Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13128 del 15/06/2011

Cassazione civile sez. II, 15/06/2011, (ud. 13/05/2011, dep. 15/06/2011), n.13128

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

D.S.G., rappresentata e difesa, per procura speciale in

calce al ricorso, dall’Avvocato FANTONI Riccardo, elettivamente

domiciliata in Roma, Via Mario Pilati n. 9, presso lo studio

dell’Avvocato Matteo Di Stefano;

– ricorrente –

e

B.E., rappresentata e difesa, per procura speciale a

margine del controricorso, dagli Avvocati ANDREINI Gino e Daniele

Andreini, domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria

civile della Corte suprema di cassazione;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Firenze n.

553 del 2008, depositata in data 4 aprile 2008;

Udita, la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13 maggio 2011 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per la resistente, l’Avvocato Daniele Andreini;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

VELARDI Maurizio, il quale nulla ha osservato rispetto alla

relazione.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che D.S.G. ha chiesto al Tribunale di Livorno di ordinare a B.E. di permetterle l’accesso nel fondo di sua proprietà per riposizionare le staffe e i fili da lei utilizzati per stendere i panni, che da ignoti erano stati divelti;

che il Tribunale di Livorno ha accolto la domanda ritenendo che l’attrice avesse fornito la prova che le staffe e i fili erano stati da lei utilizzati per stendere i panni da almeno tre anni e che non era stata contestata la necessità di accedere al fondo di proprietà della vicina per ripristinarli;

che la Corte d’appello di Firenze, con sentenza depositata il 3 aprile 2008, ha accolto il gravame della B. e ha rigettato la domanda della D.S., che ha anche condannato alle spese del doppio grado;

che la Corte d’appello ha rilevato che la B. aveva sempre contestato la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 843 cod. civ. e, tra questi, dell’esigenza propria o del vicino, oppure comune, di effettuare riparazioni, e quindi della necessità di entrare nell’altrui fondo;

che, inoltre, la disposizione invocata non poteva ritenersi applicabile al caso dell’accesso finalizzato all’esercizio di una servitù;

che per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso la De Stefano sulla base di tre motivi, cui ha resistito, con controricorso, la B.;

che, con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5, rilevando che la convenuta in primo grado non aveva contestato la necessità così come richiesta e intesa dall’art. 843 cod. civ., e formulando il seguente quesito di diritto: “la necessità del passaggio può essere equiparata alla necessità di utilizzo della cosa che si intende riparare?”;

che, osserva ancora la ricorrente, la Corte d’appello avrebbe confuso il diniego di operare per riparare le opere che consentono l’esercizio di un diritto di servitù con la servitù medesima, confondendo la funzione con lo scopo; il passaggio è funzionale e in quanto tale trattasi di obbligazione propter rem allo scopo di ripristinare una struttura che serve all’esercizio della servitù di stesa che non si esercita con il passaggio;

che, con il secondo motivo, la ricorrente denuncia violazione di legge e formula il seguente quesito di diritto: “Si può accedere al fondo del vicino ex art. 843 cod. civ. per riparare le opere funzionali all’esercizio di un diritto di servitù?”;

che, con il terzo motivo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5, e formula i seguenti quesiti di diritto: “1. Deve il soggetto che agisce ex art. 843, per procedere alle riparazioni, provare la natura giuridica del bene che intende riparare? 2. Se il vicino volesse riparare il muro della casa da lui costruita abusivamente, onde evitarne la rovina, non potrebbe agire ex art. 843 perchè la casa è stata costruita senza le necessarie autorizzazioni? 3. Non è forse il requisito della necessità l’unico indicato dalla norma e richiesto?”;

che, a sostegno della censura, la ricorrente deduce il travisamento della prova testimoniale inerente alla presenza delle staffe e dei fili nel cortile della B.; il travisamento dei fatti sull’esistenza di un cortile della D.S.; un’interpretazione dei requisiti richiesti dall’art. 843 non condivisibile, anche alla luce della giurisprudenza di legittimità;

che, essendosi ravvisate le condizioni per la trattazione del ricorso con il rito camerale, è stata redatta relazione ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., che è stata comunicata alle parti e al pubblico ministero.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il relatore designato ha formulato la seguente proposta di decisione:

“(…) Il ricorso è inammissibile per inidoneità dei quesiti di diritto formulati dalla ricorrente.

