Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13184 del 17/05/2021

Cassazione civile sez. III, 17/05/2021, (ud. 18/01/2021, dep. 17/05/2021), n.13184

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 245/2019 R.G. proposto da:

T.S., rappresentata e difesa dall’Avv. DIEGO SENTER,

domiciliata in Roma presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

M.A., in proprio ex art. 86 c.p.c., elettivamente

domiciliato in Roma presso lo Studio dell’Avv. CLAUDIO COLINI, via

Albenga 45;

– controricorrente –

e contro

ZURICH INSURANCE PUBLIC LIMITED COMPANY, in persona del procuratore,

G.P., rappresentata e difesa dall’Avv. DANIELE

CATTANEO, e dall’Avv. GIOVANNI PIERI NERLI, elettivamente

domiciliata in Roma presso lo Studio di quest’ultimo, via Fabio

Massimo, 95;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza del 17 ottobre 2018 del Tribunale di Trento,

notificata in data 18 ottobre 2018.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 18 gennaio

2021 dal Consigliere Dott. Marilena Gorgoni.

 

Fatto

RILEVATO

che:

M.A. otteneva il decreto n. 1331/2017, con cui ingiungeva a T.S. il pagamento della somma di Euro 60.217,97, oltre agli interessi ed alle spese della procedura, derivante dal credito professionale per averla assistita, dopo essere subentrato ad un altro legale, nella causa che l’aveva vista contrapposta alla società Campo Carlo Magno S.p.A., poi Unipolsai Assicurazioni S.p.A., per il recupero di un credito professionale, oggetto del Decreto Ingiuntivo n. 9 del 2012: decreto che in primo grado – con la sentenza n. 297/2016 – e in appello – con la sentenza n. 116/2017 – era stato confermato.

T.S. si opponeva al decreto ingiuntivo ottenuto da M.A., svolgendo domanda riconvenzionale, con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. e D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, con cui lamentava l’inadempimento professionale dell’opposto: a) per averla indotta ad addivenire, all’esito della decisione di secondo grado n. 116/2017, ad un accordo transattivo con la controparte, accettando il pagamento dell’importo di Euro 450.000,00 lordi piuttosto che quello di Euro 570.000,00 che avrebbe potuto ottenere; b) per non avere dato seguito alla disposizione con cui, dopo averlo autorizzato ad inviare la proposta transattiva, prima che l’accordo si perfezionasse, gli aveva chiesto di ritirarla; c) per non avere proposto appello incidentale avverso la sentenza n. 297/2016 del Tribunale di Trento in punto di spese.

In ragione di ciò, chiedeva la condanna di M.A. al pagamento di Euro 136.000,00 (Euro 120.000,00, quale differenza tra quanto dovutole da Unipolsai e quanto percepito transattivamente, cui andavano aggiunte le somme alle quali aveva rinunciato per la mancata liquidazione delle spese di lite a suo favore).

M.A. chiedeva di chiamare in giudizio Zurich Insurance Public Limited Company, di respingere l’opposizione al decreto ingiuntivo e la domanda riconvenzionale di T.S. nonchè di condannarla, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

La Zurich Insurance deduceva l’inoperatività della polizza, l’infondatezza della pretesa di T.S., che non aveva provato il nesso causale tra l’inadempimento e il danno, la mancata conclusione della transazione, posto che era intervenuto tra le parti solo uno scambio di e-mail, la mancanza di prova del quantum.

Il Tribunale di Trento, con ordinanza depositata il 17.10.2018, comunicata dalla Cancelleria il 17.10.2018, notificata il 18.10.2018, respingeva l’opposizione al decreto ingiuntivo n. 1331/2017 dell’omonimo Tribunale.

T.S., anche quale titolare dell’impresa individuale Immobiliare Cosmo, ricorre in cassazione avverso detta ordinanza, deducendo due vizi di legittimità.

Resistono con separati controricorsi M.A. e Zurich Insurance P.L.C..

La trattazione del ricorso è stata fissata in Camera di Consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., n. 1 e non sono state depositate conclusioni scritte da parte del PM.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Va, in primo luogo, esaminata la eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata da M.A. al p. 1., p. 4, del controricorso.

