Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13167 del 30/06/2020

Cassazione civile sez. I, 30/06/2020, (ud. 04/02/2020, dep. 30/06/2020), n.13167

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17729/2015 proposto da:

Società Ittica Europea S.p.a. in Amministrazione Straordinaria, in

persona del Commissario Straordinario pro tempore, elettivamente

domiciliata in Roma, Viale Parioli n. 54, presso lo studio

dell’avvocato Francioso Luciana, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Cimmino Antonio, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Saima Avandero S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Crescenzio n. 91,

presso lo studio dell’avvocato Lucisano Claudio, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato Scarpa Giovanni, giusta procura in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2842/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 08/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/02/2020 dal Cons. Dott. TERRUSI FRANCESCO.

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza in data 21-2-2011 il tribunale di Roma rigettava, per difetto di prova dell’elemento soggettivo, la domanda proposta dalla Società Ittica Europea s.p.a. (SIE) in amministrazione straordinaria, tesa a ottenere la revoca, ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, di taluni pagamenti eseguiti in beneficio di Saima Avandero s.p.a. nell’anno anteriore alla declaratoria dello stato di insolvenza;

il gravame della procedura veniva a sua volta respinto dalla corte d’appello di Roma con la sentenza in data 8-5-2015, avverso la quale è ora proposto ricorso per cassazione in tre motivi, illustrati da successiva memoria;

la società Saima Avandero ha resistito con controricorso e memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

I. – la ricorrente deduce nell’ordine:

(i) la violazione o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., L. n. 270 del 1999, art. 49 e L. Fall., art. 67, per avere la corte d’appello nella sostanza preteso che fosse fornita una prova diretta della conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo percettore dei pagamenti; lamenta che siano state ritenute irrilevanti le risultanze documentali con le quali SIE aveva palesato anche alla Saima Avandero il proprio stato di decozione; altresì denunzia la circostanza che in altre decisioni della stessa corte d’appello di Roma il presupposto soggettivo suddetto sia stato ritenuto integrato;

(ii) la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., nella misura in cui l’impugnata sentenza ha ritenuto per la massima parte aspecifici i motivi di appello;

(iii) l’omesso esame di fatti decisivi a proposito delle circostanze indicative dello stato di insolvenza; tali circostanze sarebbero state rappresentate: (a) dai decreti ingiuntivi e dai procedimenti esecutivi ottenuti contro la SIE nel periodo sospetto; (b) dai dati di bilancio evidenzianti la gravissima crisi economico-finanziaria in cui versava la società; (c) dalla avvenuta messa in liquidazione e dal licenziamento collettivo dei lavoratori; (d) dalla carenza di liquidità e dalla dismissione della sede di Milano; (e) dalle risultanze della centrale dei rischi in ordine alla revoca degli affidamenti;

II. – il ricorso, i cui motivi possono essere esaminati unitariamente per connessione, è inammissibile per la ragione che segue;

la corte d’appello ha premesso che il gravame della procedura difettava di specificità in rapporto alla più gran parte delle argomentazioni del primo giudice sulla mancanza di prova della scientia decoctionis; in particolare – a fronte delle considerazioni del tribunale a proposito (a) della qualifica di creditore non qualificato della convenuta e della correlata inesigibilità dell’obbligo di accedere a registri o archivi, o di espletare indagini contabili, prima di ricevere i pagamenti; (b) della irrilevanza dei documenti prodotti dall’attrice poichè in massima parte successivi all’epoca dei pagamenti, ovvero non riguardanti la convenuta (salva una missiva in data 10-1-2002, peraltro irrilevante poichè essa pure successiva ai pagamenti); (c) della irrilevanza, parimenti, delle notizie di stampa, poichè supportate solo dalla stampa locale, a fronte dell’operare della convenuta in contesti territoriali diversi; (d) della irrilevanza degli elementi indiziari ulteriori siccome successivi ai pagamenti, a eccezione di un fax inviato da SIE ai propri creditori a giugno 2001, a sua volta non decisivo poichè isolato e facente mero riferimento a un periodo di scarsa liquidità – a fronte di tutto ciò, la corte d’appello ha osservato che l’appellante si era limitata a una “generica contestazione (..) essenzialmente riferita al mancato accoglimento delle argomentazioni difensive contenute in comparsa conclusionale (..) diversamente rispetto alla valutazione dei medesimi elementi sintomatici effettuata da altri giudici della medesima sezione fallimentare del tribunale di Roma”; con il che l’appello si era risolto in una difformità rispetto a quanto previsto dall’art. 342 c.p.c., visto che l’unica doglianza specifica si era concretizzata nel profilo di asserita contiguità territoriale tra la Saima Avandero e la SIE, onde sostenere il collegamento tra le notizie di stampa locale e la conseguente consapevolezza dello stato di insolvenza; ma tale circostanza non era stata supportata da specifici elementi di prova, poichè l’attività della Saima Avandero era quella di spedizioniere, con sede principale a (OMISSIS) e numerose sedi secondarie in tutta Italia, cosicchè su quel solo elemento – incentrato sull’essere una di tali sedi secondarie ubicata in Campania – non poteva esser validamente sorretto il ragionamento presuntivo;

