Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13099 del 15/06/2011

Cassazione civile sez. II, 15/06/2011, (ud. 15/03/2011, dep. 15/06/2011), n.13099

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a

margine del ricorso e con atto integrativo del 18.5.2009, dall’Avv.to

Bresciani Tullio del foro di Brescia e dall’Avv.to Daniele Manca

Sitti del foro di Roma ed elettivamente domiciliata presso lo studio

del secondo in Roma, via L. Luciani, n. 1;

– ricorrente –

contro

Z.B. e C.M.T., rappresentati e difesi

dall’Avv.to Giorgio Paris del foro di Brescia e dall’Avv.to Graziani

Alessandro del foro di Roma, in virtù di procura speciale apposta a

margine del controricorso, ed elettivamente domiciliati presso lo

studio del secondo in Roma, via Premuda, n. 6;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Brescia 678/2005

depositata il 19 luglio 2004;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 15

marzo 2011 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito l’Avv.to Daniele Manca Bitti (con delega dell’Avv.to Tullio

Bresciani), per parte ricorrente e l’Avv.to Alessandro Graziani, per

parte resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona dei Sostituto Procuratore

Generale Dott.ssa CARESTIA Antonietta, che ha concluso per il rigetto

del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 23 luglio 1999 Z.B. e C.M.T. evocavano, dinanzi al Tribunale di Brescia, Laura B. per sentirla condannare al pagamento della somma di L. 250.000.000 quale incremento di prezzo e/o risarcimento danni loro dovuto in forza di accordo stipulato in data 24.4.1997. Esponevano gli attori di avere concluso il predetto contratto a seguito di preliminare di compravendita nel quale veniva previsto che la promissaria acquirente si sarebbe impegnata a presentare, subito dopo la firma del contratto, agli uffici competenti, domanda per ottenere autorizzazione alla realizzazione di due opere sull’immobile oggetto di vendita e precisamente apertura di un accesso per passaggio pedonale al piano terra lato nord e chiusura del portico al lato est.

Aggiungevano che l’accordo prevedeva un incremento del prezzo di L. 250.000.000 nel caso di rilascio di dette autorizzazioni nel termine di sei mesi decorrenti dal 24.4.1997. Concludevano che la promissaria acquirente, in totale violazione dell’obbligazione assunta, ometteva di svolgere alcuna attività, pertanto aveva determinato il mancato avveramento della condizione sospensiva inserita nel contratto, cui doveva conseguire una pronuncia di responsabilità della medesima B..

Instauratosi il contraddittorio, contestata dalla convenuta la richiesta avversaria, il Tribunale adito, rigettava la domanda attorea.

In virtù di rituale appello interposto dai Z. – C., con il quale lamentavano l’erroneità della sentenza del giudice di prime cure, la Corte di Appello di Brescia, nella resistenza dell’appellata, accoglieva l’appello e in riforma della sentenza impugnata, condannava la B. al pagamento in favore degli appellanti della somma di Euro 129.114,22, oltre interessi legali dal 6.4.1998, nonchè alla rifusione delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio. A sostegno della decisione la Corte territoriale evidenziava che dalle modalità con le quali era stato strutturato l’accordo fra le parti, l’onere probatorio andava distribuito nel senso che agli appellanti spettava dimostrare l’inadempimento della B., mentre su quest’ultima gravava l’onere di provare di avere presentato le domande, ma di non avere ottenuto le autorizzazioni necessarie ad eseguire i lavori.

Aggiungeva che quanto all’autorizzazione relativa all’apertura di un accesso per passaggio pedonale, il primo giudice aveva accertato, che su richiesta degli appellanti, era stata rilasciata l’autorizzazione ed era perfettamente valida, nonostante l’eccezione sollevata sul punto dalla appellata, non riproposta in sede di gravame.

