Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13164 del 16/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 16/06/2011, (ud. 11/05/2011, dep. 16/06/2011), n.13164

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. PALOMBO

12, presso lo studio dell’avvocato LAVINIA FERDINANDI, rappresentato

e difeso dall’avvocato SABATINI MARIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.L. in proprio e per SAVEMA S.P.A., quale

rappresentante legale pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA GREGORIO VII 426, presso lo studio dell’avvocato SARMATI

ALESSANDRA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

DINELLI GIULIANO FRANCIS, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

FONDIARIA SAI S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 223/2009 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 13/02/2009 R.G.N. 319/07+ 1;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/05/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato SARMATI ALESSANDRA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso che ha concluso per l’inammissibilità o in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 373/2006 il Giudice del lavoro del Tribunale di Lucca condannava la Savema s.p.a. ed il suo amministratore L. P. a pagare a G.F. il risarcimento dei danni biologico e morale (ulteriori rispetto a quanto attribuito dall’INAIL) quantificato in complessivi Euro 67.270,62 subiti dall’ex dipendente a causa dell’infortunio alla gamba sinistra occorsogli in data (OMISSIS) (per il quale era stata accertata in sede penale la responsabilità del datore di lavoro) ed il risarcimento dei danni conseguenti alla ipoacusia professionale indotta dalla rumorosità dei luoghi ove aveva operato il G. durante il rapporto intercorso dal febbraio 1979 all’ottobre 1992, quantificati in complessivi Euro 18.360,55, con detrazione di quanto percepito in base alla provvisionale liquidata dal giudice penale ed all’ordinanza ex art. 423 c.p.c. Il detto giudice inoltre dichiarava la garante Fondiaria Sai tenuta a corrispondere alla Savema, a titolo di manleva, il 50% della somma attribuita a titolo di risarcimento da infortunio, respingendo la domanda di manleva riguardo alla malattia professionale e condannando la Savema e il P. al rimborso delle spese di lite (con manleva di Fondiaria Sai nella misura del 50%) e di c.t.u. (con manleva della compagnia assicuratrice al 50% solo per quelle relative all’infortunio).

Avverso la detta sentenza la Savema e il P. proponevano appello lamentando la erronea quantificazione del danno differenziale ed in particolare sostenendo che tra le due c.t.u. esperite andava preferita non la prima (che, non rispondendo al quesito formulato, aveva considerato quale danno biologico permanente l’intera misura dell’accertato 20%) bensì la seconda (che aveva distinto un 15% riferibile al danno per incidenza sulla attitudine al lavoro ed un 5% riferibile al biologico puro) e contestando altresì il calcolo della indennità di temporanea, comunque non computabile al 100% per l’intero periodo fino al 12-11-1990.

I detti appellanti, poi, censuravano l’attribuzione del risarcimento riguardo alla malattia professionale (della quale il G. era portatore con rendita INAIL dal 1988), deducendo che non sussisteva la prova che in tutto o in parte la ipoacusia da rumore fosse stata determinata (o aggravata) dal lavoro svolto dal 1979 fino al pensionamento, presso lo stabilimento Savema, giacchè essa era sicuramente insorta per l’esposizione nociva subita dal lavoratore nei precedenti 24 anni di lavoro, nei quali aveva lavorato presso varie ditte, e contestavano la misura del danno morale, attribuito al 50% di quello biologico, nonchè la lettura della polizza assicurativa resa dal primo giudice e la esclusione dalla garanzia di Fondiaria SAI dei danni scaturenti dalla malattia professionale, lamentando l’affermata responsabilità al solo 50% della chiamata in causa, ribadendo di non aver sottoscritto il patto di coassicurazione stipulato da Fondiaria con le assicurazioni Generali ed eccependo in subordine che la coassicurazione andava intesa come 50% del massimale (di L. 500 milioni).

Infine gli stessi appellanti, rilevato che il danno da risarcire era coperto dalle somme assegnate a G. in sede di provvisionale penale e di ordinanza ex art. 423 c.p.c., chiedevano la restituzione di quanto erogato in più in sede di esecuzione della sentenza di primo grado, e concludevano di conseguenza.

La società Fondiaria SAI si costituiva e proponeva appello incidentale avverso la soccombenza parziale in tema di manleva definita nei suoi confronti dal primo giudice e la sua mancata estromissione dal giudizio.

Anche il G. si costituiva contestando le censure svolte da Savema e P..

