Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13110 del 14/05/2021

Cassazione civile sez. I, 14/05/2021, (ud. 18/02/2021, dep. 14/05/2021), n.13110

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3646/2019 proposto da:

H.S., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Ficarra Antonino, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CALTANISSETTA, del 06/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/02/2021 dal Cons. Dott. FEDERICI FRANCESCO.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

Il Tribunale di Caltanisetta, con il decreto in epigrafe, ha rigettato il ricorso proposto da H.S., nato in (OMISSIS), avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di asilo rivolta alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Siracusa. Il giudice ha rigettato il ricorso reputando non credibili i fatti e le affermazioni rese dal richiedente. Il ricorrente ha censurato il decreto, di cui ha chiesto la cassazione, affidandosi a quattro motivi.

Il Ministero dell’interno si é costituito, contestando le ragioni avverse, ed ha chiesto il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con i primi due motivi il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 24 Cost., D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 13, comma 7, dell’art. 6, comma 3, lett. A) della Convenzione dei diritti dell’uomo, recepita con la L. n. 848 del 1955, dell’art. 14, comma 3, lett. A) del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, recepito con la L. n. 881 del 1977 e dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ha denunciato la mancata traduzione, nella lingua conosciuta dal ricorrente, sia della decisione della commissione territoriale, sia dell’impugnato decreto, con sua conseguente nullità. Ha sostenuto la necessità che l’atto destinato al cittadino straniero sia preventivamente tradotto in una lingua da lui comprensibile, invocando la illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.c., per contrasto con gli artt. 6 e 10 Cost., nella parte in cui non prevede l’obbligo della traduzione degli atti per lo straniero in relazione quanto meno ai procedimenti aventi ad oggetto il riconoscimento del diritto di asilo o dello status di rifugiato.

li motivo é inammissibile. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione internazionale, l’obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale, nonché quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, é previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5, al fine di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione. Ne consegue che la parte, ove censuri la decisione per l’omessa traduzione, non può genericamente lamentare la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un vulnus all’esercizio del diritto di difesa (Cass., n. 18723/19; n. 16470/19; n. n, 7385/17). Nel caso concreto, il ricorrente ha lamentato genericamente la mancata traduzione nella propria lingua del provvedimento della Commissione territoriale e del decreto impugnato, ma senza allegare una specifica lesione del diritto di difesa che fosse conseguenza diretta dell’omessa traduzione. Mancano pertanto anche i presupposti per invocare l’illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.c..

Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369 e 2697 c.c., artt. 115,116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 156 c.p.c., comma 2, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3,D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, artt. 6 e 13 della CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 46 della direttiva CE 2013/32, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ha censurato il decreto nella parte in cui il tribunale ritenuto che la vicenda narrata dal richiedente esulasse dal rischio di persecuzione, rilevante ai fini della protezione internazionale. Al contrario, secondo la prospettazione difensiva del ricorrente, la fattispecie doveva collocarsi in uno dei casi tassativamente indicato nell’art. 1, lett. A, n. 2 della Convenzione di Ginevra del 1951, il cui contenuto é meglio definito dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 1, al fine del riconoscimento dello status di rifugiato.

A sostegno della domanda aveva affermato di essere fuggito dal proprio paese d’origine (Pakistan, Regione del Punjab), temendo di essere ucciso a causa della relazione sentimentale intrapresa con una ragazza di religione sciita, avversata dalle altre famiglie del suo villaggio, di fede sunnita, che avevano minacciato lui e il padre, il quale invece aveva accolto in casa quella ragazza ormai già incinta, minacce culminate in una spedizione di uomini del gruppo terroristico (OMISSIS) e (OMISSIS), che in sua assenza avevano ucciso suo padre e la ragazza. Avvisato dalla madre si era determinato alla fuga, giungendo in Italia dopo varie peripezie, compresa una seconda fuga, questa volta dalla Grecia, dove aveva risieduto per quattro anni, per sfuggire a gruppi di soggetti che picchiavano e maltrattavano gli stranieri. Il richiedente insiste sulla natura precisa e circostanziata delle dichiarazioni rese, contestualizzando le vicende nel più ampio contesto pakistano, attraversato da un violento conflitto sociale, che costituisce il presupposto per il riconoscimento della protezione internazionale. Il giudice, secondo la prospettazione difensiva, avrebbe dovuto correttamente valutare il materiale probatorio offerto dal ricorrente, attivando inoltre d’ufficio gli opportuni mezzi di cooperazione istruttoria. Infine, ha concluso il ricorrente, il giudice non ha correttamente applicato del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, lì dove prevede che, pur in mancanza di prove, le dichiarazioni dell’istante devono essere considerate veritiere se coerenti e non contraddittorio rispetto alle informazioni generali e alle condizioni del paese d’origine.

Il motivo é inammissibile.

