Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13172 del 16/06/2011

Cassazione civile sez. III, 16/06/2011, (ud. 11/02/2011, dep. 16/06/2011), n.13172

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15069/2007 proposto da:

AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DELL’AQUILA (OMISSIS) in persona del

Direttore Generale pro tempore Dott. D.P.G.,

elettivamente domiciliata in ROMA, P.LE DELLE BELLE ARTI 2, presso lo

studio dell’avvocato SCALISE GAETANO ANTONIO, rappresentata e difesa

dall’avvocato DI MASSA Luigi giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DELLL’AQUILA (OMISSIS) in persona del Sindaco On.

C.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GUIDO

D’AREZZO 18, presso lo studio dell’avvocato PETILLO ALFREDO,

rappresentato e difeso dagli avvocati GIULIANI Paola, DOMENICO DE

NARDIS;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 536/2006 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

emessa il 21/12/2005, depositata il 29/06/2006, R.G.N. 227/1974;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

11/02/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato LUIGI DI MASSA;

udito l’Avvocato DOMENICO DE NARDIS;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto dei primi due

motivi ed accoglimento degli altri motivi del ricorso; cassazione con

rinvio.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Il Tribunale dell’Aquila, pronunciando sulla domanda proposta dall’Amministrazione provinciale dell’Aquila contro il Comune dell’Aquila, condannò quest’ultimo a rilasciare all’Amministrazione provinciale i locali, da esso detenuti e già adibiti a sede degli Uffici giudiziari, nonchè a pagare, a titolo di canoni non corrisposti la somma di L. 21.515.000; condannò il Comune anche al pagamento delle spese processuali.

2.- Avverso detta sentenza propose appello il Comune chiedendo, in via principale, che fosse dichiarata la proprietà del Comune sul palazzo nel quale si trovavano i locali in contestazione ed, in quanto occorreva, che fosse dichiarata la nullità ed inefficacia, per le ragioni illustrate nei motivi, dell’atto del 1894 e della scrittura privata del 1938, con condanna dell’Amministrazione provinciale al rimborso delle somme percette per la locazione, almeno a titolo di indebito e nei limiti della prescrizione; formulò quindi conclusioni subordinate relative al contratto di locazione oggetto di causa.

3.- La Corte d’Appello di L’Aquila ha accolto l’appello ed, in riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato che il Palazzo civico per cui è causa fa parte del patrimonio indisponibile del Comune di L’Aquila; ha annullato la condanna al rilascio dei locali ed al pagamento dei canoni di locazione di cui alla sentenza gravata; ha compensato per intero le spese di entrambi i gradi di giudizio, ponendo a carico delle parti in quote eguali le spese della consulenza tecnica d’ufficio.

4.- Avverso la sentenza della Corte d’Appello propone ricorso per cassazione l’Amministrazione provinciale dell’Aquila, a mezzo di sette motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso il Comune dell’Aquila, che pure ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di procura, sollevata dal Comune resistente.

L’Amministrazione Provinciale è costituita “in persona del Direttore Generale pro tempore Dott. D.P.G.”, il quale ha rilasciato la procura ad litem “nella qualità di legale rappresentante della Amministrazione provinciale dell’Aquila, giusta art. 72 del vigente Statuto e Decreto Direttoriale nr. 15 del 15/11/2006”.

Il richiamato art. 71 dello Statuto Provinciale, come modificato con Delib. Consiglio Provinciale 25 maggio 2006, n. 30, al comma 5, prevede quanto segue: “La competenza a proporre azioni e a resistere in giudizio, nonchè il potere di conciliare e transigere spettano ai dirigenti. Il regolamento di organizzazione può stabilire i casi in cui i dirigenti dovranno sentire il parere, non vincolante, della Giunta Provinciale, qualora il Presidente, nelle sue funzioni di indirizzo complessivo, ritenga che la questione oggetto della causa sia di rilevante interesse strategico per il governo dell’Ente”.

Detta previsione statutaria della Provincia dell’Aquila è conforme al nuovo assetto ordinamentale degli enti locali delineato dal T.U. di cui al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, nel quale è consentito allo statuto di prevedere che la rappresentanza a stare in giudizio sia affidata ai dirigenti, nell’ambito dei rispettivi settori di competenza ovvero ad esponenti apicali della struttura burocratico- amministrativa dell’ente, in deroga all’art. 50 del citato T.U. (cfr.

Cass. S.U. 16 giugno 2005 n. 12868 ed altre successive conformi).

Il Decreto Direttoriale n. 75 del 15 novembre 2006, richiamato nella procura rilasciata a margine del ricorso, riporta la Delib. 24 novembre 2006, n. 137 con la quale la Giunta Provinciale ha dettato “Direttive in materia di contenzioso, transazioni, gare e contratti” ed ha previsto, tra l’altro, l’adozione da parte del Direttore Generale del provvedimento di autorizzazione ad agire o resistere in giudizio, nonchè l’affidamento allo stesso Direttore Generale del potere di rilasciare la procura alle liti.