Quanto alla autorizzazione alla chiusura del portico, premesso che la clausola doveva essere interpretata nel senso che la chiusura dovesse essere effettuata nel rispetto della normativa vigente, rilevava che il progetto presentato dal geom. Do., su incarico della B., era palesemente illegittimo e contrastante con le norme del locale regolamento di igiene, giacchè con la realizzazione dello stesso i locali che si affacciavano sul portico non avrebbero avuto nè aria nè luce, per cui era conseguente il parere negativo rilasciato dall’USSL. I suddetti fatti, però, portavano alla conclusione che la condotta della B. dovesse essere qualificata come maliziosamente preordinata ad impedire l’avveramento della condizione, con la conseguenza che, a norma dell’art. 1359 c.c., la condizione doveva considerarsi avverata.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Brescia ha proposto ricorso per cassazione la B., che risulta articolato su sette motivi, al quale hanno replicato con memoria i controricorrenti Z. – C.. Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 333, 343 e 346 c.p.c., nonchè art. 2909 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la corte distrettuale, in ordine alla lamentata violazione compiuta dagli intimati ovvero dalla Sovrintendenza di Brescia circa l’affermazione secondo la quale la concessione riguardava il ripristino della portafinestra – eccezione sollevata dalla B. in primo grado – in quanto circostanza contraria al vero (riguardando la concessione l’apertura ex novo di una portafinestra in luogo di una finestra con inferriata), non provveduto per non essere stato proposto appello incidentale dalla appellata, per cui sul punto si sarebbe formato giudicato sulla decisione di primo grado. Di converso, sostiene la B. che sia nella comparsa di costituzione sia nella comparsa conclusionale di appello aveva sollevato il problema connesso all’errore di qualificazione dell’apertura.

Premesso che è male invocata la norma di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 giacchè dal tenore della censura emergerebbe al più configurarsi l’ipotesi di cui al n. 4 della medesima norma (quale error in procedendo), il motivo è comunque infondato.

In tesi generale, la parte pienamente vittoriosa nel merito non ha l’onere di proporre appello incidentale, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, per richiamare in discussione le eccezioni che risultino superate o assorbite, difettando di interesse al riguardo. Essa è però tenuta a riproporle espressamente, nel nuovo giudizio, in modo chiaro e preciso, allorchè abbiano il carattere dell’autonomia rispetto alla pronuncia e su di esse non vi sia stata pronuncia ovvero siano state respinte, al fine di evitare la presunzione di rinuncia da comportamento omissivo, ex art. 346 c.p.c. (v. Cass., sez. 2, 11 giugno 2010, n. 14086). Il discrimine tra la mera riproponibilità di un’eccezione ex art. 346 c.p.c. e la necessità dell’appello incidentale è, infatti, segnato dal presupposto dell’esistenza, o no, di una decisione – termalmente espressa, o anche implicita – sull’eccezione (o, a fortiori sulla domanda). Se quindi vi è una statuizione di rigetto, l’eccezione avente natura autonoma rispetto alla decisione, dovrà essere necessariamente riproposta nella veste dell’appello incidentale. Le domande o eccezioni autonome motivatamente respinte soggiacciono alla previsione di cui all’art. 329 c.p.c., comma 2: con la conseguente presunzione di acquiescenza, legata all’omessa impugnazione.

Da tale impostazione dogmatica discende che la presenza di una decisione esplicita non preclude automaticamente la facoltà di cui all’art. 346 c.p.c. se l’eccezione non accolta mirava a paralizzare una domanda che sia stata, poi, comunque, respinta per altre ragioni.

Nella specie, l’eccezione di invalidità della autorizzazione rilasciata dalla Sovrintendenza di Brescia per la realizzazione di una apertura sul lato nord, per falsa prospettazione dei fatti posti a fondamento della domanda di rilascio, travalica i confini del singolo capo della decisione, seppure favorevole – ma per ragioni diverse dall’accoglimento dell’eccezione (eccezione ritenuta dal giudice di prime cure in conferente) – alla parte convenuta:

cosicchè sarebbe stato necessario proporre appello incidentale, sul punto, da parte della B., vittoriosa nel merito. Il motivo va, quindi, respinto per non avere la B. riproposto l’eccezione con appello incidentale ma essendosi limitata a contestare l’iter argomentativo del giudice di primo grado, attività difensiva volta solo ad ottenere la conferma della sentenza di primo grado, come si evince dalla comparsa di costituzione depositata in appello e riprodotta per stralci nel ricorso.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti, per avere la corte di merito affermato che l’ASL avrebbe dato parere negativo alla richiesta di chiusura di lastre di cristallo o con vetrata del portico al piano terra, perchè il risultato sarebbe stato quello di impedire immissione di aria e luce diretta ai locali di abitazione retrostanti, conseguenza che si sarebbe invece evitata se si fossero aperte delle finestre verso l’esterno, fatto che sarebbe in contraddizione con la corretta interpretazione della risposta dell’ASL Nella sostanza la censura, rientrante nella previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, atterrebbe alla necessità dell’aderenza della motivazione alla documentazione versata in atti, ed in specie alla congruità e logicità della motivazione, nonchè dell’art. 1362 c.c. e segg. per l’interpretazione della documentazione.

