Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13112 del 14/05/2021

Cassazione civile sez. I, 14/05/2021, (ud. 18/02/2021, dep. 14/05/2021), n.13112

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5299/2019 proposto da:

S.M., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Ficarra Antonino, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CALTANISSETTA, del 24/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/02/2021 dal Cons. Dott. FEDERICI FRANCESCO.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

Il Tribunale di Caltanissetta, con il decreto in epigrafe, ha rigettato il ricorso proposto da S.M., nato in (OMISSIS), avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di asilo rivolta alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Siracusa. Il giudice ha rigettato il ricorso reputando non credibili i fatti e le affermazioni rese dal richiedente. Il ricorrente ha censurato il decreto, chiedendone la cassazione, affidandosi a tre motivi.

Il Ministero dell’interno ha depositato controricorso, contestando le avverse ragioni e chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con i primi due motivi il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 24 Cost, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 13, comma 7, dell’art. 6, comma 3, lett. A) della Convenzione dei diritti dell’uomo, recepita con la L. n. 848 del 1955, dell’art. 14, comma 3, lett. A) del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, recepito con L. n. 881 del 1977 e dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ha denunciato la mancata traduzione, nella lingua conosciuta dal ricorrente, sia della decisione della commissione territoriale, sia dell’impugnato decreto, con loro conseguente nullità. Ha sostenuto la necessità che. l’atto destinato al cittadino straniero sia preventivamente tradotto in una lingua da lui comprensibile, invocando la illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.c., per contrasto con gli artt. 6 e 10 Cost., nella parte in cui non prevede l’obbligo della traduzione degli atti per lo straniero in relazione quanto meno ai procedimenti aventi ad oggetto il riconoscimento del diritto di asilo o dello status di rifugiato.

A parte l’incomprensibilità dei motivi, considerando che nel medesimo ricorso la difesa riporta, quale elemento a supporto delle ragioni di integrazione del richiedente, il suo “attestato di conoscenza della lingua italiana”, essi sono inammissibili. Secondo a la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione Internazionale, l’obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale, nonché quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, é previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5, al fine di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione. Ne consegue che la parte, ove censuri la decisione per l’omessa traduzione, non può genericamente lamentare la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un vulnus all’esercizio del diritto di difesa (Cass., n. 18723/19; n. 16470/19; n. 7385/17). Nel caso concreto, il ricorrente ha lamentato genericamente la mancata traduzione nella propria lingua del provvedimento della Commissione territoriale e del decreto impugnato, ma senza allegare una specifica lesione del diritto di difesa che fosse conseguenza diretta dell’omessa traduzione. Mancano pertanto anche i presupposti per invocare l’illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.c..

Con il terzo motivo il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369 e 2697 c.c., artt. 115,116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 156 c.p.c., comma 2, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, artt. 6 e 13 della CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 46 della direttiva CE 2013/32, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ha censurato il decreto nella parte in cui il tribunale ha escluso i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

Va premesso che il ricorrente, a sostegno della domanda, diretta alla Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato, o, in subordine, il riconoscimento della protezione sussidiaria o di quella umanitaria, aveva affermato di aver lasciato il proprio paese d’origine (Pakistan, Regione del Punjab), per ragioni economiche, dopo aver ceduto la propria attività commerciale e venduto beni e gioielli della moglie per pagare le costose cure.del padre, affetto da gravi problemi cardiologici. Rimasto senza lavoro e senza altro sostegno, aveva raggiunto l’Italia per poter trovare un nuovo lavoro e spedire ai suoi famigliari denaro per sostenersi.

La Commissione territoriale prima, e il Tribunale di Caltanissetta poi, con il decreto ora al vaglio della Corte, hanno rigettato la sua richiesta di protezione, ritenendo non credibile la ricostruzione.

Il ricorrente sostiene che il giudice non abbia compiuto quella comparazione dovuta ai fini del corretto esame della richiesta di protezione umanitaria.

Nel decreto impugnato il Tribunale ha riferito che il richiedente aveva raccontato di essere persona poverissima, e di essersi allontanato dal paese d’origine per le vicende economiche da cui era stato afflitto, per via della grave malattia paterna. Tuttavia, ai fini della emersione della vulnerabilità della posizione del ricorrente “alla luce degli obblighi costituzionali e internazionali gravanti sullo Stato italiano e riferita ad elementi strettamente personali e connessa alla grave violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza dello straniero”, ha per un verso rilevato che non sono sufficienti ragioni di carattere economico “o di ripartizione della ricchezza tra la popolazione”, per altro verso ha evidenziato che il richiedente non é neppure comparso in udienza per meglio circostanziare i fatti narrati, né ha allegato alcunché di pertinente a dimostrare l’avvenuta integrazione in Italia.

Ciò chiarito, il motivo é inammissibile innanzitutto perché in concreto pretende una rilettura dei dati fattuali e dunque una rivalutazione nel merito del giudizio, inibita In sede di legittimità. Peraltro, anche sotto il profilo dell’errore di interpretazione delle norme, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente, esse risultano ben governate dal Tribunale.

Il tribunale invero ha evidenziato che al fine della concessione della protezione umanitaria occorre procedere ad una valutazione effettiva tra lo stato di integrazione sociale dello straniero in Italia alla luce della situazione attuale del richiedente con riferimento al paese d’origine, allo scopo di verificare concretamente se il rientro possa compromettere la titolarità e l’effettivo esercizio dei suoi diritti umani. Ha concluso in senso negativo, mancando i riscontri sufficienti, con riguardo alle conseguenze del rientro in Pakistan, quale fonte di grave e specifica vulnerabilità per il ricorrente, così come con riferimento allo stato d’integrazione in Italia. La motivazione tiene conto dei principi di diritto enucleati da questa Corte in materia di protezione umanitaria.

La protezione umanitaria é una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 9/10/2017, n. 23604; 15/05/2019, n. 13096).

I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore prima dell’intervento attuato con il D.L. n. 113 del 2018, erano accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. 23/02/2018, n. 4455). Nel caso di specie, la sentenza, impugnata ha rigettato la domanda di protezione umanitaria rilevando in sostanza la mancanza, nella storia personale del ricorrente, di alcuna specifica situazione che possa giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Come affermato da questa Corte (ai cui principi si riporta il decreto ora impugnato), il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (applicabile ratione temporis: cfr. Cass. SU n. 29459 del 2019), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva vantazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018 cit.). E tale comparazione presuppone un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza, che nel caso di specie non ci si é neppure peritati di prospettare.

I motivi in conclusione si rivelano infondati.

Le spese seguono la soccombenza e varino liquidate nella misura specificata in dispositivo in favore del ministero resistente.

PQM

Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore del Ministero, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2021

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