Quest’ultima deliberazione è, a sua volta, conforme alle previsioni dell’art. 6, comma 3, artt. 7 e 48 del Testo Unico su citato.

Risultando rispettato il procedimento delineato dalle norme di statuto e di regolamento sopra richiamate e dovendo ritenersi che, in ragione delle stesse, spetti al Direttore Generale della Provincia dell’Aquila la rappresentanza processuale dell’ente, non può che concludersi nel senso dell’ammissibilità del ricorso.

2.- Il primo ed il secondo motivo di ricorso vanno trattati congiuntamente poichè pongono questioni connesse.

Con entrambi si denuncia la nullità della sentenza e del procedimento; col primo motivo, per violazione delle norme processuali che prevedono che si intendano rinunciate le domande non accolte in primo grado che non siano state espressamente riproposte con l’atto di appello, quindi violazione dell’art. 346 cod. proc. civ.; col secondo motivo, per violazione delle norme processuali che vietano la proposizione di domande nuove nel giudizio di appello, quindi violazione dell’art. 345 cod. proc. civ..

Assume l’Amministrazione ricorrente che il Comune aveva chiesto in primo grado che il Palazzo Margherita, nel quale si trovano i locali oggetto di causa, fosse dichiarato appartenente al demanio comunale e, in subordine, che lo stesso fosse dichiarato appartenente al suo patrimonio indisponibile; che il Tribunale non aveva accolto la domanda, dichiarando il bene di proprietà dell’Amministrazione provinciale; che il Comune non avrebbe riproposto espressamente con l’atto di appello la domanda basata sulla qualificazione del bene come appartenente al patrimonio indisponibile comunale, sicchè tale domanda si sarebbe dovuta intendere come rinunciata; che essa sarebbe stata riproposta dal Comune soltanto con l’atto di riassunzione del giudizio di appello, quindi ben oltre il termine dell’art. 346 cod. proc. civ. e comunque in violazione dell’art. 345 cod. proc. civ.;

che, malgrado ciò, la Corte d’Appello aveva dichiarato il Palazzo Margherita appartenente al patrimonio indisponibile del Comune e così avrebbe statuito inammissibilmente su una domanda rinunciata o, comunque, su una domanda nuova, sulla quale la parte appellata avrebbe dichiarato di non accettare il contraddittorio.

I motivi non sono fondati.

2.1.- Preliminarmente va sgomberato il campo dalla censura basata sull’art. 345 cod. proc. civ., poichè tale norma presuppone che la domanda di che trattasi non sia mai stata proposta in giudizio e quindi venga avanzata per la prima volta in grado di appello. Nel caso di specie, la stessa ricorrente assume che il Comune propose, sia pure in via subordinata, in primo grado la domanda riconvenzionale di dichiarazione dell’appartenenza del bene al proprio patrimonio indisponibile. Pertanto, l’unica norma applicabile è quella dell’art. 346 cod. proc. civ..

Più specificamente, è da ritenersi che tra quest’ultima norma e quella dell’art. 345 cod. proc. civ. esista un rapporto di reciproca esclusione, nel senso che una medesima domanda non può essere sussunta nell’una e nell’altra delle distinte ipotesi previste dalle due norme: la novità rilevante ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ. non è riferita al giudizio di appello nel senso che – come sembra presupporre la ricorrente – sia da intendersi nuova la domanda proposta nel corso del giudizio di appello, (anche) quando non avanzata col suo atto introduttivo; la novità rilevante va invece riferita all’intero corso del giudizio, sicchè è da intendersi nuova la domanda che sia stata proposta per la prima volta in appello senza che mai lo sia stata nel grado pregresso di giudizio.

2.2.- L’art. 346 cod. proc. civ. presuppone che una domanda, già proposta in primo grado, non sia stata riproposta in appello.

Con la comparsa di costituzione dinanzi al Tribunale, il Comune avanzò domanda riconvenzionale volta ad ottenere la dichiarazione che il Palazzo nel quale si trovavano i locali oggetto del contestato contratto di locazione fosse bene demaniale “o quanto meno bene patrimoniale indisponibile” dell’ente territoriale.

Con l’atto di citazione in appello – consultabile da questa Corte poichè è denunciato error in procedendo – venne formulata la seguente domanda principale: “a) … dichiarare di proprietà del Comune dell’Aquila il palazzo di cui è causa…”.

Dato quanto sopra, è da escludere che in grado d’appello vi sia stata una mutatio libelli, che abbia comportato la mancata riproposizione di un capo di domanda.

Non vi è dubbio infatti che sia i beni demaniali che i beni del patrimonio indisponibile possano essere oggetto del diritto di proprietà dell’ente pubblico, e l’appartenenza all’una od all’altra delle due categorie rileva ai fini della rispettiva condizione giuridica, cioè dell’individuazione della disciplina applicabile.

