cassazione investe specificamente il passaggio argomentativo che ha ritenuto il carattere assoluto del divieto, a prescindere da qualsiasi verifica in concreto della incompatibilità. Invero, siffatta lettura della disposizione regolamentare non può essere accolta, se riferita ad un prestatore di lavoro in regime di part-time, non potendo il datore di lavoro disporre della facoltà del proprio dipendente di reperire un’occupazione diversa in orario compatibile con la prestazione di lavoro parziale; in tali casi, l’incompatibilità essere valutata dall’Ente in concreto.

5.3. Difatti, pure in presenza di due distinte proposizioni contenute nella previsione, la prima delle quali contempla testualmente una incompatibilità assoluta tra la qualità di dipendente ENCAL e lo svolgimento di “qualunque altro impiego sia pubblico che privato”, l’unica lettura interpretativa coerente con il dettato costituzionale di cui agli artt. 4 e 35 Cost., è quella che legittima la verifica della incompatibilità in concreto della diversa attività, svolta al di fuori dell’orario di lavoro, con le finalità istituzionali e con i doveri connessi alla prestazione, ai sensi degli artt. 2104 e 2105 c.c., mentre sarebbe nulla una previsione regolamentare che riconoscesse al datore di lavoro un potere incondizionato di incidere unilateralmente sul diritto del lavoratore in regime di part-time di svolgere un’altra attività lavorativa.

5.4. L’unica interpretazione che rende legittima la previsione regolamentare è quella che esige, anche per l’esercizio di un’attività lavorativa al di fuori dell’orario di lavoro, al pari delle altre “occupazioni o attività” di cui alla seconda proposizione della stessa norma, una verifica di incompatibilità in concreto tra l’esercizio della diversa attività e l’osservanza dei doveri d’ufficio o la conciliabilità con il decoro dell’Ente.

5.5. Inoltre, ammettere che il datore di lavoro abbia una facoltà incondizionata di negare l’autorizzazione o di sanzionare in sede disciplinare il fatto in sè dell’esercizio di un’altra attività lavorativa al di fuori dell’orario di lavoro sarebbe in contrasto con il principio del controllo giudiziale di tutti i poteri che il contratto di lavoro attribuisce al datore di lavoro, e proprio con riferimento ad aspetti incidenti sul diritto al lavoro. L’incompatibilità deve essere verificata caso per caso, proprio nei termini pretesi dall’odierno ricorrente, restando tale valutazione suscettibile di controllo, anche giudiziale.

5.6. Nel secondo motivo di ricorso si è pure evidenziato che nella specie era mancato l’accertamento giudiziale (e finanche l’allegazione di parte datoriale) circa i fatti che sarebbero stati ostativi agli interessi dell’Ente o incidenti sul corretto svolgimento della prestazione lavorativa e sull’affidabilità del dipendente. Il ricorrente ha sottolineato che non era stato accusato di sviamento di clientela, nè di attività concorrenziale, nè di assenze dal posto di lavoro finalizzate allo svolgimento di altra attività lavorativa.

5.7. Dovendosi ritenere che l’erronea interpretazione dell’art. 10 del Regolamento del personale dell’Ente abbia inciso sulla specificazione di uno dei parametri della giusta causa (identificato appunto nella inosservanza del divieto assoluto di svolgere un’altra attività lavorativa), nonchè sul giudizio conclusivo espresso dalla Corte di appello quanto alla rilevanza disciplinare del complesso dei fatti ascritti, valutati espressamente nella loro unitarietà, l’accoglimento del secondo motivo comporta la cassazione dell’intero giudizio di legittimità del licenziamento disciplinare, rendendo necessario il riesame del merito e la rinnovazione dell’operazione di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta della giusta causa, alla luce dei principi sopra enunciati.

6. Resta assorbito l’esame del terzo motivo, vertente sulla proporzionalità della sanzione, il cui giudizio compete al giudice di merito all’esito della rinnovata valutazione dei fatti posti a base del licenziamento disciplinare. In proposito, giova ribadire che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali come quella di cui all’art. 2119 o all’art. 2106 c.c., che dettano tipiche “norme elastiche”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poichè l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca (Cass. n. 25144 del 2010).

7. In conclusione, respinto il primo motivo, va accolto il secondo, assorbito il terzo, e la sentenza deve essere cassata con rinvio ex art. 384 c.p.c., comma 2, prima parte. Si designa quale giudice di rinvio la Corte di appello di Messina, in diversa composizione collegiale, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

PQM

 

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Messina in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2017

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