Nella giurisprudenza di legittimità si è infatti chiarito che “il quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C. di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regola juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata” (Cass., n. 11535 del 2008).

In particolare, “il quesito di diritto non può essere desunto dal contenuto del motivo, poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, consiste proprio nell’imposizione, al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (Cass., ord. n. 20409 del 2008).

Il quesito di diritto, quindi, deve compendiare: “a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; e) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. E’, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge” (Cass., ord. n. 19769 del 2008; Cass., S.U., n. 6530 del 2008; v. anche Cass., n. 28280 del 2008).

Ed ancora, il ricorso per cassazione nel quale si denunzino con un unico articolato motivo d’impugnazione vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto, è bensì ammissibile, ma esso deve concludersi con una pluralità di quesiti, ciascuno dei quali contenga un rinvio all’altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto. (Cass., S.U., n. 7770 del 2009). Nella norma dell’art. 366 bis cod. proc. civ., infatti, nonostante la mancanza di riferimento alla conclusività (presente, invece, per il quesito di diritto), il requisito concernente il motivo di cui al n. 5 del precedente art. 360 – cioè la “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione della sentenza impugnata la rende inidonea a giustificare la decisione” – deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, di modo che non è possibile ritenerlo rispettato allorquando solo la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo riveli, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366 bis, che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la motivazione è conseguentemente inidonea sorreggere la decisione. (Cass., n. 16002 del 2007; Cass., S.U., n. 20603 del 2007; Cass., n. 8897 del 2008).

Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366 bis, si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie (Cass., n. 26020 del 2008).

Così come sono inammissibili i motivi di ricorso fondati sulla violazione di leggi e quelli fondati su vizi di motivazione, ove non sorretti da quesiti separati, con la precisazione che non è consentito al ricorrente censurare con un unico motivo (e quindi con un unico quesito) sia la mancanza, sia l’insufficienza, sia la contraddittorietà della motivazione (Cass., n. 5471 del 2008).

Deve poi escludersi che la formulazione dei quesiti di diritto e la chiara indicazione del fatto controverso con le caratteristiche indicate dall’art. 366 bis cod. proc. civ., possano reputarsi sussistenti per il fatto che la parte resistente abbia controdedotto, giacchè l’espressa previsione del requisito a pena di inammissibilità palesa non solo che l’interesse tutelato dalla norma (o meglio dalle norme, posto che l’indicazione di tale sanzione è prima contenuta nell’art. 366 n. 4 e poi ripetuta nell’art. 366 bis) non è disponibile ed è tutelato dalla rilevabilità d’ufficio (come sempre accade quando il legislatore ricorre alla categoria della inammissibilità, che non a caso è accompagnata dall’espressione preliminare evocativa della sanzione “a pena di”), ma esclude anche che possa assumere alcun rilievo in funzione di superamento del vizio l’atteggiamento della controparte, poichè, allorquando il legislatore ricorre alla categoria della inammissibilità, è escluso che l’atteggiamento della controparte possa assumere rilievo sotto il profilo del raggiungimento dello scopo, come invece è previsto per la nullità (art. 156 cod. proc. civ.): infatti, l’espresso ricorso da parte del legislatore alla sanzione della inammissibilità impedisce che il giudice possa ritenere soddisfatta l’esigenza a presidio della quale il legislatore ha previsto una certa forma a pena di inammissibilità in modo diverso che attraverso la forma indicata dal legislatore (Cass., ord. n. 16002 del 2007).

Sussistono, pertanto, le condizioni per la trattazione del ricorso in Camera di consiglio”;

che il Collegio condivide tale proposta di decisione, non apparendo le critiche svolte dalla ricorrente nella memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ., comma 3, idonee ad indurre a differenti conclusioni;

che, in particolare, la ricorrente si limita a ribadire la idoneità, a suo giudizio, dei quesiti di diritto come formulati in ricorso, ma non svolge puntuali critiche alle ragioni sviluppate nella relazione alla stregua della richiamata giurisprudenza di legittimità in tema di formulazione dei quesiti di diritto e di modalità di deduzione del vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5;

che, quindi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 1.700,00, di cui Euro 1.500,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2011

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