Ne segue che il petitum delle conclusioni dell’atto di appello, così come sopra riportato, è idoneo a far ritenere proposta, in grado d’appello, la medesima domanda che era stata proposta in primo grado, essendo sufficiente il generico riferimento alla “proprietà” per interpretare la domanda come riferita indifferentemente ad una qualunque delle categorie di beni pubblici, nelle quali il giudice adito avrebbe ritenuto di collocare il bene in contesa.

Nè a diversa conclusione si può addivenire ove si esaminino, piuttosto che le conclusioni, le ragioni di diritto esposte nell’atto di appello, che, secondo la ricorrente, sarebbero nel senso della classificazione di tale bene come demaniale piuttosto che come appartenente al patrimonio indisponibile del Comune. In particolare, non risulta dai motivi d’appello che il Comune avesse fondato la propria domanda esclusivamente sull’appartenenza del Palazzo civico al demanio comunale perchè bene riconosciuto di interesse storico o artistico e quindi appartenente a tale categoria ex art. 822 c.c., comma 2, art. 824 cod. civ.; oltre al riferimento a tale ultima categoria di beni (fatto peraltro soltanto nel secondo motivo), è contenuto espressamene nell’atto di appello il riferimento alla categoria del patrimonio indisponibile, tanto che già col primo motivo, nel richiamare tutta una serie di documenti che avrebbe;

fornito la dimostrazione della “appartenenza del Palazzo di cui è causa al Comune” (senza alcun cenno alla categoria dei beni demaniali), il Comune se ne serve perchè, come si dirà nel prosieguo, in gran parte documenti idonei a comprovare la destinazione a sede di uffici pubblici, rilevante ai sensi dell’art. 826 cod. civ., comma 3; destinazione, sulla quale torna a soffermarsi col terzo motivo d’appello.

2.3.- D’altronde, se questa Corte ha ripetutamente affermato che il diritto di proprietà, essendo c.d. autodeterminato, è individuato solo in base al suo contenuto (con riferimento cioè, al bene che ne costituisce l’oggetto), sicchè nelle relative azioni la causa petendi si identifica con il diritto stesso e non, come nei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte (cfr., tra le più recenti, Cass. 24 maggio 2010, n. 12607; 24 novembre 2010, n. 23851), a maggior ragione deve ritenersi che, nell’azione di rivendica esercitata da un ente pubblico, la causa petendi si identifichi col diritto di proprietà del bene che ne costituisce l’oggetto, mentre la deduzione dell’appartenenza del bene all’una od all’altra delle categorie di beni pubblici non abbia alcuna funzione di specificazione della domanda. Pertanto, anche ove l’appartenenza del bene al patrimonio indisponibile comunale fosse stata allegata tardivamente in appello, non avrebbe dato luogo alla proposizione di domanda nuova rispetto a quella proposta con riferimento allo stesso bene, come facente parte del demanio comunale.

3.- Col terzo motivo di ricorso l’Amministrazione provinciale deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 826 cod. civ. (R.D. 4 maggio 1885, n. 3074 in materia di contabilità generale dello Stato) e degli artt. 10 e 11 disp. Gen..

L’illustrazione del motivo, peraltro, si articola in tre differenti profili, dei quali il primo non risulta essere coerente con l’indicazione delle norme di diritto su cui il motivo è fondato.

3.1.- Sostiene la ricorrente che dalla consulenza tecnica di parte prodotta nel giudizio di secondo grado risulterebbe che il bene in contesa sarebbe stato originariamente soggetto al regime di diritto comune ed avrebbe assunto una pubblica destinazione soltanto nel 1838; più specificamente, che sarebbe stata la Provincia a destinare il Palazzo a sede degli uffici giudiziari, così imprimendo allo stesso quel vincolo di destinazione a pubblico servizio che caratterizza i beni pubblici, nella specie appartenenti al patrimonio indisponibile. Pertanto, la Provincia avrebbe provato sia la sua manifestazione di volontà di destinare il bene ad uffici pubblici sia tale effettiva destinazione da parte sua. Ne seguirebbe l’erroneità dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui “il Palazzo civico de quo appartiene al patrimonio indisponibile del Comune appellante” poichè compiuta, secondo la ricorrente, in palese contrasto con le risultanze probatorie.

E’ evidente che quanto denunciato con l’iter argomentativo appena riassunto è riconducibile al vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione, lamentando sostanzialmente la ricorrente un’errata lettura da parte del giudice di merito delle risultanze probatorie concernenti il fatto della destinazione pubblica.

Orbene, trattandosi di un accertamento in fatto, riservato al giudice del merito, la ricorrente non solo avrebbe dovuto formulare il motivo riferendolo alla norma dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, ma avrebbe dovuto altresì indicare le ragioni per le quali le risultanze della consulenza tecnica di parte, richiamate in ricorso, non potrebbero reputarsi smentite da quelle della consulenza tecnica d’ufficio sulle quali il giudice d’appello ha espressamente fondato la propria decisione.