Secondo il controricorrente, T.S., nel suo ricorso in opposizione al decreto ingiuntivo, non si sarebbe limitata a contestare l’an e il quantum della pretesa creditoria, ma avrebbe allargato il thema decidendum, allorchè aveva proposto due domande riconvenzionali – la prima, di restituzione dell’acconto versato al professionista, fondata sulla risoluzione per inadempimento del mandato professionale, la seconda, di risarcimento del danno – che avrebbero determinato l’inapplicabilità del rito sommario forense; di conseguenza, l’ordinanza del Tribunale di Trento non sarebbe ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 7, ma sarebbe appellabile.

Mette conto, a tal fine, rilevare che l’ordinanza n. 4002 del 29/02/2016, la sentenza n. 12411 del 17/05/2017 e la decisione, a sezioni unite, n. 4485 del 23/02/2018, hanno affermato il principio, di seguito applicato senza eccezioni dalla giurisprudenza di questa Corte, che le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell’avvocato (oggi, compensi) nei confronti del proprio cliente, previste dalla L. n. 794 del 1942, art. 28, come risultante all’esito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 34 e dell’abrogazione della medesima L. n. 794 del 1942, artt. 29 e 30 – devono essere trattate con la procedura prevista dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, anche nell’ipotesi in cui la domanda (o correlativamente un’eccezione) riguardi l’an della pretesa, con la conseguente ricorribilità per cassazione dell’ordinanza D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 14.

La pronuncia delle sezioni unite del 2018 ha, in special modo, chiarito che la controversia di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 28, come sostituito dal D.Lgs. n. 150 del 2011:

a) può essere introdotta:

– con ricorso, ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., che dà luogo ad un procedimento sommario “speciale”, disciplinato del D.Lgs. n. 150 del 2011, artt. 3,4 e 14;

– oppure ai sensi degli artt. 633 c.p.c. e segg., fermo restando che la successiva eventuale opposizione deve essere proposta ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. e segg., integrato dalla disciplina speciale di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011 e con applicazione degli artt. 648,649,653 e 654 c.p.c.. Deve, invece, escludersi la possibilità di introdurre l’azione sia con il rito ordinario di cognizione sia con quello del procedimento sommario ordinario codicistico disciplinato esclusivamente dagli artt. 702 bis c.p.c. e segg.;

b) resta soggetta al rito di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, anche quando il cliente sollevi contestazioni relative all’esistenza del rapporto o, in genere, all’an debeatur, dovendosi considerare che il rapporto di prestazione d’opera, essendo relativo a prestazioni giudiziali, si presta naturalmente ad essere accertato con il rito sommario; la contestazione dell’an non determina alcuna incidenza sulla possibilità che il processo si svolga e si chiuda con il rito sommario e, dunque, non dà luogo ad una sorta di sopravvenuta inammissibilità del procedimento stesso – peraltro, esclusa dal disposto del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, comma 1 – e nemmeno all’esigenza di disporre il cambiamento del rito ed il passaggio alla cognizione ordinaria.

Quando, però, l’opponente ampli il thema decidendum – il che avviene, esemplificativamente, quando proponga una eccezione di compensazione per credito non liquido o non esigibile o una eccezione o una domanda riconvenzionale sulla quale il giudice investito della domanda dal professionista ritenga di pronunciarsi – la trattazione di tale nuova causa petendi dovrà avvenire, se essa non esorbita dalla competenza del giudice adito, ai sensi dell’art. 14 D.Lgs. cit., ove si presti ad un’istruttoria sommaria, con il rito sommario, e, in caso contrario, con il rito ordinario a cognizione piena, previa separazione delle domande. Se, infine, la domanda riconvenzionale eccedesse la competenza del giudice adito, in applicazione degli artt. 34-36 c.p.c., in tema di connessione, l’intera controversia sarebbe oggetto di spostamento (salvo che la domanda dell’avvocato sia stata proposta con il rito monitorio, considerato il carattere funzionale della competenza del giudice dell’opposizione).