III. – ora il secondo motivo di ricorso, e in generale il ricorso in sè, non soddisfa il fine di autosufficienza per contrastare l’affermata (dalla corte d’appello) aspecificità del gravame;

la tesi sostenuta dalla ricorrente è che l’art. 342 c.p.c., implicherebbe “solo la necessità che la manifestazione volitiva dell’appellante consenta di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e non anche che siano adoperate formule o schemi particolari nell’esposizione dei motivi o delle domande”; ma deve osservarsi che mai si è preteso – nè ha preteso la corte capitolina – che nell’appello si adoperassero “formule o schemi particolari” ai fini dello svolgimento delle censure;

quel che rileva invece è che l’evoluzione giurisprudenziale di questa Corte è contraria alla tesi, nei fatti sostenuta nel ricorso, per cui ai fini del gravame sarebbe bastevole la manifestazione di volontà di impugnare le singole statuizioni;

gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, “affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice” (Cass. Sez. U. n. 27199-17); cosicchè, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado – tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata – è certo che la mera funzione volitiva del gravame non è sufficiente a soddisfare l’art. 342 c.p.c.;

IV. – l’impugnata sentenza, che ha rimarcato la manchevolezza dell’appellante nel contrastare il ragionamento del giudice di prime cure, si pone dunque nel solco del citato insegnamento, e non è censurata in modo pertinente, giacchè ove si censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di alcuni motivi di appello, vi è sempre l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui andrebbe ritenuta erronea una tale statuizione del giudice d’appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice; e non può bastare un mero rinvio all’atto di interposizione del gravame, poichè nel ricorso il ricorrente ha l’onere di riportarne il contenuto nella misura necessaria a evidenziarne la rilevanza della critica svolta (v. ex aliis Cass. n. 22880-17, Cass. n. 20405-06); finanche l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando anche puntualmente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato; tale specificazione deve essere invero contenuta nello stesso ricorso per cassazione, giustappunto per il principio di autosufficienza di esso (v. Cass. Sez. U. n. 8077-12);

è dunque alfine risolutivo che la ricorrente non ha riportatato i tratti salienti dell’appello, allo scopo di consentire alla Corte di verificare se il gravame, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, fosse o meno specifico;

V. – ciò stante, nè il primo nè il terzo motivo possono considerarsi pertinenti e proficui;

il primo non tiene conto della indicata ratio decidendi, facente leva non sull’esigenza di una prova diretta della scientia decoctionis, sebbene sulla genericità e sulla inconsistenza della critica dell’appellante a quanto affermato dal giudice di primo grado; il terzo si risolve in una semplice e tardiva sollecitazione a rivedere la portata degli indizi, per una difforme valutazione della prova presuntiva; prova che la corte d’appello ha ravvisato inidonea in base alle argomentazioni spese dalla sentenza di primo grado non specificamente censurate;

le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00, per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella massima percentuale di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2020

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