Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13108 del 28/05/2010

Cassazione civile sez. I, 28/05/2010, (ud. 11/05/2010, dep. 28/05/2010), n.13108

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

L.A. ved. S., elettivamente domiciliata in ROMA,

via della Balduina 187, presso l’avvocato Agamennone Stefano che la

rappresenta e difende, unitamente all’avvocato Clodomiro Tavani di

Messina giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

N.S., elettivamente domiciliata in ROMA, via Taranto 142 C

presso l’avvocato Prudente Simona con l’avv. Sorbello Gaetano di

Messina che la rappresenta e difende giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente

avverso la sentenza n. 1 della Corte d’Appello di Messina del

12.1.2006.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza

dell’11.5.2010 dal Consigliere Dott. Luigi MACIOCE;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato Sorbello che ha chiesto il

rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

N.S., coniuge divorziato da S.R., deceduto il 23.12.2002, convenne innanzi al Tribunale di Messina il coniuge superstite L.A. chiedendo di determinare le quote di riparto L. n. 898 del 1970, ex art. 9, comma 3, della pensione spettante al defunto. Il Tribunale, con decisione del 12.5.2004, assegnò alla N. quota pari al 90% della pensione di reversibilità erogata dalla Cassa di Previdenza Forense, sul rilievo per il quale la divorziata aveva contratto matrimonio il 20.9.1977 nel mentre la superstite si era coniugata solo il 4.7.2002. La Corte di Appello di Messina con sentenza 12.1.2006 rigettò il reclamo della L. affermando, per quel che ancora rileva: che la N. era titolata al concorso nella pensione di reversibilità posto che, non rimaritatasi, al tempo del decesso era titolare di assegno; che infatti dopo la sentenza non definitiva di divorzio del 1996 ella aveva stipulato accordo con il S. che prevedeva l’attribuzione di un usufrutto e la erogazione alla N. di assegno mensile di L. 1.500.000 dal 1.7-1998 e per 12 anni; che su tale base ella aveva diritto alla quota di pensione che era stata rettamente determinata nel quantum. Per la cassazione di tale sentenza L.A. ha proposto ricorso il 20.4.2006 al quale ha opposto difese la N. con controricorso del 23.5.2006, illustrato in memoria finale.

Nell’unico motivo del ricorso L.A. ha denunziato violazione di legge per avere la Corte di merito obliterato il contenuto e la portata dell’accordo 22.10.1998 a tenore del quale nessun diritto ad assegno riveniva in capo alla N., ella avendo accettato satisfattivamente una quota dell’usufrutto dell’immobile (che non fondava il diritto in questione) ed essendo creditrice di ratei di un credito anteriore e rimasto insoddisfatto.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Ritiene il Collegio che la decisione della Corte territoriale – all’esito di una necessaria correzione del suo percorso motivazionale – resista alle censure che la L. muove nell’unico motivo del ricorso.

La censura di cui al motivo addebita alla sentenza l’avere falsamente applicato la norma sulla titolarità dell’assegno divorzile – presupposto ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 3 e sempre che il richiedente non sia passato a nuove nozze, per il diritto a quota della pensione di reversibilità – ad una ipotesi nella quale l’accordo di erogazione periodica che venne pattuito inter partes dopo la sentenza non definitiva di divorzio non poteva ritenersi fonte del suddetto assegno: da un canto esso era soltanto la regolamentazione diretta ad estinguere ratealmente il saldo di un debito pregresso del S. (per un consistente ammontare di assegni di mantenimento mai erogati); dall’altro canto con la donazione della quota di usufrutto sull’appartamento già casa coniugale la N. aveva “perduto la titolarità dell’assegno”.