Occorre rilevare che i criteri ermeneutici sanciti dalla legge per l’interpretazione dei contratti sono validi anche per l’interpretazione degli atti amministrativi, pur dovendosi, per questi ultimi, avere riguardo all’essenza ed alla funzione tipica di essi.

Ciò precisato, ne discende che l’interpretazione di provvedimenti amministrativi da parte del giudice del merito si risolve in un apprezzamento di fatto, che come tale sfugge al controllo della corte di cassazione, quando risulti condotto con l’osservanza delle regole di ermeneutica dettate in generale e sia immune, peraltro, da errori di diritto. Conseguentemente la motivazione che questi adotti si sottrae al riesame in sede di legittimità ove sia congrua e priva di errori logici o giuridici.

Al riguardo si deve considerare che quando sia denunziato, con il ricorso per cassazione, un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo dell’omesso od insufficiente esame di fatti, di circostanze, di rilievi mossi alle risultanze istruttorie, è necessario che la parte ricorrente non si limiti a censure apodittiche d’erroneità e/o inadeguatezza della motivazione od anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, per contro essendo necessario che precisi e specifichi, svolgendo concrete e puntuali critiche, seppure sintetiche, gli elementi di causa dei quali lamenta la mancata od insufficiente valutazione, evidenziando, in particolare, le eventuali controdeduzioni che assuma essere state neglette. Ciò in quanto, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, è condizione di ammissibilità del motivo il consentire al giudice di legittimità di procedere alla valutazione della decisività, al fine di pervenire ad una soluzione della controversia differente da quella adottata dal giudice a quo. In tal senso ha, ancora più incisivamente, evidenziato la pronuncia delle sezioni unite di questa corte (sent. 13 gennaio 1997 n. 265) come qualora venga dedotta l’incongruità o l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata per l’asserita mancanza od erronea valutazione di risultanze processuali, sia necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata od erroneamente valutata, che il ricorrente specifichi detta risultanza mediante sua integrale trascrizione nel ricorso.

Orbene, nel caso di specie non solo nel ricorso non è riportato l’atto (neppure nominalmente) in cui la ricorrente assume di avere sottoposto all’esame del giudice di merito la questione che la realizzazione delle opere di cui alla previsione contrattuale avevano la finalità di rendere autonoma la scala rispetto agli altri locali vicini, con chiusura del vano scale, sì da raggiungere ogni stanza dell’appartamento che si affaccia sulla veranda, inteso questo come portico chiuso ed i termini in cui sarebbe stata segnalata la controdeduzione, ma neppure risulta un qualche vaglio di detta circostanza da parte della corte territoriale, da cui poterne desumere la denuncia. Per cui se deve concludere per l’inammissibilità del motivo per difetto di autosufficienza.

Con il terzo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la corte di merito dopo le considerazioni circa il parere negativo fornito dall’ASL, affermato che spettava alla B. dimostrare di avere presentato domanda per ottenere le autorizzazioni di cui all’accordo, ma di non averle ottenute. La corte ha, inoltre, sottolineato che essendo la B. un architetto avrebbe dovuto conoscere la materia urbanistica, per cui applicando i canoni ermeneutici per l’interpretazione della domanda fatta alla ASL, aveva concluso che la chiusura del portico doveva intendersi quella consentita dalle norme urbanistiche, altrimenti si sarebbe trattata di condizione illecita.

Con il quarto motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la corte distrettuale affermato che l’operazione della richiesta all’ASL era stata impostata dalla B. in modo da avere esito negativo.