Esso infatti si infrange sulle chiare ed inequivocabili argomentazioni del decreto impugnato, dalla cui motivazione é dato evincere che quel giudice aveva riscontrato la genericità delle vicende narrate, l’assenza di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, l’assenza di ogni ulteriore integrazione dei fatti narrati dinanzi alla Commissione, che già aveva rigettato la richiesta, e soprattutto la contraddittorietà della narrazione con la dichiarazione “di non essersi reso conto dei rischi della relazione con una ragazza appartenente ad un diverso gruppo religioso, dal momento che aveva assistito addirittura ad un matrimonio tra due soggetti appartenenti alle diverse comunità”. Il giudice ha dunque ritenuto poco credibile la violenza abbattutasi sui componenti della famiglia del ricorrente (ma non sullo stesso), sull’intervento di un gruppo terroristico, per una vicenda circoscritta a contesti di rapporti di intolleranza religiosa tra famiglie del villaggio, platealmente contraddetti però dall’aver assistito ad un matrimonio tra giovani di fede diversa e dalla “inconsapevolezza” dei rischi della relazione sentimentale intrapresa. Ha evidenziato la scarsa credibilità del racconto, laddove non é stato spiegato perché il ricorrente abbia preferito lasciare il Paese e non si sia invece limitato a trasferirsi in un’altra zona del Pakistan, non afflitta da tensioni religiose, tanto più che la madre era rimasta a vivere proprio in quel villaggio così critico. Ha ritenuto poco credibile anche le circostanze di fuga dalla Grecia. Nel complesso ha dunque evidenziato le numerose incongruenze della narrazione non supportata da alcun elemento in grado di fugare l’inverosimilità del racconto, reputando che la fattispecie esulava dal rischio di persecuzione che, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e), rileva ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato. E ciò é tanto può incisivo quando si consideri il lasso di tempo trascorso dai fatti narrati, anteriori al 2011.

Ebbene, a fronte di tali rilievi, le censure sollevate dal ricorrente al decreto del Tribunale di Caltanisetta configgono con le emergenze processuali. Intanto, al contrario di quanto sostenuto, il giudice ha ben governato la disciplina normativa invocata dal ricorrente. Se poi la critica condotta alla motivazione del provvedimento fosse stata indirizzata alla vantazione della vicenda, non ci si troverebbe dinanzi alla denuncia di un errore di diritto, cui in ricorso si fa espresso e pur esclusivo riferimento, ma ad una denuncia di vizio motivazionale. Sennonché il vaglio di credibilità del giudice, costituendo un apprezzamento di merito, si sottrae al controllo del giudice di legittimità, perché non più consentito dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni in L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., 7/04/2014, n. 8053)”.

Peraltro va rammentato che, in materia di protezione internazionale, il richiedente é tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non é in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass., 12/06/2019, n. 15794). Pertanto, qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass., 27/06/2018, n. 16925/18; 11/08/2020, n. 16925; cfr. anche 19/12/2019, n. 33858).

Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369,2697 c.c. e segg., degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, artt. 6 e 13 della CEDU, art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 46 della direttiva CE n. 2013/32, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di protezione sussidiaria ritenendo l’insussistenza, nel luogo d’origine del richiedente, di una situazione di violenza e minaccia all’incolumità del richiedente, non riconoscendo pertanto la sussistenza del danno grave previsto dal cit. D.Lgs. n. 251, art. 14. A tali conclusioni, secondo la prospettazione difensiva del ricorrente, il giudice sarebbe pervenuto senza avere riguardo al contesto socio-politico che caratterizza il Paese e, segnatamente, la zona del Punjab, caratterizzato la livelli di violenza tale da concretare un elevato rischio di incolumità personale.

Anche questo motivo é inammissibile. Il tribunale ha infatti escluso che, alla luce del report EASO del 2017, nelle province del Punjab si siano verificati episodi di conflitto armato interno. Ha riportato anche gli esiti del rapporto con riguardo al primo trimestre 2017, nonché del 2016, in cui si evidenzia la sensibile riduzione degli attentati di matrice terroristica “anche a seguito dell’incremento delle operazioni di sicurezza”. Ha escluso in ogni caso la persistenza di una situazione di violenza indiscriminata. Si tratta di un apprezzamento fattuale, a fronte di una censura ricondotta dal ricorrente nell’errore di diritto e non nell’alveo del vizio motivazionale, a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa uno o più fatti decisivi specificamente indicati. La decisione assunta dal giudice di merito, certamente non illogica né contraddittoria rispetto ai dati accertati, si sarebbe comunque sottratta anche a questa critica.

D’altronde, anche sotto il profilo dell’error iuris in iudicando, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) ed h) e, in termini identici, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g), definiscono come “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno e non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Il cit. D.Lgs. n. 251, art. 14, comma 1, a sua volta, dispone che il “danno grave” sussiste, tra l’altro, nell’ipotesi di “e)… minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Nel caso di specie non risulta accertato, in punto di fatto, che il ricorrente, per l’ipotesi di rientro in patria, possa ricevere una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona in ragione della violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Ed é noto come, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. n. 251 cit., art. 14, lett. e), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata -in conformità con la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12)- nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, per cui il grado di violenza, indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019; Cass. n. 9090 del 2019; Cass. n. 14006 del 2018). Né rileva la invocata violazione del dovere di cooperazione istruttoria – da parte del tribunale. Come questa Corte ha più volte affermato (Cass., 17/05/2019, nn. 13449; 13450, 13451, 13452), il giudice di merito, nel fare riferimento alle cd. fonti privilegiate, di cui del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve indicare la fonte in concreto utilizzata, nonché il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione. La decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, avendo indicato la fonte in concreto utilizzata (rapporto EASO aggiornato all’agosto 2017) ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da detta fonte. E’ altrettanto noto che, in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, il ricorrente ha il dovere di indicare in modo specifico gli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, con il preciso richiamo, anche testuale, alle fonti di prova proposte, alternative o successive rispetto a quelle utilizzate dal giudice di merito, in modo da consentire alla Suprema Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (cfr. Cass. 21/10/2019, n. 26728). Si tratta di un onere non adempiuto nel caso di specie, perché il ricorrente non ha indicato fonti più recenti e di segno opposto per inficiare le informazioni cui ha fatto riferimento la cotte distrettuale. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate nella misura specificata in dispositivo in favore del ministero resistente.

PQM

Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore del Ministero, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2021

 

 

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