Orbene la censura stessa non manca (pag. 4) di riportare fedelmente – esattamente come fatto nell’impugnata sentenza a pag. 5 e come riferito dalla controricorrente alla pag. 3 del proprio atto – il testo dell’accordo del 22.10.1998 nel quale era bensì regolata la erogazione del ripianamento del consistente debito dell’avv. S.R. (con l’intervento a garanzia del di lui genitore avv. S.A.), ma nel quale era anche previsto che il predetto S. cedeva alla N. la metà dell’usufrutto della casa coniugale (la cui proprietà era contestualmente intestata alla prole), a titolo di corresponsione, in unica soluzione, dell’assegno di divorzio a norma della L. 1 dicembre 1979, n. 898, art. 5, comma 8.

Su tali premesse appare evidente che la Corte di merito ha attinto esatte conclusioni in diritto all’esito di un percorso motivazionale frutto di un evidente quanto banale travisamento delle stesse proprie basi di partenza fattuali e che, riportato tal percorso nell’alveo della corretta correlazione giuridica tra premessa in fatto e conseguenza in diritto, la censura in disamina si rivela nè pertinente nè fondata.

L’assegno divorzile venne invero convenuto nell’accordo del 22.10.1998, poi recepito nella decisione definitiva del Tribunale, nella forma della costituzione di usufrutto sul residuo 1/2 dell’immobile intestato ai due figli dei coniugi divorziati, e cioè attraverso la costituzione di un diritto reale avente durata potenzialmente superiore a quella della vita del costituente (che ebbe ad alienare nuda proprietà ed usufrutto, in favore degli uni e dell’altra).

L’accordo era dunque idoneo a creare la titolarità dell’assegno ai fini e per gli effetti di cui alla richiamata L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 2, ed era incontestabilmente valido, alla stregua del principio della riconduzione ad assegno divorzile di tutte le attribuzioni operate in sede od a seguito di scioglimento del vincolo coniugale, e sottoposte alla verifica del Tribunale, dalle quali il beneficiario ritrae utilità espressive della natura solidaristica assistenziale dell’istituto, utilità sia consistenti in una attribuzione una tantum sia in una erogazione periodica ed in tal caso anche se eccedenti la durata della vita dell’obbligato, e quand’anche esse siano dall’accordo – fonte poste a carico di un terzo.

Tale principio è invero esplicitato anche nella pronunzia di questa Corte richiamata dalla controricorrente (Cass. n. 17018 del 2003), per la quale “… le volte in cui … per accordo delle parti … sia stata determinata una forma dell’assegno la cui erogazione periodica non abbia a cessare con il decesso dell’obbligato … nondimeno deve ritenersi soddisfatto il requisito della previa titolarità dell’assegno di cui all’art. 5, per l’accesso alla pensione di reversibilità o, in concorso con il superstite, alla sua ripartizione …” In tal guisa corretto ed integrato il percorso argomentativo seguito dalla impugnata sentenza per affermare la esistenza di una chiara e valida attribuzione di titolarità dell’assegno, e pertanto collegato il giusto decisum all’esatto presupposto giuridico della costituzione dell’usufrutto, e non già a quello della pattuizione di un ripiano di diverse posizioni debitore scadute, ne discende, alla luce del sopra richiamato principio di diritto, la evidente infondatezza della censura nella parte in cui afferma (pag. 5 pen. cpv.) che con la predetta “donazione” di quota di usufrutto la N. “perdeva” la titolarità dell’assegno.

In realtà tale assunto rende palese la confusione nella quale è incorsa la controricorrente: invece di porre – se pur infondatamente – la questione della pretesa non riconducibilità della donazione di usufrutto a fonte di un diritto all’assegno, si pone la diversa questione del valore “abdicativo” della pattuizione di un “equipollente” di assegno una tantum , senza avvedersi che essa è priva di alcuna pertinenza con una domanda di attribuzione della pensione, semmai rilevando in sede di difese avverso una richiesta di revisione dell’assegno stesso.

Le spese del giudizio si regolano secondo la soccombenza e si provvede ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente L.A. a corrispondere a N.S. per spese di giudizio la somma di Euro 2.000,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi) oltre a spese generali e ad accessori di legge. Dispone in caso di diffusione del provvedimento l’omissione, imposta dalla legge, delle generalità di L.A. e di N.S..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 11 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2010

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