Con distinto ricorso, poi riunito, il G. impugnava a sua volta la decisione di primo grado, censurando il computo della percentuale di danno biologico per l’infortunio da risarcire, affermando la sussistenza di un danno maggiore per il risarcimento da malattia professionale e sostenendo che la rivalutazione e gli interessi in relazione a tale ultimo danno erano dovuti dall’accertamento e non dalla cessazione del rapporto, nonchè lamentando la mancata affermazione della responsabilità solidale del socio amministratore P. anche in merito al risarcimento del danno da ipoacusia professionale.

La società Savema e il P. si costituivano in tale secondo procedimento, resistendo al gravame di controparte.

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza depositata il 13-2-2009, in parziale accoglimento dell’appello di Savema e P., condannava in solido i detti appellanti a risarcire a G. il danno biologico e morale da infortunio nella misura complessiva di Euro 13.338,00, con interessi dal 26-3-1990 e rivalutazione ed interessi dalla data della sentenza di primo grado; respingeva la domanda risarcitoria relativa alla ipoacusia professionale e condannava il G. alla restituzione della maggior somma versatagli in esecuzione della sentenza emessa nel giudizio penale e dell’ordinanza ex art. 423 c.p.c. del giudice del lavoro ed in esecuzione della sentenza appellata;

rigettava l’appello principale proposto nei confronti di Fondiaria s.p.a. e quello incidentale di quest’ultima; rigettava, infine, l’appello proposto dal G., compensando per intero le spese del doppio grado tra Savema e P. e Fondiaria s.p.a. e per metà quelle di primo grado tra Savema e P. e G., condannando i primi a rimborsare al secondo l’altra metà di tali spese (come liquidate per l’intero dal Tribunale), con manleva al 50% di Fondiaria, e compensando integralmente tra i medesimi le spese di secondo grado (confermando la liquidazione di quelle di consulenza operata dal tribunale).

In sintesi la Corte territoriale:

riteneva, riguardo all’infortunio, la sussistenza di un danno biologico differenziale del 5%, sulla scorta della seconda CTU espletata in primo grado (maggiormente condivisibile per le ragioni indicate, rispetto alla prima recepita dal primo giudice);

escludeva la sussistenza di un danno biologico derivato dalla inabilità temporanea, ulteriore rispetto a quanto liquidato dall’INAIL;

liquidava il danno morale nella misura del 50% del danno biologico;

per quanto riguarda poi la ipoacusia professionale, sulla base delle CTU, rigettava la domanda di danno differenziale , escludendo che la malattia, di sicura genesi precedente, si fosse aggravata per le condizioni di lavoro presso la Savema;

confermava la garanzia al 50% a carico della Fondiaria.

Per la cassazione di tale sentenza il G. ha proposto ricorso con otto motivi.

La Savema ha resistito con controricorso.

La Fondiaria Sai è rimasta intimata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Osserva preliminarmente il Collegio che nella fattispecie va applicato l’art. 366 bis c.p.c., ratione temporis, trattandosi di ricorso avverso sentenza depositata in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 ed anteriore all’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 (cfr. fra le altre Cass. 24-3-2010 n. 7119, Cass. 16-12-2009 n. 26364).

Orbene l’art. 366 bis c.p.c., “nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi di ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dicta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione” (v. Cass. 25-2-2009 n. 4556).

In particolare il quesito di diritto, in sostanza, deve integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4- 2009 n. 8463) e “deve comprendere l’indicazione sia della “regola iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile” (v.

Cass. 30-9-2008 n. 24339).

Pertanto, come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui nuovamente enunciato ex art. 384 c.p.c., “è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., il ricorso per cassazione nel quale l’illustrazione dei singoli motivi non sia accompagnata dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto, tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte” (v. Cass. S.U. 26-3- 2007 n. 7258, Cass. 7-11-2007 n. 23153), non potendo, peraltro, il quesito stesso desumersi dal contenuto del motivo, “poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis c.p.c., consiste proprio nell’imposizione al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed auto sufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (v. Cass. 24-7-2008 n. 2040, cfr. Cass. S.U. 10-9-2009 n. 19444).

Peraltro è inammissibile non solo il motivo nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente in relazione alla illustrazione del motivo stesso, o rispetto al decisum (v. Cass. S.U. 21-6-2007 n. 14385, Cass. S.U. 29- 10-2007 n. 22640), “ovvero sia formulato in modo implicito, sì da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico (v. Cass. S.U. 28-9-2007 n. 20360 cfr. Cass. S.U.5-2-2008 n. 2658).

