Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13123 del 14/05/2021

Cassazione civile sez. I, 14/05/2021, (ud. 18/02/2021, dep. 14/05/2021), n.13123

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. CATALOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15682/2019 proposto da:

K.R., rappresentato e difeso dall’Avvocato Antonino Ficarra,

presso il cui studio a Mazzarino, via Bivona 37, elettivamente

domicilia per procura speciale rilasciata in foglio separato e unito

al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (cf (OMISSIS)), in persona del Ministro p.t,

elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope

legis;

– intimato –

Avverso il decreto n. 610/2019 del Tribunale di Caltanissetta,

depositato il 27.03.2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 18 febbraio 2021 dal Consigliere Dott. Francesco

FEDERICI.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

Il Tribunale di Caltanissetta, con il decreto in epigrafe, ha rigettato il ricorso proposto da K.R., nato in India, avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di asilo rivolta alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Catania – sez. di Enna. Il giudice ha rigettato il ricorso, reputando insussistenti i presupposti per ottenere il riconoscimento della protezione umanitaria. Il ricorrente ha censurato il decreto, chiedendone la cassazione, affidandosi a tre motivi.

Il Ministero dell’interno ha depositato una “comparsa di costituzione” al solo fine della eventuale partecipazione alla pubblica udienza.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

Preliminarmente deve rilevarsi che il Ministero ha resistito con una “atto di costituzione”, non notificato, per l’eventuale partecipazione alla discussione nella pubblica udienza. Va affermato che, in mancanza di notificazione, l’atto depositato non é qualificabile come controricorso e l’intimato, pur in presenza di regolare procura speciale ad litem, non é legittimato neppure a depositare memorie illustrative (Cass., 5/12/2014, n. 25735). Trattasi di un principio che, affermato con riferimento alla trattazione della causa in pubblica udienza, deve essere esteso anche al procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 380 bis.1 c.p.c. (cfr. Cass. n. 26974 del 2017).

Con il primo e secondo motivo il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 24 Cost., del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 13, comma 7, dell’art. 6, comma 3, lett. A) della Convenzione dei diritti dell’uomo, recepita con la L. n. 848 del 1955, dell’art. 14, comma 3, lett. A) del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, recepito con la L. n. 881 del 1977, e dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ha denunciato la mancata traduzione, nella lingua conosciuta dal ricorrente, sia della decisione della commissione territoriale, sia dell’impugnato decreto, con loro conseguente nullità. Ha sostenuto la necessità che l’atto destinato al cittadino straniero sia preventivamente tradotto in una lingua da lui comprensibile, invocando la illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.c., per contrasto con gli artt. 6 e 10 Cost., nella parte in cui non prevede l’obbligo della traduzione degli atti per lo straniero in relazione quanto meno ai procedimenti aventi ad oggetto il riconoscimento de diritto di asilo o dello status di rifugiato.

A parte l’incomprensibilità della doglianza, atteso che nel medesimo ricorso si afferma che il richiedente “parla l’italiano” (pag. 8 dell’atto difensivo), in ogni caso i motivi sono inammissibili. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione internazionale, l’obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale, nonché quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, é previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5, al fine di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione. Ne consegue che la parte, ove censuri la decisione per l’omessa traduzione, non può genericamente lamentare la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un vulnus all’esercizio del diritto di difesa (Cass., n. 18723/19; n. 16470/19; n. 7385/17). Nel caso concreto, il ricorrente ha lamentato genericamente la mancata traduzione nella propria lingua del provvedimento della. Commissione territoriale e del decreto impugnato, ma senza allegare una specifica lesione del diritto di difesa che fosse conseguenza diretta dell’omessa traduzione. Mancano pertanto anche i presupposti per invocare l’illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.c..

Con il terzo motivo il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369 e 2697 c.c., degli artt. 115 e 116c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 156 c.p.c., comma 2, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1, art. 3 della Convenzione Europea della salvaguardia dei diritti dell’uomo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ha censurato il decreto per aver escluso il tribunale i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

Anche questo motivo é inammissibile. Va premesso che il ricorrente, a sostegno della domanda, diretta alla Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato, o, in subordine, il riconoscimento della protezione sussidiaria o di quella umanitaria, aveva affermato di aver lasciato il proprio paese d’origine nel 2012 (India), giungendo nel 2013 in Italia, per ragioni economiche e per l’impossibilità di onorare il debito contratto con alcuni parenti per far fronte alle cure mediche necessarie al padre. Insistendo i parenti per la restituzione del prestito, si era allontanato dall’India alla ricerca di un futuro migliore e per aiutare la propria famiglia.

