Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13135 del 24/06/2016


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Cassazione civile sez. trib., 24/06/2016, (ud. 19/05/2016, dep. 24/06/2016), n.13135

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10959/2011 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

S.P.;

– intimato –

nonchè da:

S.P., elettivamente domiciliato in ROMA VIA QUINTINO

SELLA 41, presso lo studio dell’avvocato CAMILLA BOVELACCI,

rappresentato e difeso dall’avvocato LUCA BELLINI giusta delega in

atti;

– controricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

sul ricorso 23590/2012 proposto da:

S.P., elettivamente domiciliato in ROMA VIA QUINTINO

SELLA 41, presso io studio dell’avvocato CAMILLA BOVELACCI,

rappresentato e difeso dall’avvocato LUCA BELLINI giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DI RAVENNA, AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 16/2010 della COMM. TRIB. REG. di BOLOGNA,

depositata il 02/03/2010;

udita le relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/05/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO MARIA STALLA;

udito per il ricorrente l’Avvocato CASELLI che ha chiesto

L’accoglimento del ricorso principale e rigetto dell’incidentale;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto ricorso contro

diniego di condono, il rigetto del ricorso incidentale e

raccoglimento del ricorso principale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO

L’agenzia delle entrate propone tre motivi di ricorso (n. 10959/11 rg., notificato il 18 aprile 2011) per la cassazione della sentenza n. 16/06/10 del 2 marzo 2010 con la quale la commissione tributaria regionale di Bologna, a conferma della prima decisione, ha ritenuto illegittimo l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro ed accessori notificato a S.P. in relazione al Decreto Ingiuntivo esecutivo n. 1126 del 2009, da questi ottenuto nei confronti di tal D.C.S..

La commissione tributaria regionale, in particolare, rilevava la nullità dell’avviso di liquidazione in oggetto per carenza di motivazione e, comunque, la sua complessiva illegittimità perchè recante la pretesa dell’ufficio di applicare l’imposta proporzionale di registro (3%) non soltanto sul decreto ingiuntivo (tassa di sentenza), ma anche sugli assegni bancari in esso enunciati (tassa di titolo); nonostante che questi ultimi dovessero essere tassati in misura fissa ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 7.

Nel corso del giudizio di appello l’agenzia delle entrate non coltivava la pretesa per il pagamento dell’imposta sugli assegni bancari (nonostante che questi ultimi, a suo dire, rilevassero non in quanto tali, ma perchè denotanti una promessa unilaterale di pagamento assoggettata ad imposizione proporzionale), insistendo invece per quella concernente la cd. tassa di sentenza sull’ammontare del decreto ingiuntivo.

Lo S. ha formulato tre motivi di ricorso incidentale.

Con autonomo ricorso (n. 23590/12 rg., notificato il 17 ottobre 2012) quest’ultimo ha chiesto l’annullamento del diniego di definizione di lite pendente comunicatogli dalla direzione provinciale di Ravenna dell’agenzia delle entrate in data 30 agosto 2012, con riferimento alla suddetta controversia relativa all’imposizione del Decreto Ingiuntivo. Ciò sul presupposto che l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro su quest’ultimo provvedimento giudiziario integri – D.L. n. 98 del 2011, ex art. 39, comma 12, conv. in L. n. 111 del 2011, richiamante la definizione dl lite pendente di cui alla L. n. 389 del 2002, art. 16 – vero e proprio atto impositivo, recante non soltanto la liquidazione del tributo ma anche l’accertamento dei suoi presupposti.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, il Collegio ritiene che vada disposta la riunione del ricorsi cosi proposti, sussistendo ragioni di unitarietà sostanziale e processuale della controversia tali da giustificare il loro esame congiunto.

1. Con il primo motivo di ricorso (n. 10959/11) l’agenzia delle entrate lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c.; per avere la commissione tributaria regionale annullato l’avviso di liquidazione in oggetto per un profilo, la sua asserita carenza di motivazione, che non era stato dedotto dal contribuente nel ricorso introduttivo.

Con il secondo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – motivazione insufficiente e contraddittoria su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Per avere la commissione tributaria regionale confermato la sentenza di primo grado sul presupposto che quest’ultima non si fosse basata esclusivamente sulla carenza di motivazione dell’avviso di liquidazione e, inoltre, sull’erroneo assunto che dall’avviso dl accertamento non fosse esattamente individuabile la pretesa impositiva; invece chiaramente riferibile, in base alle norme citate, sia al decreto ingiuntivo sia agli assegni, assunti però questi ultimi non in quanto tali ma perchè rivelatori di una promessa unilaterale di pagamento assoggettata ad imposizione proporzionale.

Con il terzo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2 e art. 35, comma 3, nonchè art. 277 c.p.c.; per avere la commissione tributaria regionale confermato l’annullamento in toto dell’avviso di accertamento, nonostante che la legittimità di quest’ultimo non fosse stata contestata dal contribuente nella parte relativa alla c.d. tassa di sentenza.