Nell’ipotesi, poi, prevista dall’art. 360 c.p.c., n. 5, come pure è stato precisato e va qui nuovamente enunciato, “l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione” e “la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo al quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità” (v. Cass. S.U. 1-10-2007 n. 20603, Cass. 20-2-2008 4309). Tale sintesi deve essere “evidente ed autonoma” – v. Cass. 30- 12-2009 n. 27680, Cass. 7-4-2008 n. 8897, Cass. S.U. 1-10-2007 n. 20603, Cass. 18-7-2007 n. 16002 – e non può essere ricavata implicitamente dall’esposizione complessiva del motivo stesso.

Orbene con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 2043, 2087, 1218 c.c. e art. 32 Cost., censura la valutazione del danno da infortunio fatta dalla Corte di merito sulla scorta della seconda CTU, ed assume in sostanza che il 20% accertato doveva “essere considerato interamente come danno biologico, come tale ultroneo rispetto a quello liquidato dall’INAIL” (rendita del 15%).

Tale motivo è inammissibile per mancanza assoluta del quesito di diritto.

Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando vizio di motivazione, in sostanza, dopo una premessa generale sulla risarcibilità integrale del danno biologico, inteso come “danno a sè stante, diverso dalla riduzione della capacità lavorativa, e non residuale rispetto a quest’ultima”, si duole semplicemente che la Corte d’Appello non avrebbe motivato la sua decisione.

Anche tale motivo è inammissibile in quanto del tutto privo di una chiara ed autonoma sintesi idonea ad evidenziare e delimitare il vizio denunciato. Del resto la stessa esposizione del motivo risulta assolutamente generica, mancando una chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume “omessa, insufficiente o contraddittoria” e non essendo state indicate le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

Peraltro, con riferimento ai detti primi due motivi, va ulteriormente rilevato che il ricorrente, in sostanza, si limita a ribadire la propria tesi (circa un preteso 35% di danno complessivo), fondata su una lettura della prima consulenza d’ufficio, ritenuta erronea dalla Corte di merito, come accuratamente spiegato a pagina 6 della sentenza impugnata, senza censurare specificamente nè tale spiegazione nè la chiara affermazione della distinzione (sulla scorta della seconda consulenza) tra danno incidente sulla capacità di lavoro (15%), risarcito dall’INAIL, in quanto danno patrimoniale, e danno “puramente” biologico, non patrimoniale, del 5% (non liquidato dall’istituto ratione temporis e che comunque, in quanto inferiore al 6%, neppure sarebbe stato dallo stesso istituto liquidabile nel vigore del D.Lgs. n. 38 del 2000).

Con il terzo motivo, denunciando violazione degli artt. 2043, 2087, 1218, 1223 c.c. e dell’art. 32 Cost., il ricorrente lamenta che la Corte territoriale erroneamente avrebbe escluso un danno biologico in rapporto alla inabilità temporanea, ulteriore rispetto a quanto definito in sede INAIL, ed all’uopo formula il seguente quesito di diritto: “deve il danno biologico temporaneo essere individuato con riferimento alla temporanea riduzione della capacità lavorativa o con riferimento alla riduzione temporanea del benessere e della condizione fisica e psichica”.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta omessa o insufficiente motivazione al riguardo, rilevando il carattere apodittico delle affermazioni, sul punto, dell’impugnata sentenza.

Anche tali motivi non possono essere accolti.

Premesso che la Corte di merito ha escluso che nella fattispecie fosse risultato un danno differenziale biologico temporaneo, ovverossia “una menomazione della vita relazionale” ulteriore rispetto a quanto riconosciuto come indennità temporanea in sede INAIL, il Collegio, con riferimento al terzo motivo, osserva che il quesito risulta generico ed inconferente, in quanto, nella specie, non si controverte affatto sulla configurabilità in astratto di una menomazione della vita di relazione, ulteriore rispetto all’inabilità temporanea in senso stretto, bensì sulla sussistenza nella fattispecie concreta di un siffatto danno (“puramente”) biologico temporaneo verificatosi in capo all’infortunato.

In altre parole la risposta al quesito, peraltro scontata, non risolve comunque la questione controversa.

Per quanto riguarda, poi, il quarto motivo, la sintesi del vizio di motivazione, “omologa” al quesito di diritto si risolve in una semplice e del tutto generica richiesta rivolta a questa Corte di verificare se “la dichiarazione contenuta nella sentenza” costituisca “una motivazione, ed una motivazione sufficiente della decisione, o no ?”. Del resto, anche in tal caso, la esposizione stessa del motivo risulta assolutamente generica, mancando una chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume “omessa o insufficiente” e non essendo state specificate le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, all’uopo neppure essendo stata indicata alcuna risultanza concreta che sarebbe stata in qualche modo trascurata dalla Corte di merito.