Pur non essendosi espressamente pronunciata sul se il provvedimento emesso all’esito del procedimento, secondo il rito semplificato, sia un’ordinanza ricorribile solo per cassazione ovvero se il giudizio debba essere definito con un provvedimento impugnabile con i normali mezzi e non con il ricorso per cassazione di cui all’art. 111 Cost., che è previsto solo contro le sentenze (o i provvedimenti ad esse assimilabili, perchè decisori) non altrimenti impugnabili, l’inappellabilità dell’ordinanza, ove l’opponente abbia allargato il thema decidendum ed il giudice abbia ritenuto di trattare la controversia con rito sommario, deve ritenersi una conseguenza implicita della decisione n. 4485 del 23/02/2018, la quale fonda buona parte delle proprie argomentazioni proprio sulla pienezza della cognizione del giudice investito della controversia.

In tal senso depone anche la decisione n. 1023 del 16 gennaio 2019, secondo cui la tipologia del rito è il frutto di una decisione legislativa che ha eroso la possibilità di opzioni discrezionali della parte o del giudice e che ha rispettato la ratio che ha guidato il legislatore delegato, secondo cui il controllo di concreta compatibilità della singola lite con le forme semplificate del rito, che, nel procedimento sommario di cognizione facoltativo di cui agli artt. 702 bis c.p.c. e segg., è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice, mentre è sostituito, nel procedimento sommario obbligatorio disciplinato dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3, da una verifica, astratta ed irrevocabile, compiuta a monte dal legislatore. Tale soluzione risulterebbe, per un verso, vantaggiosa, in termini di economia processuale, e, per altro, sarebbe conforme al principio di conservazione degli atti processuali, evitando la declaratoria di inammissibilità che è espressamente esclusa dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3, comma 10, nella parte in cui nega l’applicabilità dell’art. 702 ter c.p.c., comma 2. Sarebbe, infatti, rispettato il D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, “che disciplina in via diretta soltanto l’ipotesi dell’instaurazione, mediante forme errate, di una controversia che dovrebbe essere trattata secondo uno dei riti semplificati dal D.Lgs. n. 150 del 2011; in altri termini, la disposizione non regola espressamente il caso in cui venga instaurata, mediante uno dei riti semplificati, una controversia che non rientra nell’ambito di applicazione dello stesso decreto”. Non solo: sarebbe in piena sintonia con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 65 del 26 aprile 2014 che, con riferimento alla dedotta violazione dei principi della legge delega, riferita al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3, comma 1, ed, in particolare, all’esclusione della convertibilità del rito sommario, ha rilevato che la norma in esame costituisce immediata applicazione del criterio direttivo di cui alla L. n. 69 del 2009, art. 54, comma 4, lett. b), n. 2), il quale – nel ricondurre al modello del procedimento sommario quei procedimenti nei quali sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa – afferma che resta “esclusa per tali procedimenti la possibilità di conversione nel rito ordinario”.

La non convertibilità del rito sommario discende quindi dalla espressa prescrizione impartita dalla legge delega (L. n. 69 del 2009, art. 54, comma 4, lett. b, n. 2) e corrisponde, altresì, alla inammissibilità – ripetutamente affermata dalla giurisprudenza di questa Corte anche prima della riforma del 2009 – del procedimento speciale previsto dalla L. n. 794 del 1942 nel caso in cui il thema decidendum si estenda a questioni che esulano dalla mera determinazione del compenso.

Secondo la Corte di legittimità, il divieto di conversione riposa anche sulla ritenuta adeguatezza del rito sommario di cognizione a pervenire ad un accertamento pienamente attendibile circa qualunque fatto costitutivo, estintivo, impeditivo o modificativo del diritto di credito vantato dall’avvocato e sulla valorizzazione della disposizione di carattere generale, contenuta nel D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3, comma 1, nella parte in cui esclude, nelle controversie assoggettate dal medesimo D.Lgs. al rito sommario, l’applicabilità dell’art. 702-ter, comma 3, ossia la possibilità di disporre il passaggio al rito ordinario allorchè “le difese svolte dalle parti richiedano un’istruzione non sommaria”.

L’ordinanza n. 2045/2019 e la n. 194/2020 hanno, poi, ribadito che, al fine di dare sistematicità al sistema delle liquidazioni dei compensi professionali, l’ordinanza conclusiva del procedimento del D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 14, non è appellabile, ma impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, sia che la controversia riguardi solamente il quantum debeatur, sia che essa sia estesa all’an della pretesa, trovando anche in tale ultimo caso, applicazione il rito di cui al citato art. 14. La perdita del grado di appello nelle controversie che involgano accertamenti sull’an debeatur – oltre a non far sorgere dubbi di legittimità costituzionale, giacchè per il principio del doppio grado di giudizio non è prevista un’apposita copertura costituzionale – risulta bilanciata dalla collegialità del giudice prevista dell’art. 14, comma 2.