Con il quinto motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la corte di merito affermato che l’interpretazione dell’accordo del 24.4.1997, fatta secondo i criteri legali di ermeneutica e nel rispetto del principio della buona fede, avrebbe condotto all’ottenimento della concessione se fosse stato rispettato il criterio previsto dell’apertura di finestre all’esterno e non pretesa la chiusura con sigillatura dell’apertura del portico, essendo tale situazione contraria a quanto avvenuto ai primo piano, ove i locali avevano minor luce, e nel rispetto del consiglio dell’ASL, interpretato però in modo errato, perchè l’apertura di finestre era soluzione che impediva il passaggio di aria e luce nei locali abitativi retrostanti quando fossero state chiuse. In altri termini, il giudice del gravame non avrebbe considerato la differenza di condizione del portico a piano terra rispetto a quella al primo piano, per la differente entità dei rapporti aereo illuminanti emergenti dalla posizione, relativamente alle aperture, dei locali serviti di aria e luce proveniente dalle aperture stesse.

Con il sesto motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, nonchè per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la corte di merito, in violazione delle norme di diritto previste per l’interpretazione dei contratti, ritenuto che l’ASL avrebbe risposto in data 10.2.1998 alla richiesta del geom. Do. consigliando come soluzione del problema posto dalla B. che venissero aperte “all’interno delle realizzande pareti di cristallo, delle finestrature, e cioè seguire ad esempio fra le diverse modalità praticabili quella stessa modalità costruttiva realizzata al piano superiore dove fu concessa l’autorizzazione a chiudere il portico nonostante avesse meno luce di quello al piano terra”, mentre nella realtà l’ente aveva affermato che non era aderente alle norme di igiene la chiusura del portico per la quale veniva chiesto l’assenso, con la motivazione che il regolamento di igiene prevedeva che i locali abitabili dovevano godere di aria e luce dirette. Infatti, le finestre aperte consentono il passaggio dell’aria e della luce, ma quando vengono chiuse si ritorna ad una situazione identica a quella del portico chiuso.

Con il settimo ed ultimo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, nonchè per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere la corte di merito affermato che il comportamento della B. doveva considerarsi maliziosamente preordinato ad impedire l’avveramento della condizione, dal momento che la B. aveva un interesse (che tuttora ha) alla chiusura del portico.

I motivi da ultimi illustrati (dal 3 al 7) vanno esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza e per l’evidente legame logico – giuridico che il congiunge riguardando tutti, quale più quale meno e in via diretta o indiretta, la questione relativa all’accertamento del mancato avveramento della condizione, prevista dalle parti nell’accordo sottoscritto il 24.4.1997, ai sensi dell’art. 1359 c.c., sia pure prospettata sotto profili diversi. Infatti le critiche che la ricorrente muove alla sentenza investono l’individuazione del fatto da provare e la valutazione delle prove ad esso relative: esse sono fondate per le ragioni di seguito esposte.

Le parti avevano stipulato un contratto di compravendita avente ad oggetto immobile per il quale il corrispettivo veniva determinato in un certo ammontare, di cui una parte corrisposta al momento della definizione dell’accordo e per altra parte la sua dazione veniva sottoposta alla condizione sospensiva del rilascio di determinate autorizzazioni da parte del Comune, precisamente per l’apertura di un accesso per passaggio pedonale al piano terra e per la chiusura del portico. La sentenza impugnata ha osservato che “quanto all’autorizzazione relativa all’apertura di un accesso per passaggio pedonale, il primo giudice ha accertato che, su richiesta degli stessi appellanti, era stata rilasciata”, aggiungeva che “non resta che fermare l’attenzione sull’autorizzazione alla chiusura del portico in lato est”, in ordine alla quale “l’appellata (specificato in altro punto della decisione che “è un architetto”) non ha presentato alcuna domanda alle competenti autorità per ottenere l’autorizzazione ma ha chiesto solo un parere preventivo all’USSL che però è negativo e su questo fatto fonda tutta la sua difesa di fronte alla pretesa degli appellanti”. Proseguiva affermando che “il progetto presentato dal geom. Do., su incarico della B., prevedeva che il portico, in pratica venisse sigillato con delle pareti in cristallo privando, quindi, i locali che si affacciano su di esso, sia di aria che di luce; il progetto era cosi palesemente illegittimo e contrastante con le norme del locale regolamento”;

