Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13148 del 16/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 16/06/2011, (ud. 02/03/2011, dep. 16/06/2011), n.13148

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TOSI PAOLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.P., A.L., S.G.,

ORGANIZZAZIONE COBAS P.T. CUB NOVARA, M.G., P.

P., F.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 471/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 10/05/2006 r.g.n. 287/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/03/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 21/3 – 10/5/06 la Corte d’Appello di Torino rigettò l’appello proposto dalle Poste Italiane spa avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Novara, con la quale era stato dichiarato il diritto degli odierni intimati al versamento di una quota della loro retribuzione in favore dell’organizzazione sindacale Cobas – PT – Club Novara con condanna della società postale convenuta ad operare mensilmente la trattenuta nella misura indicata dai lavoratori, dopo aver ritenuto di aderire all’intervento delle sezioni unite della Cassazione che con la sentenza n. 28269 del 21/12/05 aveva ribadito il principio della legittimità della cessione del credito operata dal lavoratore in favore de proprio sindacato di appartenenza secondo i principi regolatori di tale istituto civilistico, così condannando l’appellante alle spese del grado. Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste, affidando l’impugnazione a tre motivi di censura.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la società ricorrente denunzia il vizio di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 313 del 1995 in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 26 nonchè dell’art. 15 del CCNL 2001 per i dipendenti di Poste Italiane S.p.A e dell’art. 1260 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) e pone il seguente quesito di diritto: ” Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se costituisca violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 313 del 1995 in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 26 nonchè dell’art. 15 del CCNL 2001 Poste e dell’art. 1260 c.c. l’aver dichiarato illegittimo il comportamento dell’azienda che, sulla scorta delle norme citate, non ha dato corso alle richieste unilaterali dei lavoratori aderenti ai sindacati non firmatari dei CCNL di effettuare le trattenute sindacali”. In concreto si sostiene che una volta venuta meno, per effetto dell’abrogazione referendaria del giugno del 1995, la ragione fondante del diritto alla riscossione dei contributi sindacali mediante ritenuta sulla retribuzione, vale a dire la fonte legale di cui a) art. 26 dello Statuto dei lavoratori, comma 2 la materia era stata restituita alla base contrattuale, sia individuale che collettiva, per cui da quest’ultima ne rimanevano esclusi i sindacati, come quello oggi in causa, non firmatari di particolari accordi. Una tale situazione nemmeno poteva ritenersi superata attraverso il ricorso all’istituto della cessione del credito che si configurava, sotto tale aspetto, come una ipotesi di negozio in frode alla legge, in quanto diretto ad eludere l’esito del referendum e la conseguente abrogazione della citata norma.

2. Col secondo motivo si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 1260 c.c. e segg. (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5) e si conclude l’illustrazione della censura coi seguenti quesiti di diritto: “Dica questa Ecc.ma Corte se costituisca violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1260 c.c. l’aver ritenuto irrilevanti ai fini della validità e efficacia della cessione del credito gli eventuali oneri aggiuntivi che questa comporta per il debitore ceduto”.

“Dica altresì questa Ecc.ma Corte se costituisca violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1175, 1374, 1375 e 2697 c.c. l’aver subordinato la legittimità del rifiuto del datore di lavoro ad adempiere la prestazione alla prova specifica dell’entità degli oneri aggiuntivi derivanti dalla cessione del credito operata dai lavoratori a favore di 00.SS non firmatarie.” In pratica si ritiene che mancherebbero nel caso di specie gli elementi minimi per poter configurare l’ipotesi della cessione del credito, trattandosi di cessioni generalizzate di piccole parti di crediti futuri, situazione, questa, estranea allo schema dell’art. 1260 c.c. e segg., finalizzato alla circolazione del credito, e destinata a comportare un aggravio degli oneri e dei rischi del debitore ceduto.

3. Con l’ultimo motivo ci si duole della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

Attraverso tale censura si vuoi evidenziare che la bilateralità caratteristica dello schema negoziale della cessione del credito renderebbe irrevocabile la cessione stessa, la qual cosa è invece in contrasto con l’esigenza della libertà sindacale del prestatore di lavoro di potersi liberare in ogni momento da qualsiasi vincolo di affiliazione sindacale o da vincoli economici nei suoi confronti. Si specifica, inoltre, che in ogni caso si verrebbe a creare ancora una volta un onere aggiuntivo in capo al debitore ceduto e si trascurerebbe anche la considerazione che il credito verrebbe trasferito al cessionario con le caratteristiche e le garanzie proprie del credito retributivo originario, dalla qual cosa discenderebbe la conseguenza della esistenza dei limiti alla cessione del credito per retribuzione (limiti legali della pignorabilità), nonchè dell’opponibilità da parte dell’azienda di tutte le eccezioni inerenti al rapporto col lavoratore, oltre che il trasferimento del credito al cessionario coi privilegi, le garanzie reali e personali.