Correttamente, dunque, la ricorrente ha impugnato l’ordinanza del Tribunale di Trento con ricorso straordinario ex art. 111 Cost.. E’, infatti, indubbia la competenza funzionale, per entrambe le domande (di opposizione a decreto ingiuntivo e riconvenzionale) del Tribunale adito, nè vi sono ragioni per la separazione della trattazione delle domande, per il fatto che la parte convenuta abbia ampliato l’oggetto del giudizio con la proposizione di una domanda riconvenzionale che si presta ad istruttoria sommaria con il rito sommario.

2. Si può allora passare allo scrutinio del ricorso.

3. Con il primo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente rimprovera al Tribunale di Trento la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, per avere tenuto le udienze in presenza del solo G.R., e non davanti al Collegio, e per avere erroneamente affermato, rigettando la relativa eccezione, che la trattazione collegiale è richiesta solo per l’adozione del provvedimento che definisce il procedimento, non essendovi ragioni per giustificare un diverso trattamento di rito sommario rispetto al rito ordinario nel quale, ai sensi degli artt. 187,199 e 189 c.p.c., la trattazione e l’istruzione delle cause in relazione alle quali il Tribunale giudica in composizione collegiale sono riservate al giudice istruttore, il quale, solo ai fini della decisione, rimette la causa al collegio.

Il motivo è infondato.

Parte ricorrente muove dal presupposto erroneo che la riserva di collegialità di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, implichi anche la trattazione collegiale della controversia.

Le controversie per cui è causa rientrano nella riserva prevista per i procedimenti in Camera di consiglio dall’art. 50-bis c.p.c., comma 2 (Cass., Sez. Un., 20/07/2012, n. 12609; Cass. 11/01/2017, n. 548), relativamente ai quali la riserva di collegialità viene pacificamente risolta in riserva di sola “decisione collegiale”; il che vuol dire che il collegio deve costituirsi almeno all’atto della decisione, essendo ben possibile, invece, che determinate funzioni siano deferite anche a magistrati singoli, fino alla trattazione della causa (Cass. 03/10/2019, n. 24754).

Del resto, quando il legislatore ha richiesto anche che la trattazione sia collegiale, lo ha espressamente previsto: così è avvenuto per l’art. 350 c.p.c., relativamente ai giudizi dinanzi alla Corte d’Appello e per le opposizioni ai decreti di liquidazione dei compensi agli ausiliari del giudice, ove il legislatore ha sentito il bisogno di precisare espressamente che le stesse avrebbero dovuto essere trattate e decise dal tribunale in composizione monocratica (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170).

3. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, in relazione all’art. 132 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, la ricorrente deduce la manifesta illogicità della motivazione e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Il Tribunale avrebbe ritenuto infondata la sua doglianza in merito all’insistenza con cui M.A. aveva spinto in direzione della transazione, data l’assenza di allegazione delle modalità attraverso cui il professionista l’avrebbe determinata a concludere la transazione, omettendo di considerare la e-mail del 23 giugno 2017, ove il professionista le faceva presente che commetteva un errore a non transigere e che se fosse stata accolta la domanda di sospensione dell’esecutorietà della sentenza non avrebbe avuto un Euro fino alla decisione della Cassazione e la invitava a riflettere sulla decisione da prendere.

Avrebbe disatteso erroneamente anche l’ulteriore censura relativa all’inadempimento della sua direttiva di ritirare la proposta transattiva, attribuendo prevalenza, rispetto alle e-mail agli atti, alle prove testimoniali, prodotte da M.A. per dimostrare che la mattina del (OMISSIS) vi era stato un colloquio telefonico, nel corso del quale sarebbe stata informata che il professionista avrebbe rimesso il mandato se avesse perseguito nel proposito di ritirare la proposta transattiva, ritenendo tale decisione non corretta dal punto di vista professionale, e che il colloquio telefonico, parte del quale ascoltato dai testimoni escussi, si era concluso con la chiara decisione da parte sua di dar seguito alla proposta di transazione.