concludeva nel senso che “la chiusura del portico con le pareti di cristallo non era (e non è) di per sè irrealizzabile (come dimostrato dal fatto che il piano superiore, con un porticato con ancor meno luce, è stato chiuso), ma lo diventa solo se si pretende di sigillarlo e quindi privarlo di aria e luce”. Su ciò fondava il convincimento che il comportamento della B. andava ritenuto inadempiente degli obblighi assunti con l’accordo. Questa Corte nell’esaminare casi per più versi analoghi alla fattispecie in esame (v. Cass. 2 giungo 1992 n. 6676; Cass. 3 aprile 1996 n. 3084) ha osservato che quante volte la stessa parte che allega a fondamento della domanda che l’altra, col suo comportamento, ha impedito che la pubblica amministrazione provvedesse sul rilascio di autorizzazioni condizionanti l’efficacia (in tutto o in parte) del contratto, da un lato non può prospettarsi un fittizio avveramento della condizione sulla base dell’art. 1359 c.c., dall’altra vanno riconosciuti alla parte adempiente i rimedi della risoluzione del contratto e quello del risarcimento del danno da inadempimento. Si è considerato che deve ammettersi la risoluzione per inadempimento del contratto condizionato estensivamente e che la soluzione va applicata a caso in cui una parte, col fatto proprio, cagiona il mancato avveramento della condizione, poichè un tale comportamento si configura come violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione, al fine di mantenere integre le ragioni dell’altra parte. Si è anche puntualizzato che un tale obbligo (art. 1358 c.c.) costituisce una specificazione dell’obbligo di assunzione di quel comportamento secondo correttezza, imposto, in genere, ai contraenti, per l’esecuzione di tutte le obbligazioni (art. 1175 c.c.) e che esso assume un significato particolare se considerato nell’ambito dell’aspettativa di un avveramento della condizione, configurandosi come necessità di non influire sui libero corso della pendenza, diminuendo la dose di incertezza dell’evento condizionante, e, in conseguenza, la probabilità che l’altra parte acquisti o meno il diritto oggetto del negozio.

Così impostato i problema, si è enunciato il principio di diritto per cui il giudizio sulla esistenza di un nesso di derivazione causale tra mancata realizzazione della situazione futura incerta ed inadempimento dell’obbligazione va condotto applicando l’art. 1223 c.c.: perciò considerando se, avuto riguardo alla situazione di fatto in cui il bene oggetto del contratto di trovava nel momento in cui si è determinato l’inadempimento, il rilascio delle autorizzazioni amministrative, necessarie per utilizzare il bene in conformità del diritto di godimento previsto in contratto, sarebbe stato possibile avuto riguardo alla normativa, che le amministrazioni pubbliche competenti sarebbero state tenute ad applicare per concludere in modo legittimo il procedimento.

In altri termini si è osservato che stabilire se, nella situazione data, fosse possibile una legittima conclusione positiva del procedimento, significa fare applicazione, nel caso, di un criterio di regolarità causale, il quale permette una corretta applicazione dell’art. 1223 c.c., quando si tratta di giudicare del se il comportamento lesivo può essere considerato causa non di un evento dannoso in effetti verificatosi, ma della mancata produzione di un evento, dal cui avveramento sarebbe derivato un vantaggio, così non potutosi conseguire. Sulla scorta di questi enunciati è possibile passare all’esame dei motivi del ricorso. La corte distrettuale è incorsa in vizio di difetto di motivazione quando, dopo avere affermato che era necessario stabilire se la condizione sospensiva avrebbe potuto verificarsi e se l’autorizzazione amministrativa per la chiusura del portico avrebbe potuto essere rilasciata, ha focalizzato l’indagine esclusivamente sul progetto elaborato dal geom. Do., su incarico della attuale ricorrente e da lui presentato all’approvazione dell’USSL, che ha espresso parere negativo, traendone conseguenze che per un verso sono illogiche e per altro sono insufficientemente supportate da logica.

Va osservato che quando, come nel caso in esame, il fatto dedotto in condizione è un provvedimento amministrativo ed il procedimento per la sua adozione non ha potuto concludersi per il fatto di chi aveva un interesse contrario alla realizzazione della condizione, la prova non può avere ad oggetto la certezza che il provvedimento positivo vi sarebbe stato, ma solo lo stabilire se, nella situazione data, una legittima conclusione positiva del procedimento fosse possibile.