Si osserva che tutti e tre i motivi possono essere trattali congiuntamente, essendo unica la questione sottoposta all’esame della Corte, seppure sotto diverse prospettazioni giuridiche.

Ebbene, il ricorso è infondato posto che le Sezioni unite di questa Corte (Cass. Sez. un. n. 28269 del 21/12/2005) hanno deciso la questione in esame statuendo che “il referendum del 1995, abrogativo dell’art. 26 dello statuto dei lavoratori, comma 2 e il susseguente D.P.R. n. 313 del 1995 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo. Pertanto, ben possono i lavoratori, nell’esercizio della propria autonomia privata ed attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato – cessione che non richiede, in via generale, il consenso del debitore -, richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso; qualora il datore di lavoro affermi che la cessione comporti in concreto, a suo carico, un nuovo onere aggiuntivo insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex art. 1374 e 1375 cod. civ., deve provarne l’esistenza. L’eccessiva gravosità della prestazione, in ogni caso, non incide sulla validità e l’efficacia del contratto di cessione del credito, ma può giustificare l’inadempimento del debitore ceduto, finchè il creditore non collabori a modificare le modalità della prestazione in modo da realizzare un equo contemperamento degli interessi. Il rifiuto del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, qualora sia ingiustificato, configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività.

(Principio affermato in relazione a fattispecie disciplinata dal regime anteriore alla modifica del testo del D.P.R. n. 180 del 1950, art. 1 operata dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 137, che ha reso incedibili, fuori dei casi consentiti dal medesimo testo normativo – poi modificato dal D.L. n. 35 del 2005, art. 13 bis convertito in L. n. 80 del 2005 – anche i compensi erogati dai privati datori di lavoro ai dipendenti)”.

Ebbene, con la citata sentenza, le sezioni unite, hanno composto il contrasto tra le sentenze che hanno in precedenza deciso la questione, ritenendo alcune non utilizzabile l’istituto della cessione del credito per versare al sindacato le quote associative (Cass. 3 febbraio 2004, n. 1968; Cass. 3 giugno 2004, n. 10616), fornendo altre risposta di segno affermativo e ritenendo altresì antisindacale il rifiuto di pagamento opposto dal datore di lavoro (Cass. 26 febbraio 2004, n. 3917; Cass. 26 luglio 2004, n. 14032).

Con la stessa sentenza n. 28269 del 21/12/2005 si è precisato che alla fattispecie va applicato il regime normativo vigente fino al 31 dicembre 2004 (esattamente come nel caso ora in esame), non rilevando la modificazione del testo del D.P.R. 5 gennaio 1950 n. 182, art. 1 (insequestrabilità, impignorabilità e incedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti), operata dalla L. 31 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 137, mediante l’aggiunta, nel comma 1, delle parole nonchè le aziende private, rendendo così incedibili, fuori dei casi consentiti dal medesimo testo normativo (come modificato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 13 bis, conv. in L. 14 maggio 2005, n. 80) anche i compensi erogati dai privati datori di lavoro ai dipendenti.

Nel regime precedente, infatti, non si dubitava, stante la regola generale della cedibilità dei crediti, posta dall’art. 1260 c.c., esclusi soltanto i crediti di carattere strettamente personale e quelli il cui trasferimento è vietato dalla legge, dell’ammissibilità della cessione dei crediti retributivi dei lavoratori del settore privato, non trovando per essi applicazione del D.P.R. n. 182 del 1950, art. 1 (vedi Cass. 1 aprile 2003, n. 4930).

Neppure si è posto in dubbio che un ostacolo alla cessione della retribuzione potesse derivare dal carattere parziale e futuro del credito ceduto. La cessione può certamente avere ad oggetto solo una parte del credito, come si argomenta dall’art. 1262 cod. civ., comma 2, ed anche crediti futuri, com’è pacifico in giurisprudenza (Cass. n. 8497 del 18 ottobre 1994, n. 5947 del 15 giugno 1999, n. 7162 del 3 dicembre 2002).

Va senz’altro disattesa la tesi del negozio in frode alla legge, come hanno ritenuto, del resto, tutte le sentenze che si sono occupate della questione. Si è correttamente osservato che l’abrogazione referendaria dell’art. 26 Stat. Lav., comma 2 e 3, non ha certo determinato un “vuoto” nella regolamentazione della materia, ma – come precisato dalla Corte costituzionale in relazione all’intento dei promotori (sent. n. 13 del 1995), ha “restituito” all’autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge in termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicchè resta ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti, si attribuirebbero all’istituto del referendum non i soli effetti abrogativi che gli sono propri, ma anche effetti propositivi.