2. Con il primo motivo di ricorso incidentale lo S. deduce violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.; per avere la commissione tributaria regionale compensato le spese di lite, nonostante la totale soccombenza dell’agenzia delle entrate e la mancata esplicitazione dl ragioni tali da giustificare il mancato riconoscimento delle medesime alla parte vincitrice.

Con il secondo motivo di ricorso incidentale lo S. lamenta –

ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2; per avere la commissione territoriale erroneamente respinto la sua eccezione di inammissibilità dell’appello proposto dall’agenzia delle entrate, perchè proposto senza deposito di copia dell’atto di appello (non notificato a mezzo dl ufficiale giudiziario) presso la segreteria del giudice di primo grado.

Con il terzo motivo di ricorso incidentale si deduce, L. n. 212 del 2000, ex art. 7, la nullità dell’avviso di liquidazione originariamente impugnato, nonchè la sua rilevabilità d’ufficio;

con la conseguenza che la commissione tributaria regionale “non poteva, una volta constatato il difetto di legittimità, limitare la declaratoria di nullità ad una parte dell’atto, stante il principio di unitarietà dell’atto amministrativo”.

3.1 Nel ricorso n. 23590/12 lo S. formula un motivo di annullamento del diniego di definizione di lite pendente comunicatogli dalla direzione provinciale dl Ravenna dell’agenzia delle entrate in data 30 agosto 2012, con riferimento alla presente controversia relativa all’imposizione del Decreto Ingiuntivo. Ciò sul presupposto che ravviso di liquidazione dell’imposta di registro su quest’ultimo provvedimento giudiziario integri – D.L. n. 98 del 2011, ex art. 39, comma 12, conv. in L. n. 111 del 2011, richiamante la definizione di lite pendente di cui alla L. n. 389 del 2002, art. 16 – vero e proprio atto impositivo, recante non soltanto la liquidazione del tributo ma anche l’accertamento dei suoi presupposti.

3.2 L’impugnativa testè ricostruita è infondata.

L’istanza di definizione in oggetto è stata proposta ai sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12, conv. in L. n. 111 del 2011;

disposizione, quest’ultima, che richiama – salvo alcune specificazioni – la regolamentazione di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 16.

Soccorre pertanto nella specie il principio – elaborato dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo a quest’ultima disciplina – secondo cui, in tema di condono fiscale, non è configurabile come “lite pendente” ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 3, lett. a) e perciò non è suscettibile di definizione agevolata, la controversia instaurata in relazione ad un atto con il quale l’ufficio finanziario abbia svolto un’attività meramente liquidatoria e non accertativa-rettificativa-impositiva del tributo (ex Cass. 23250/15; Cass. 2598/12; Cass. 8196/11).

E’ vero che il carattere meramente liquidatori dell’atto deve essere desunto dal contenuto sostanziale e dalla funzione di quest’ultimo, non già dalla sua rubricazione nominale e qualificazione formale (Cass. 20731/101 Cass. 4129/09); tuttavia, nel caso di specie è proprio in considerazione della portata sostanziale dell’atto che deve escludersi un suo effetto prettamente impositiva ed accertativo di maggior valore.

Nella specie, infatti, l’avviso di liquidazione in oggetto si limitava ad applicare – sulla base di elementi e parametri economici desumibili ictu oculi dall’atto stesso, in assenza di qualsivoglia valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione l’imposta proporzionale di registro commisurata all’entità della somma ingiunta. Si trattava pertanto di un’attività di mera determinazione quantitativa mediante calcolo percentuale sul valore economico risultante dall’atto giudiziario.

Nè una diversa conclusione dovrebbe desumersi dal tenore della contestazione mossa dal contribuente in ordine al fatto che tale imposizione non potesse aggiungersi a quella (proporzionale) sul titolo dedotto nell’Ingiunzione (gli assegni bancari); atteso che, a seguito dell’abbandono di quest’ultima pretesa da parte dell’amministrazione finanziaria, la stessa contesa si è svuotata di contenuto, per avere il contribuente contestato la legalità formale dell’imposizione, ma non la debenza dell’imposta proporzionale sull’ingiunzione.

Non trova dunque smentita quanto osservato dall’agenzia delle entrate nel provvedimento di diniego, secondo cui l’ufficio si è qui limitato – in una situazione nella quale l’avviso di liquidazione era reso necessario dalla mancata previsione di autoliquidazione del tributo – a stabilire l’entità dell’imposta sulla base dei dati dichiarati dallo stesso contribuente avanti al giudice, e risultanti dal decreto ingiuntivo (una volta venuta meno, come detto, la pretesa di autonoma imposizione sugli assegni dedotti nel ricorso per Ingiunzione); senza disconoscerli nè rettificarli In vista di una maggiore pretesa impositiva.

4. Venendo agli altri aspetti di lite, come risultanti dai motivi di ricorso su riportati, va accolto – con affetto assorbente di ogni altra censura – il secondo motivo di ricorso incidentale proposto dallo S..