Il Tribunale, illogicamente, dopo aver passato al vaglio le e-mail, anzichè trarne la dimostrazione che per ben due volte, prima del (OMISSIS), aveva invitato l’avvocato a ritirare la proposta e che questi era rimasto inerte, aveva ritenuto provato che il (OMISSIS) ella avesse inteso procedere con la transazione. Del tutto non pertinente si rivelerebbe, secondo la prospettazione della ricorrente, il fatto che Unipolsai avesse chiesto la sospensione dell’esecutività della sentenza di appello e che l’accoglimento di tale istanza fosse probabile, spettando a lei sola assumere decisioni relative alla tutela dei suoi interessi economici.

Quanto alla omessa impugnazione in via incidentale della sentenza del Tribunale di Trento che aveva compensato le spese di lite, la motivazione del giudice a quo che aveva ravvisato la mancata censura della motivazione – novità delle questioni trattate – non avrebbe tenuto conto che, già con l’atto di citazione, p. 2, i termini della vicenda erano stati esposti senza che dalla descrizione emergesse alcuna complessità; nè elementi di complessità emergevano dalle due decisioni che avevano concordato sul dies a quo del termine per fare opposizione al decreto ingiuntivo.

Da ultimo, la ricorrente contesta la decisione di riconoscere ad M.A. il compenso di Euro 20.800,00, a fronte di quello di Euro 13.650,00, liquidatogli dalla Corte d’Appello, in ragione del fatto che egli era intervenuto nel giudizio, limitandosi a ribadire le ragioni già sviluppate dal precedente difensore e a richiamare le argomentazioni del Tribunale.

Il motivo non merita accoglimento.

Oltre ad avere dedotto il “vecchio” vizio di motivazione, che consisteva nella “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, secondo la precedente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo anteriore alla novella introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), (convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134), la quale si applica in relazione alle sentenze d’appello pubblicate dopo l’11/09/2012, e quindi anche nella controversia per cui è causa, risulta evidente che la ricorrente tenta di ottenere da questa Corte un inammissibile riesame del materiale istruttorio che aveva portato il Tribunale a ritenere provato che nel corso di una conversazione telefonica, ascoltata, perchè in viva voce, da una pluralità di testi, avesse acconsentito a dare seguito alla proposta transattiva, superando così il suo iniziale proposito di desistere dal raggiungimento di un accordo con la controparte emergente da uno scambio di e-mail intercorse con M.A. nei giorni precedenti.

Nè può trovare accoglimento la denuncia di pressioni ricevute dal professionista per raggiungere l’accordo transattivo, basata sul contenuto di alcune e-mail che, esaminate dal Tribunale, erano state da quest’ultimo intese, con un accertamento di fatto che non può essere ridiscusso in sede di legittimità, alla stregua di consigli non pretestuosi circa la convenienza della transazione.

Non costituisce uno sforzo confutativo adeguato quello con cui, per superare la statuizione del Tribunale quanto alla mancata impugnazione della ragione giustificativa della decisione di compensare le spese di lite dinanzi al Tribunale, la ricorrente deduce in questa sede che i termini della controversia non erano complessi.

Anche relativamente alla determinazione dei compensi liquidati all’avvocato sussiste ed è pienamente intellegibile la motivazione con cui il Tribunale ha fissato il compenso spettante al professionista, fondata peraltro sia sul pregio dell’attività prestata, sull’importanza, sulla difficoltà il valore dell’affare, sul risultati conseguiti e sulla possibilità di aumentare i valori medi di cui alle tabelle allegate al D.m. n. 55 del 2014, fino all’80% sia sulla mancata contestazione, da parte dell’odierna ricorrente, dei compensi richiesti per il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo svoltosi dinanzi al Tribunale di Trento, per il giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., per il procedimento di espropriazione presso terzi svoltosi dinanzi al Tribunale di Bologna. Quest’ultima ratio decidendi neppure è stata attinta dalle censure della ricorrente.

4. In definitiva, il ricorso è infondato.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

6. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico della parte ricorrente l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore dei controricorrenti, liquidandole in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da corrispondere per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 18 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2021

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