La corte di merito, la quale ha dato atto del fatto che nel piano superiore è stata rilasciata autorizzazione a chiudere il portico, motivando “nonostante avesse meno luce di quello al piano terra”, per cui è giunta alla conclusione che “la chiusura del portico con le pareti di cristallo non era (e non è) di per sè irrealizzabile (come dimostrato dal fatto che il piano superiore, con un portico con ancor minore luce, è stato chiuso), ma lo diventa solo se di pretende di sigillarlo e quindi privarlo di aria e luce”, ha posto in rilievo che “i progetto presentato dal geom. Do., su incarico della B., prevedeva che in portico, in pratica, venisse sigillato con delle pareti in cristallo privando, quindi, i locali che si affacciano su di esso, sia di aria che di luce”. La corte di appello non indica a quali requisiti sarebbe stato necessario che il progetto rispondesse e quelli indicati – quali “delle finestre aprentesi direttamente sull’esterno” – appaiono estremamente generici e poco tecnici, perchè potesse essere rilasciata dal Comune l’autorizzazione nei termini di cui all’accordo intercorso fra le parti. L’indicazione mancata costituiva un elemento necessario per concretizzare una motivazione sufficiente: ciò sia perchè, senza accertamento tecnico alcuno, il giudice del gravame ha dedotto in maniera apparentemente contraddittoria che la luce ai piani superiori sarebbe minore, quando è notorio che la luce è maggiore via via che si occupano porzioni superiori di un edificio; sia perchè nell’interpretazione della clausola contrattuale relativa alla condizione ha fatto riferimento alla qualità della ricorrente (“è un architetto e, quindi, un esperto della materia urbanistica”), per trame conclusioni sul suo contenuto, senza però tenere conto che la previsione di un incremento del prezzo così rilevante, per L..

250.000.000 pari ad Euro 129.114,22, avrebbe comunque dovuto essere la conseguenza di un’opera che comportasse un maggiore godimento, intesa quale utilità del bene per l’acquirente.

Quanto all’onere della prova, poi, e con particolare riferimento al motivo sette del ricorso, occorre osservare che la possibilità del rilascio dell’autorizzazione da parte dell’ente locale integrava un fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno: l’incertezza che residuasse su questo punto non potrebbe che ricadere sugli attori, secondo la regola di giudizio posta dall’art. 2697 c.c., diversamente da quanto affermato dalla corte distrettuale. A dimostrazione della correttezza della regola di giudizio esposta basti osservare che l’esito della causa non avrebbe potuto essere se non contrario agli attori ove essi avessero mancato di riferirsi ad una specifica ipotesi di utilizzazione dell’immobile, giacchè ciò avrebbe impedito ogni giudizio circa la possibilità di vederla realizzata. La circostanza che la corte di merito, sulla base delle indicazioni degli stessi appellanti, abbia, invece, fatto riferimento ad uno specifico progetto, quello dei geom. Do., e che questo non abbia superato favorevolmente un primo stadio del procedimento, alla USSL, imponeva di stabilire, per quanto si è detto, se esso sarebbe o no potuto risultare approvato, eventualmente a seguito di opportuni non significativi adattamenti: tale giudizio avrebbe dovuto essere condotto verificando se il progetto presentava concrete caratteristiche tali da fare ragionevolmente presumere che esso sarebbe stato o meno approvato.

La sentenza impugnata presenta conclusivamente i vizi di difetto di motivazione denunciati rappresentati dal non avere ancorato il proprio giudizio negativo alla considerazione di concrete situazioni valutate, con giudizio immune da vizi logici, come tali da autorizzare una prognosi, altresì, negativa circa la possibile emanazione di provvedimenti satisfattivi dell’interesse della ricorrente.

Il ricorso, nei limiti prima indicati, è in conclusione accolto e la sentenza impugnata è cassata nella parte corrispondente.

Le parti sono rimesse davanti al giudice del rinvio, che si indica in altra sezione della Corte di appello di Brescia. Il giudice del rinvio rinnoverà l’accertamento sul punto rappresentato dallo stabilire se, anche alla luce del progetto presentato da geom.

Do., per conto della B., si sarebbe potuta ottenere da Comune di Brescia l’autorizzazione alla chiusura del portico ricompreso nell’immobile acquistato della B., e si atterrà in tale indagine ai principi di diritto sopra enunciati.

Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese di questo grado del giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso, accoglie nel resto il ricorso; cassa in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Brescia.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 15 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2011

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