In mancanza di tale ultima esplicitazione ed, altresì, in considerazione della non corretta formulazione del motivo, per inosservanza del disposto dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 4, esso è, sotto questo profilo, inammissibile.

3.2.- Coerente invece col vizio denunciato è l’assunto della ricorrente secondo cui, anche nell’ipotesi in cui fosse stato il Comune a destinare il bene a pubbliche finalità nella data alla quale la Corte d’Appello ha fatto riferimento, ciò non sarebbe stato sufficiente poichè la categoria dei beni del patrimonio indisponibile ha ricevuto “creazione normativa” solo dall’entrata in vigore del R.D. 4 maggio 1385, n. 3074, in materia di contabilità generale dello Stato, quindi in una data successiva a quella dei fatti considerati dalla Corte d’Appello, ed a far data dai quali – secondo la ricorrente – la stessa Corte avrebbe ritenuto applicabile la detta categoria giuridica dei beni patrimoniali indisponibili; con ciò avrebbe fatto un’applicazione retroattiva del citato R.D. non consentita dagli artt. 10 e 11 disp. gen..

Il motivo, sotto questo profilo, non è meritevole di accoglimento.

La Corte d’Appello ha fatto, si, riferimento alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio per affermare, con riferimento al Palazzo Margherita, che il Comune l’aveva “restaurato ed ampliato nel lontano 1573 mettendolo a disposizione di Margherita d’Austria, governatrice della città”, ma l’affermazione non è certo funzionale a sostenere che in tale data si ebbe la destinazione ad uffici pubblici rilevante ai fini dell’art. 826 cod. civ., comma 3.

Piuttosto, l’accertamento è relativo all’appartenenza, che la norma pone quale ulteriore elemento determinante della proprietà pubblica in capo ad uno piuttosto che ad altro ente territoriale. Il testo dell’art. 826 cod. civ., comma 3, individua infatti il doppio requisito della manifestazione di volontà dell’ente e della effettiva destinazione di un bene a sede di pubblici uffici o ad un pubblico servizio perchè il bene possa essere fatto rientrare nella categoria dei beni del patrimonio indisponibile, ma il soggetto pubblico proprietario può essere (a differenza di quanto accade per il demanio necessario) indifferentemente lo Stato, la provincia o il comune, rispettivamente “secondo la loro appartenenza”: ai fini dell’appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile è perciò necessaria e sufficiente la destinazione attuale a pubbliche utilità, ai sensi dell’art. 826 cod. civ., comma 3, dovendo poi applicarsi le normali regole probatorie per l’accertamento dell'”appartenenza” ad uno piuttosto che ad altro ente territoriale.

Allora, in una situazione quale quella oggetto del presente giudizio, in cui non è affatto in contestazione la destinazione del bene a sede di pubblici uffici, quanto meno fin dalla prima metà dell’800, oggetto dell’accertamento è l’appartenenza del bene all’ente che ne rivendica la proprietà, indipendentemente dal fatto che sia quello stesso che ai) origine ebbe a destinarlo a tale pubblica finalità.

La Corte d’Appello si è riportata al 1573 per addivenire alla conclusione, fondata sulle risultanze della CTU ed espressa nella motivazione, che il Comune “da allora ne ha mantenuto e difeso il dominio” id est, fino all’attualità). Quindi il riferimento ad una data anteriore all’entrata in vigore del R.D. 4 maggio 1885, n. 3074 non è stato fatto al fine di includere il bene nella categoria del patrimonio indisponibile, considerata da tale ultimo regio decreto, ma soltanto al fine di affermare l’appartenenza del bene al Comune sin da quella data ed ininterrottamente, come pure si dirà nel prosieguo.

3.3.- Infine, col terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 826 cod. civ., per avere la sentenza impugnata fatto riferimento al secondo piuttosto che al terzo comma di tale norma.

Per decidere nel senso del rigetto è sufficiente rilevare che si tratta di un mero errore materiale nell’indicazione del comma, per come è reso evidente dal tenore della parte di motivazione oggetto di censura (“il bene de quo siccome destinato a sede di uffici pubblici fa parte, ex art. 826 cod. civ., comma 2, del patrimonio indisponibile del Comune di L’Aquila, sicchè lo stesso può, in base al successivo art. 828, essere sottratto alla pubblica destinazione solo nei modi stabiliti dalla legge …omissis..”).

4.- Col quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e la falsa applicazione delle norme di diritto che regolano la ripartizione dell’onere della prova (art. 2967 cod. civ.), perchè la Corte d’Appello avrebbe riconosciuto la proprietà del bene in capo al Comune, sulla base delle mere affermazioni dell’appellante Comune (che aveva proposto la domanda riconvenzionale di rivendicazione), senza che questo abbia fornito la prova positiva e piena del proprio diritto di proprietà; quindi, secondo la ricorrente, il giudice d’appello avrebbe basato la propria decisione sulla ritenuta inefficacia della convenzione del 1894, perchè la Provincia non aveva fornito la prova della sussistenza delle approvazioni richieste, con ciò sollevando il Comune dall’onere sullo stesso gravante di dimostrare la proprietà del Palazzo Margherita.