Da tali doverose premesse consegue che la tesi dell’odierna ricorrente è in contrasto con l’essenza esclusivamente abrogativa dell’istituto referendario e con il risultato perseguito con l’indizione del referendum, da individuare esclusivamente nell’eliminazione dell’obbligo ex lege a carico del datore di lavoro.

Le Sezioni unite hanno, altresì, ritenuto che la specifica disciplina relativa alla cessione detta sì uno schema unitario, che viene ad applicarsi a tutte le fattispecie traslative del credito, ma senz’altro incompleto: essa si pone quale correttivo e/o integrazione predisposti, in contemplazione del particolare oggetto, nei confronti dei singoli negozi causali traslativi. Nel caso in esame, lo schema si applica ad una cessione per pagamento (solvendi causa), ed infatti il cedente (lavoratore), in luogo di corrispondere al suo creditore (associazione sindacale) la prestazione dovuta (quota sindacale), gli cede in pagamento parte del credito (futuro) che egli ha nei confronti del debitore ceduto (datore di lavoro).

Ne discende che la causa del contratto di cessione si determina mediante il collegamento con il negozio al quale è funzionalmente preordinata, assumendo, quindi, nel caso, una funzione di assolvimento degli obblighi nascenti dal rapporto di durata originato dall’adesione associativa. Di conseguenza, se viene meno il rapporto sottostante, ciò provoca la caducazione della funzione del negozio di cessione, determinandone l’inefficacia.

In conclusione, la cessione ha funzione di pagamento della quota sindacale e il pagamento è dovuto dal lavoratore soltanto finchè ed in quanto aderisce al sindacato, in forza di un contratto dal quale il recesso ad nutum è garantito dai principi inderogabili di tutela della libertà sindacale del singolo lavoratore. I pagamenti eventualmente eseguiti dal datore di lavoro successivamente alla “revoca della delega” (che non è revoca della cessione, come tale inconcepibile, ma cessazione della sua causa per sopravvenuta inesistenza nel collegamento con il negozio di base) sono effettuati a soggetto diverso dal creditore ed avranno effetto liberatorio soltanto se il debitore non ha avuto conoscenza della c.d. “revoca” (art. 1189 cod. civ.).

Le stesse sezioni unite hanno, inoltre, evidenziato che le varie argomentazioni addotte a sostegno della impraticabilità del ricorso all’istituto della cessione del credito, non potendo influenzare il tema della validità ed efficacia del contratto di cessione del credito retribuivo al sindacato, per adempiere agli obblighi associativi, hanno ipotizzato la nullità per frode alla legge, e, quindi, che l’esito referendario abbia introdotto nell’ordinamento il principio inderogabile del divieto di realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro, senza il suo consenso, di versare al sindacato quote della retribuzione.

A tali argomentazioni la decisione delle sezioni unite ha posto un freno evidenziando come sia del tutto arbitrario desumere un tale principio dall’effetto semplicemente abrogativo del referendum, limitato alla soppressione di un obbligo ex lege, senza interferire minimamente sull’apparato degli strumenti negoziali a disposizione di tutti i soggetti dell’ordinamento.

Hanno poi proseguito le sezioni unite che, sgomberato il campo da ogni indebito condizionamento dell’indagine, si deve ricordare come si ammetta comunemente che, in caso di cessione del credito, l’obbligazione del debitore possa subire alcune modifiche (tra queste quella, non certo marginale, del luogo di adempimento). Ma il limite della non esigibilità di una modificazione eccessivamente gravosa, da identificare in concreto con l’applicazione del precetto di buona fede e correttezza (art. 1175 cod. civ.), non riguarda la validità e l’efficacia del contratto di cessione del credito, ma soltanto il piano dell’adempimento, del pagamento. Ne segue che l’eccessiva gravosità può giustificare l’inadempimento, fino a quando il creditore non collabori a modificarne in modo adeguato le modalità, onde realizzare un giusto contemperamento degli interessi.

Ovviamente, a norma dell’art. 1218 cod. civ., è il debitore che deve provare la giustificatezza dell’inadempimento.

In tal modo si ribadisce, in sostanza, che, scomparso l’obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono essere impiegati per realizzare risultati, non certo identici o analoghi, ma, al più, equivalenti.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

La mancata costituzione degli intimati comporta che non va adottata alcuna statuizione sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2011

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