La Commissione territoriale prima, e il Tribunale di Caltanissetta poi, con il decreto ora al vaglio della Corte, hanno rigettato la sua richiesta di protezione, per l’insussistenza dei presupposti idonei alla concessione della protezione richiesta.

Il ricorrente sostiene che il giudice non abbia tenuto conto della cultura, della religione e della situazione sociale del paese di provenienza del ricorrente. Prospetta la situazione di pericolo cui egli andrebbe incontro al suo rientro in India, soprattutto con riferimento al fenomeno della schiavitù lavorativa per la mancata restituzione del prestito. Prospetta, sebbene non perspicuamente, la mancata comparazione dovuta tra condizione dello straniero in Italia e situazione relativa all’ipotesi di rientro in India, ai fini del corretto esame della richiesta di protezione umanitaria.

Nel decreto impugnato il Tribunale ha riferito che il richiedente aveva raccontato delle vicende economiche che lo avevano afflitto in India, inducendolo a lasciare il suo paese. Ha evidenziato che tuttavia nei fatti narrati non vi erano circostanze idonee a configurare situazioni di pericolo, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, bensì l’intento della “ricerca di un futuro migliore e per poter aiutare la sua famiglia”. Ha giudicato che dal racconto del richiedente non erano emerse minacce o violenze indirizzate alla sua persona dai parenti” per la restituzione delle somme ricevute. Mancavano dunque elementi da cui desumere una possibile vulnerabilità dello straniero richiedente per l’ipotesi di rientro in India, non essendo peraltro sufficiente, ai fini di una prognosi positiva per la concessione della protezione umanitaria, “il buon livello di integrazione sociale raggiunto dal ricorrente”.

Ciò chiarito, con il motivo in concreto si pretende una rilettura dei dati fattuali e dunque una rivalutazione nel merito del giudizio, inibita in sede di legittimità, ed esula comunque del tutto dal profilo dell’errore di interpretazione delle norme, che, al contrario di quanto sostenuto, risultano ben governate dal Tribunale.

Va rammentato che, in materia di protezione internazionale, il richiedente é tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alia protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non é in. grado di provare soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (Cass., 12/06/2019, n. 15794). Pertanto, qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento I’struttorio officioso circa la prospettata situazione, anche persecutoria, nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass., 27/06/2018, n. 16925/18; 11/08/2020, n. 16925; cfr. anche 19/12/2019, n. 33858).

Il tribunale invero ha evidenziato che al fine della concessione della protezione umanitaria occorre procedere ad una valutazione effettiva tra lo stato di integrazione sociale dello straniero in Italia alla luce della situazione attuale del richiedente con riferimento al paese d’origine, allo scopo di verificare concretamente se il rientro possa compromettere la titolarità e l’effettivo esercizio dei suoi diritti umani. Ha concluso in senso negativo, mancando i riscontri sufficienti, con riguardo alle conseguenze del rientro in India, quale fonte di grave e specifica vulnerabilità per il ricorrente. La motivazione tiene conto dei principi di diritto enucleati da questa Corte in materia di protezione umanitaria.

La protezione umanitaria é una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 9/10/2017, n. 23604; 15/05/2019, n. 13096).

I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento alio straniero dei diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore prima dell’intervento attuato con il D.L. n. 113 del 2018 (trovando applicazione ai caso di specie la disciplina anteriore), erano accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. 23/02/2018, n. 4455). La sentenza impugnata ha rigettato la domanda di protezione umanitaria rilevando in sostanza la mancanza, nella storia personale del ricorrente, di alcuna specifica situazione che possa giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Come affermato da questa Corte (ai cui principi si riporta il decreto ora impugnato), il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (applicabile ratione temporis: cfr. Cass. SU n. 29459 del 2019), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva vantazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nei Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018 cit). E tale comparazione presuppone la emersione di situazioni critiche per lo straniero nel suo paese d’origine, che nel caso specifico non solo non sono state in alcun modo adeguatamente allegate, ma che dalla narrazione appaiono prima facie insussistenti e del tutto generiche.

Il ricorso dunque si rivela inammissibile.

Nulla va disposto in ordine alle spese non essendosi ritualmente costituito il Ministero resistente.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2021

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