4.1.- Il motivo è infondato.

Per come risulta anche da quanto detto sopra, la sentenza d’appello ha ritenuto provata la proprietà del bene in capo al Comune non certo argomentando a contrario dall’inefficacia della menzionata convenzione, ma sulla scorta di elementi probatori che ha ritenuto idonei a comprovare positivamente l’allegazione del Comune. Il riferimento alla convenzione del 1894, sulla quale si tornerà, è stato fatto per escludere che questa potesse essere considerata valido titolo di trasferimento della proprietà – ritenuta sussistere in capo al Comune già a far data dal 1573 – dal Comune che, fino ad allora ne era proprietario, alla Provincia: questa, infatti, convenuta in riconvenzionale, produsse la scrittura in data 20 dicembre 1894 per dimostrare che, quanto meno in forza di tale atto, la proprietà del Palazzo Margherita avrebbe dovuto essere riconosciuta in capo appunto alla Provincia ed il Tribunale utilizzò la convenzione in parola per concludere nel senso del rigetto della domanda riconvenzionale. La Corte d’Appello, dopo aver affermato di ritenere positivamente provato il diritto di proprietà in capo al Comune sin da data precedente la convenzione del 1894, si è soffermata su quest’ultima per escluderne l’efficacia, in modo da escludere altresì che fosse atto idoneo a far venir meno l’appartenenza del bene all’ente comunale.

Tenendo conto di tale dinamica processuale, è corretta l’affermazione del giudice del merito per la quale sarebbe stato onere della Provincia dare la prova della validità ed efficacia di detta convenzione: non perchè – come pure sostiene la ricorrente – la Corte di merito abbia così invertito l’onere della prova della proprietà, facendolo gravare sull’ente convenuto in rivendica; ma, perchè, con corretta applicazione delle regole dell’art. 2967 cod. civ., ritenuto provato il fatto costitutivo del diritto di proprietà in capo al Comune, attore, ha posto a carico della Provincia, convenuta, l’onere della prova del fatto estintivo-costitutivo del trasferimento della proprietà dal primo alla seconda.

5.- Col quinto motivo del ricorso si deduce il vizio di motivazione sul fatto controverso e decisivo per il giudizio della proprietà del Palazzo Margherita, più specificamente sul fatto che fin dal 1573 il Comune ne avrebbe mantenuto ininterrottamente il dominio.

Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello non avrebbe preso posizione sulle prove fornite dalle parti, in special modo sulle prove fornite dall’Amministrazione provinciale, che sarebbero state verificate, condivise ed accettate anche dal consulente tecnico d’ufficio.

Il motivo, così come proposto ed illustrato, è inammissibile per mancanza di autosufficienza del ricorso.

Alle pagine 22-23 di questo si fa ampio riferimento sia alla consulenza tecnica di parte dell’aprile 2003 sia alla consulenza integrativa, sempre di parte, dell’ottobre 2003 e se ne riassumono le risultanze, riportando anche le pagine ed i paragrafi dalle quali sono desumibili.

Orbene, anche a voler ritenere sufficienti tali riferimenti alle consulenze di parte, manca comunque in ricorso qualsiasi riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, sulla quale invece la Corte d’Appello ha fondato la propria decisione. In particolare, manca nell’illustrazione del motivo di ricorso sia il richiamo di quella parte della CTU che, secondo la ricorrente, avrebbe “verificato, condiviso ed accettato” le prove fornite dalla Provincia sia l’indicazione delle ragioni per le quali, nel far riferimento alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, il giudice di merito sarebbe incorso in errore; non è dato, in particolar modo, comprendere dal tenore del ricorso se, secondo la ricorrente, sia stata la Corte d’Appello a mal interpretare le conclusioni del consulente d’ufficio ovvero se sia stato quest’ultimo a pervenire a conclusioni che, secondo la ricorrente, si dovrebbero reputare errate o, comunque, smentite dagli esiti delle consulenze di parte.

5.1.- La motivazione della quale è denunciato il vizio e testualmente la seguente:

“Dai documenti allegati alla relazione del c.t.u, – le cui conclusioni, per essere basate sugli stessi ed immuni da vizi logici, sono da condividere, a nulla contro d’esse valendo le generiche e non convincenti obiezioni dell’Amministrazione provinciale – emerge in maniera certa che il Palazzo civico de quo appartiene al patrimonio indisponibile del Comune appellante.

Risulta infatti che detto Comune l’ha restaurato ed ampliato nel lontano 1573 mettendolo a disposizione di Margherita d’Austria, governatrice della Città, e che da allora ne ha mantenuto e difeso il dominio”.