La commissione tributaria regionale ha ritenuto che l’eccezione di inammissibilità del gravame per mancato deposito, da parte dell’appellante agenzia delle entrate, dell’atto di appello presso la segreteria della commissione tributaria provinciale fosse infondata, dal momento che tale deposito era comunque avvenuto prima dell’udienza di appello; e doveva ritenersi regolare, stante la mancata fissazione – da parte del D.L. n. 203 del 2005, art. 3 bis, comma 7, conv. in L. n. 248 del 2005 – di un termine perentorio di adempimento.

Questo ragionamento non può essere condiviso.

L’appello in questione è stato proposto sotto il vigore del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, come risultante dall’introduzione (nella sua seconda parte) apportata dall’art. 3 bis cit., secondo cui: “ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l’appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell’appello presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata” (incombente poi soppresso dal D.Lgs. n. 175 del 2014, art. 36).

La ratio della disposizione in oggetto – presidiata da sanzione di inammissibilità consiste nell’impedire che l’ufficio del giudice a quo, non tempestivamente informato dell’impugnazione proposta, sia indotto a rilasciare erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado (si tratta dl rado ritenuta non irragionevole e costituzionalmente compatibile da C.Cost. nn. 141/11;

43/10 e 321/09).

Questa esigenza si pone per le notificazioni del ricorso in appello eseguite – in esito ad una scelta discrezionale della parte – a mezzo posta, e non tramite ufficiale giudiziario; dal momento che, in quest’ultima ipotesi, è lo stesso ufficiale giudiziario che deve fornire alla segreteria del primo giudice tempestiva notizia della proposizione del gravame, cosi come previsto dall’art. 123 disp. att. c.p.c., norma applicabile al processo tributario in forza del generale richiamo al codice di rito, di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2.

Va inoltre osservato come l’obiettivo pratico così perseguito non possa ritenersi surrogato dall’obbligo, posto a carico della segreteria del giudice di appello (art. 53, comma 38 cit.), di richiedere alla segreteria presso il giudice a quo, subito dopo il ricorso in appello, la trasmissione del fascicolo processuale con la copia autentica della sentenza impugnata; ciò perchè tale richiesta è avanzata soltanto dopo la costituzione in giudizio dell’appellante, sicchè non consente alla segreteria del giudice di primo grado di avere, nella valutazione del legislatore, tempestiva notizia della proposizione del gravame.

Ciò posto, appare evidente come – ancorchè non espressamente prevista dalla disposizione in esame – l’individuazione dl un termine perentorio, dalla cui inosservanza scaturisca l’inammissibilità del gravame, è imposta proprio dalle esigenze di immediatezza e tempestività sottese all’istituto.

Detto termine va individuato in quello di trenta giorni dalla proposizione dell’impugnazione; termine recepito – attraverso il richiamo dell’art. 53, comma 2, prima parte, all’art. 22, comma 1 –

relativamente al deposito del ricorso presso la segreteria del giudice ad quem.

Questa soluzione è stata individuata dal giudice delle leggi (sent.

321/09 cit.) il quale – con ciò ammettendo la legittimità dell’individuazione per via sistematica del termine perentorio di deposito presso la segreteria del giudice di primo grado – ha stabilito che quest’ultimo re sicuramente ricavabile, in via interpretativa, dal complesso delle norme in materia di impugnazione davanti alle commissioni tributarie. Tale termine (..) non può che identificarsi con quello stabilito per la costituzione in giudizio dell’appellante; costituzione che avviene mediante il deposito del ricorso in appello presso la segreteria della Commissione tributaria regionale entro trenta giorni dalla proposizione dell’appello (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2 e art. 22, commi 1 e 3).

Ora, nel caso di specie, l’agenzia delle entrate non ha contestato nè che l’appello in questione non fosse stato notificato tramite ufficiale giudiziario, nè che il deposito presso la segreteria del primo giudice non fosse stato effettuato entro tale termine perentorio, ma soltanto per l’udienza in appello (come desumibile da guanto osservato dalla CTR, con affermazione non censurata).

In applicazione del su riportati principi (Cass. 1089/13; 21047/10;

8388/10), deve dunque ritenersi erronea la statuizione con la quale quest’ultima ha respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello proposta dallo S..

Ne segue, in accoglimento di questo motivo di ricorso incidentale, la cassazione della sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, sussistono i presupposti per la decisione nel merito ex art. 384 c.p.c.; mediante dichiarazione di inammissibilità dell’appello. Le spese del giudizio, vista anche la parziale soccombenza, vengono compensate.

P.Q.M.

La Corte:

pronunciando nei ricorsi riuniti;

rigetta l’impugnativa avverso il diniego di definizione di lite pendente; accoglie, con effetto assorbente dl ogni altra censura proposta in via principale od incidentale, il secondo motivo dl ricorso incidentale;

cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile l’appello proposto dalla agenzia delle entrate;

compensa le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 19 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2016

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