Con il quinto motivo, denunciando violazione degli artt. 2043, 2087, 1218, 1223 c.c. e art. 32 Cost., il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui è stata respinta la domanda relativa al risarcimento del danno differenziale da malattia professionale, non essendo stato provato che “all’oggettivo progredire ingravescente della malattia otoacustica, di sicura genesi precedente all’adibizione presso Savema, si sia aggiunta anche una quota di peggioramento della patologia professionale imputabile alle condizioni di lavoro presso l’appellante”.

In specie il ricorrente assume che dall’istruttoria era risultato che egli aveva “sì lavorato anche in precedenza in ambienti rumorosi, ma molto meno che alla Savema spa, dove si lavorava al chiuso e con rumori fortissimi…; che non aveva avuto mai in precedenza disturbi all’udito e di averne avuti soltanto dopo un pò che aveva iniziato a lavorare alla Savema..” e lamenta che la Corte di merito erroneamente non avrebbe ricercato “la certezza della prova nel senso quanto meno della forte probabilità che la malattia fosse stata contratta alla Savema s.p.a. e con responsabilità della stessa”.

Al riguardo il ricorrente formula, poi, il seguente quesito di diritto: “in presenza di ragionevoli elementi di convincimento circa l’esistenza delle condizioni per giustificare l’insorgenza della malattia professionale, e circa il fatto che il lavoratore abbia contratto tale malattia nel periodo indicato di lavoro presso una specifica ditta si deve accertare il diritto al risarcimento del danno?”.

Tale quesito risulta del tutto astratto e generico in quanto non offre alcuna sintesi logica della questione specifica sollevata con il motivo, non comprende l’indicazione nè della “regola iuris” adottata nel provvedimento impugnato nè del diverso principio che, secondo il ricorrente, si sarebbe invece dovuto applicare e neppure indica quali fossero i “ragionevoli elementi di convincimento” che, in sostanza, sarebbero stati trascurati dalla Corte di merito.

Lo stesso motivo, del resto, non contiene tali indicazioni, chiaramente violando il principio di autosufficienza e limitandosi semplicemente ad esporre una diversa lettura delle risultanze istruttorie.

Con il sesto motivo il ricorrente denuncia altresì vizio di motivazione al riguardo, ribadendo però semplicemente tale sua lettura e chiedendo a questa Corte di verificare se “la motivazione della Corte d’Appello sul punto manca o è insufficiente?”, ma non specifica in alcun modo quali fossero le asserite decisive risultanze che sarebbero state trascurate dalla Corte territoriale.

Possono, quindi, qui richiamarsi le stesse considerazioni sopra svolte in specie con riferimento al secondo e al quarto motivo, sia in ordine alla mancanza di un idoneo “momento di sintesi”, omologo al quesito di diritto, sia in ordine alla genericità e non autosufficienza del motivo.

Con il settimo motivo il ricorrente, denunciando violazione delle norme che regolano l’assunzione delle prove, lamenta che “nonostante sia stata ammessa la prova per testi richiesta nel ricorso introduttivo, la prova stessa non è mai stata sfogata”.

Tale motivo, parimenti assolutamente generico e non autosufficiente (non essendo state riportate in alcun modo le circostanze specifiche oggetto della prova richiesta), risulta innanzitutto privo del quesito di diritto e come tale inammissibile.

Infine con l’ottavo motivo il ricorrente denuncia un vizio di motivazione e deduce al riguardo soltanto che “si ripropongono le impugnazioni già proposte in sede di appello dal sig. G. e rigettate dalla Corte d’Appello per i motivi sopra esposti”.

Tale formula meramente residuale, onnicomprensiva, “di stile”, assolutamente priva di qualsiasi indicazione o riferimento di specie, neppure integra l’esistenza di un motivo suscettibile di essere considerato nel paradigma (denunciato) dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il motivo, pertanto, prima di ogni ulteriore considerazione sul mancato rispetto dell’art. 366 bis c.p.c. e del principio di autosufficienza, va ritenuto del tutto inesistente.

Il ricorso va così respinto e il ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannato a pagare le spese ai controricorrenti Savema s.p.a. e P.L.; nulla per le spese nei confronti della Fondiaria SAI, che non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare alla Savema e al P. le spese, liquidate in Euro 40,00 per esborsi oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA; nulla per le spese nei confronti della Fondiaria SAI. Così deciso in Roma, il 11 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2011

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