Si tratta di una motivazione per relationem, che è in generale ammessa e reputata idonea ad escludere il vizio di motivazione, quando il rinvio sia operato in modo che sia possibile ed agevole il controllo della motivazione per relationem (cfr., tra le più recenti, Cass. 16 gennaio 2009, n. 979; 17 novembre 2010, n. 23231;

11 febbraio 2011, n. 3367); il vizio di carenza di motivazione va escluso anche quando la sentenza recepisca per relationem le conclusioni di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito (cfr. Cass. 4 maggio 2009, n. 10222).

5.2.- Pertanto, per infirmare, sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, detta motivazione della Corte di merito la Provincia avrebbe dovuto, non solo allegare le critiche mosse alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice a quo, ma anche esplicitare la loro rilevanza ai fini della decisione e dimostrare l’omesso esame delle critiche in sede di decisione, illustrando le ragioni per le quali, invece, la loro considerazione avrebbe condotto ad una decisione diversa.

La ricorrente si è limitata a riportare, alle già menzionate pagine 22-23 del ricorso, alcuni degli assunti del proprio tecnico di parte (specificamente quello concernente la proprietà regia, prima del 1573, del Palazzo in contestazione e quello concernente la destinazione del Palazzo, già di Margherita d’Austria, ai Collegi giudiziarì riunificati e la cessione alla Provincia con consegna avvenuta nel 1838), richiamando i paragrafi della consulenza di parte nei quali vengono illustrati i documenti che confermerebbero detti assunti.

Orbene, la consulenza tecnica d’ufficio, che è da considerarsi parte integrante della sentenza, che integralmente ne richiama il merito ed i documenti allegati, esamina, nel supplemento depositato il 15 luglio 2003 (e disposto dalla Corte d’Appello proprio a seguito della presentazione della consulenza di parte dell’Amministrazione provinciale), esattamente i documenti sui quali il tecnico di parte ha fondato gli assunti che l’odierna ricorrente riporta in ricorso;

la consulenza tecnica d’ufficio ampiamente argomenta in merito alla loro interpretazione in senso divergente da quello preteso dalla Provincia appellante, odierna ricorrente, ripercorrendo le vicende dominicali e storico-giuridiche dell’immobile per cui è causa per l’intero arco temporale considerato dal consulente tecnico di parte (che non è riferito soltanto ai due limitati periodi indicati in ricorso, ma è distinguibile in un periodo ante 1572 – cioè prima dell’insediamento di Margherita d’Austria-, in un periodo post 1586 – cioè successivo alla morte di quest’ultima, già Governatrice della città, in un terzo periodo compreso tra il 1819 ed il 1838 – che è quello cui si accenna in ricorso, con il riferimento alla consegna materiale del palazzo alla Provincia, infine, nel periodo successivo alla convenzione del 1894 – della quale si dirà trattando del quinto e del sesto motivo).

Orbene, a fronte di un siffatto, complesso ed articolato elaborato peritale – che va ad aggiungersi alla relazione depositata dallo stesso consulente tecnico d’ufficio il 20 maggio 1999, da intendersi pure richiamata dalla sentenza impugnata – il ricorso si limita a riportare quelle stesse risultanze della propria consulenza di parte che il consulente d’ufficio ha, punto per punto, smentito; è vero che, dopo il deposito della relazione supplementare, la Provincia ebbe a depositare un’ulteriore consulenza di parte, che, nelle intenzioni dell’appellata, avrebbe dovuto confutare le smentite del CTU. Però, il generico ed immotivato rinvio alle controdeduzioni critiche svolte dal proprio tecnico di parte non è certo sufficiente all’ammissibilità del motivo del ricorso con cui si lamenta la carenza di motivazione.

Vanno qui ribaditi i principi più volte espressi da questa Corte in merito al contenuto richiesto ai fini dell’autosufficienza del ricorso col quale si denunci un vizio di motivazione della sentenza, sotto il profilo dell’omesso esame di fatti contrari addotti o rilievi mossi alle risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio, che la sentenza abbia recepito: la parte che addebita alla consulenza tecnica d’ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole di erronei apprezzamenti contenuti in essa (o nella sentenza che l’ha recepita) ha l’onere di riportare, o almeno sintetizzare, nel ricorso per cassazione i passaggi salienti e non condivisi e, poi, il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di evidenziare gli errori commessi dal giudice del merito nel limitarsi a recepirla e nel trascurare completamente le critiche formulate in ordine agli accertamento ed alle conclusioni del consulente d’ufficio, in modo che le critiche mosse alla consulenza ed alla sentenza posseggano un grado di specificità tale da consentire alla Corte di legittimità di apprezzarne la decisività direttamente in base al ricorso (cfr. Cass. 13 giugno 2007, n. 13845; ed anche Cass. 3 agosto 1999, n. 8383; 5 maggio 2003, n. 6753; 6 settembre 2007, n. 18688); ed ancora, è onere della parte dedurre in merito alla decisività delle circostanze non considerate dal consulente o dal giudice ed a questi fini non basta fare menzione, senza alcuna indicazione, sia pure sintetica e riassuntiva delle relative osservazioni critiche, di una relazione tecnica di parte, come documento non considerato dal giudice a quo, poichè, in tal guisa, quand’anche si dia per certo il contenuto critico del documento, non è dato apprezzarne la rilevanza al fine di evidenziare l’errore del giudice (Cass. 28 marzo 2006, n. 7078).

Applicando i principi anzidetti al motivo di ricorso in esame e considerando altresì la peculiarità della situazione processuale sopra evidenziata, in cui la consulenza tecnica d’ufficio recepita dalla sentenza contiene in sè le risposte alle critiche riproposte col ricorso, non può che concludersi nel senso dell’inammissibilità del quinto motivo, sotto il profilo fin qui esaminato.

5.3. – Con lo stesso motivo, ed in riferimento alla stessa censura di vizio di motivazione, la ricorrente lamenta la mancata considerazione da parte della Corte d’Appello di due ulteriori risultanze probatorie: la convenzione, a natura transattiva, per scrittura privata del 1894 e l’intestazione catastale dell’immobile in capo alla Provincia, senza soluzione di continuità, sin dal 1890.

Orbene, occorre premettere che, ai fini della configurabilità del vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario che “il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle risultanze sulle quali il convincimento del giudice è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base, ovvero che si tratti di un documento idoneo a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione, e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata” (cfr. così Cass. n. 14304/2005, ma nello stesso senso, tra molte, anche Cass. n. 10156/2004, n. 5473/2006, n. 21249/2006, n. 9245/2007).

Nessuno dei due elementi richiamati dalla ricorrente fornisce la prova di una o più circostanze che, se espressamente considerate, avrebbero condotto con certezza ad una diversa soluzione della controversia.

Intanto, va evidenziato che entrambi sono stati esaminati dal consulente tecnico d’ufficio, che, con argomentazioni da intendersi recepite nella sentenza impugnata (per quanto detto sopra), non ne ha ritenuto l’idoneità a far concludere nel senso dell’appartenenza dell’immobile al patrimonio della Provincia.

Questa conclusione trova riscontro in copiosa giurisprudenza di questa corte quanto alle risultanze catastali, in sè ritenute inidonee alla prova del diritto di proprietà – in assenza di altri e più qualificanti elementi ed in considerazione del rigore formale prescritto per tale diritto – potendo avere, al più, in concrete circostanze, soltanto il valore di semplici indizi (cfr. Cass. 5 giugno 1984, n. 3398; 24 agosto 1991, n. 9096; 21 febbraio 1994, n. 1650).

La convenzione del 1894 non viene richiamata nel quinto motivo di ricorso al fine di sostenerne l’efficacia a fini traslativi della proprietà (di cui invece tratta il sesto motivo di ricorso), ma la parte ricorrente lamenta che la finalità transattiva del contratto starebbe a dimostrare che sussistevano da lungo tempo contestazioni tra le due Amministrazioni in ordine alla titolarità del bene immobile; il che smentirebbe definitivamente l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui il Comune dell’Aquila sin dal 1573 aveva “sempre mantenuto e difeso il dominio” del Palazzo.

Risulta dalla sentenza impugnata che con la convenzione in parola il sindaco ebbe a rinunciare ad “ogni maggior pretesa sia per quanto riguarda il diritto di dominio e condominio sul locale”. Non può revocarsi in dubbio che trattasi di espressione, in sè, priva di quell’univocità di significato che sarebbe necessaria per il ritenere il fatto, sul quale la motivazione non si è intrattenuta, decisivo ai fini della controversia: se è vero che potrebbe trattarsi di una transazione od addirittura di un negozio di accertamento; è pur indubitabile che potrebbe essere interpretata come espressione di rinuncia, che postula l’esistenza di un diritto acquisito e la volontà abdicativa volta a dismettere il diritto medesimo (cfr. Cass. 10 ottobre 1983, n. 161).

6.- Col sesto motivo di ricorso la Provincia denuncia l’omessa ed insufficiente motivazione sul fatto controverso e decisivo per il giudizio della validità ed efficacia della convenzione della quale si è detto da ultimo, datata 20 dicembre 1894.

Nella sentenza impugnata si legge che la Provincia non ha fornito la prova delle approvazioni dei Consigli, provinciale e comunale, e della Giunta provinciale amministrativa al cui rilascio era subordinata l’efficacia della convenzione, sicchè, secondo quanto in essa espressamente previsto sono da ritenere “come non fatte” le “enunciative” di cui alla convenzione stessa.

La ricorrente critica questa parte della motivazione, deducendo che la Corte d’Appello non si sarebbe avveduta “(con macroscopica omissione) che invece (come da articolata CIP, come confermato dal CTU e non contestato dal Comune) erano intervenute anche le successive approvazioni sia dei Consigli Provinciale e Comunale che della Giunta Prov.le Amm.va” e che tali atti erano presenti nel fascicolo perchè allegati alla consulenza tecnica di parte.

Il motivo è inammissibile, per le ragioni di cui appresso.

6.1.- Preliminarmente va sgomberato il campo dall’equivoco in cui risulta essere incorsa la difesa del resistente Comune, che, con il controricorso, ha sostenuto l’inutilizzabilità della produzione documentale di che trattasi perchè non prodotta con le forme e nei termini di rito. La questione rilevante ai fini della decisione sul motivo non è lrutilizzabilità dei detti documenti; questione, che (in quanto regolata dalle norme vigenti prima dell’entrata in vigore della novella della L. 26 novembre 1990, n. 353, trattandosi di processo introdotto prima della sua entrata in vigore) consentirebbe di applicare al caso di specie i principi (elaborati nella vigenza di detta disciplina e superati dalle preclusioni introdotte con la richiamata riforma del 1990) per i quali la violazione delle norme sulla produzione dei documenti non rileva quando la controparte legittimata a far valere le irregolarità abbia, pur avendone preso conoscenza, accettato, anche implicitamente, il deposito della documentazione (cfr, da ultimo, Cass. 9 marzo 2010 n. 5671, in un processo introdotto prima del maggio 1995).

La Corte d’Appello non ha deciso in merito alla produzione delle deliberazioni dei Consigli e della Giunta poichè ha ritenuto che i relativi documenti fossero fisicamente mancanti dagli atti, in quanto mai prodotti dalla parte che ne avrebbe avuto l’onere; ciò che rileva pertanto è la circostanza – non contestata e risultante dagli atti richiamati dalla ricorrente – che i documenti fossero stati prodotti, cioè acquisiti agli atti ed inseriti nel fascicolo, e che la Corte territoriale non se ne avvide (come appunto denunciato col sesto motivo di ricorso).

Il principio di diritto applicabile al caso di specie è quello per cui è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si denunci l’errore del giudice di merito per avere ignorato un documento acquisito agli atti del processo e menzionato dalle parti, non corrispondendo tale errore ad alcuno dei motivi di ricorso ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ.; l’errore in questione, risolvendosi in una inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento ma in contrasto con le risultanze degli atti del processo, può essere invece denunciato con il mezzo della revocazione, ai sensi dell’art. 395 cod. proc. civ., n. 4 (così Cass. 19 febbraio 2009, n. 4056; cfr. anche Cass. 30 gennaio 2003, n. 1512; 16 maggio 2006, n. 11373; 1 giugno 2007, n. 12904).

7. – Col settimo motivo di ricorso si denuncia il vizio di motivazione sul fatto controverso e decisivo per il giudizio dell’efficacia del contratto di locazione in data 1938.

Secondo la ricorrente, da tale contratto, stipulato tra la Provincia ed il Comune, si potrebbero dedurre “chiari elementi probatori circa la titolarità del bene in capo alla Provincia dell’Aquila”, poichè con tale contratto il Comune avrebbe riconosciuto l’altruità del bene ed, anzi, avrebbe riconosciuto la proprietà del bene locato in capo al locatore, o quanto meno avrebbe riconosciuto senza dubbi che il locatore – a qualunque titolo – avesse la legittimazione giuridica per disporne.

7.1.- Il motivo è infondato, sebbene la motivazione della sentenza impugnata sia, con riferimento ad esso, meritevole delle precisazioni di cui appresso.

La Corte d’Appello ha correttamente motivato nel senso dell’irrilevanza del contratto di locazione al fine dell’accertamento della proprietà del bene. Ha tuttavia riferito siffatta irrilevanza alla ipotesi che la persona fisica che ebbe a stipulare detto contratto in nome e per conto del Comune, cioè l’allora Podestà, ignorasse che il bene fosse di proprietà comunale.

Più correttamente, va rilevato come il contratto di locazione del 1938, posto a fondamento delle domande introduttive del giudizio da parte della Provincia dell’Aquila, fosse un contratto corrispondente alla schema legale della locazione appunto.

Deve, perciò, escludersi che potesse valere come titolo d’acquisto della proprietà. Non risulta inoltre che esso contenesse clausole ricognitive del diritto di proprietà in capo alla Provincia – ed anche in tale eventualità non potrebbe certo ad esso riconoscersi efficacia traslativa (cfr. quanto al valore probatorio limitato dell’atto di ricognizione, già Cass. 20 febbraio 1992, n. 2088, nonchè Cass. 20 giugno 2000, n. 8365; 16 giugno 2003, n. 9687; 11 giugno 2007, n. 13625).

Anche l’ultimo motivo di ricorso va perciò rigettato.

8.- La peculiarità e la complessità della vicenda trattata, nonchè la considerazione degli interessi pubblici coinvolti, inducono a ritenere di giustizia la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2011

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