Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13098 del 15/06/2011

Cassazione civile sez. II, 15/06/2011, (ud. 15/03/2011, dep. 15/06/2011), n.13098

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.V., rappresentato e difeso, in forza di procura

speciale a margine del ricorso, dall’Avv.to Bartolini Giuseppe del

foro di Pesaro e dall’Avv.to D’Alessandro Vinicio del foro di Roma ed

elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo in Roma, via

Campo di Marzio, n. 69;

– ricorrente –

contro

Avv.to C.L. in proprio ex art. 86 c.p.c., rappresentato

e difeso anche dall’Avv.to Iacuzzi Roberto del foro di Forlì –

Cesena, in virtù di procura speciale apposta a margine del

controricorso, ed elettivamente domiciliato presso lo studio

dell’avv.to Palatta Ernesto in Roma, via Pinerolo, n. 22;

– controricorrente –

nonchè sul ricorso incidentale (iscritto al N.G.R. 29428/05)

proposto dall’intimato nei confronti del ricorrente;

avverso la sentenza del Giudice di Pace di Cesena n. 552/04

depositata il 19 luglio 2004;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 15

marzo 2011 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito l’Avv.to Antonio Franco Todaro (con delega dell’Avv.to

C.L.) per parte resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott.ssa CARESTIA Antonietta, che ha concluso per il rigetto

del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale

condizionato.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 13 dicembre 2003 V. G. proponeva opposizione, dinanzi al Giudice di Pace di Cesena, avverso il decreto ingiuntivo n. 709/2003, con il quale lo stesso Giudice di Pace gli ingiungeva il pagamento della somma di Euro 557,14, in favore dell’Avv.to C.L., quale corrispettivo per le prestazioni rese dal professionista nella causa civile instaurata avanti al Tribunale di Cesena, nell’interesse dello stesso G., convenendo in giudizio Le. e Fo.. L’opponente asseriva l’illegittimità e l’arbitrarietà della rinuncia al mandato da parte del legale e, in secondo luogo, affermava non essere dovuti gli importi richiesti per non avere il professionista espletato l’attività difensionale ne rispetto del mandato ricevuto. Chiedeva, pertanto, la revoca del decreto opposto, oltre a sentire dichiarare satisfattiva la somma già percepita di Euro 400,01.

Instauratosi il contraddittorio, nella resistenza dell’opposto, il quale chiedeva che la controversia venisse decisa con ordinanza non impugnabile in appello ai sensi della L. n. 794 del 1943, art. 30 nel merito affermava la genericità ed illegittimità dell’opposizione, il Giudice di Pace adito respingeva l’opposizione, rigettata anche la richiesta dell’opposto di mutamento del rito, con condanna dell’opponente alla rifusione delle spese di causa.

A sostegno della decisione il giudice osservava che la rinuncia al mandato non richiedeva alcuna giustificazione e peraltro nella specie appariva fondata sul fatto che la prestazione professionale era stata effettivamente svolta.

Aggiungeva che l’opposizione appariva destituita di fondamento non essendo stata data alcuna prova di quanto dedotto. Nè poteva essere accolta l’istanza di parte opposta di mutamento del rito per essere stato richiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo, per cui non era più attuabile la procedura di cui alla legge invocata.

Avverso l’indicata sentenza del Giudice di Pace di Cesena ha proposto ricorso per cassazione il G., affidato a due motivi, al quale ha replicato con memoria l’Avv.to C., che ha anche proposto ricorso incidentale condizionato, articolato in un unico motivo.

Ha presentato memoria illustrava ex art. 378 c.p.c. parte ricorrente.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso principale ed il ricorso incidentale vanno preliminarmente riuniti, a norma dell’art. 335 c.p.c., concernendo la stessa sentenza.

Ciò posto, parte ricorrente con il primo motivo denuncia la omessa motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere il Giudice di Pace, dopo avere sommariamente riassunto il processo, apoditticamente affermato l’infondatezza dell’opposizione per mancanza di prova di quanto dedotto, senza rilevare che era stato lo stesso giudicante a negare all’opponente la possibilità di provare i fatti esposti, ritenendo la causa matura per la decisione, senza ammissione delle prove articolare dal G..

Con il secondo motivo viene lamentata la violazione dell’art. 115 c.p.c. e degli artt. 2 e 24 Cost., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il Giudice di Pace trasgredito l’obbligo di motivare l’esclusione delle istanze istruttorie formulate dal ricorrente.

L’illegittimità e la contraddittorietà dell’operato del giudice di merito erano, dunque, evidenti.

Preliminare all’esame del merito del ricorso si presenta la decisione della questione relativa all’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso le decisioni del giudice di pace ex art. 113 c.p.c..

In proposito occorre tenere presente che l’art. 113 c.p.c., comma 2, stabilisce che il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede Euro 1.100,00 e l’art. 339 c.p.c., comma 3, nella dizione anteriore alla riforma del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (art. 27, comma 1), che trova applicazione nel caso di specie, stante l’epoca di introduzione del giudizio, afferma che “sono inappellabili le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità”.

Sulla base di queste disposizioni la giurisprudenza della Corte si è formata nel senso che il giudice di pace, nel pronunciare secondo equità, non è vincolato – come accadeva, invece, per il conciliatore – al rispetto dei principi generali della materia, secondo il criterio introdotto nell’art. 113 c.p.c., comma 2, dalla L. n. 399 del 1984, art. 3 ed eliminato dalla L. n. 1374 del 1991, art. 21 con la conseguenza che la pronuncia equitativa del giudice di pace deve ritenersi legittima ancorchè eventualmente contrastante con detti principi. Essa soggiace, tuttavia, al divieto di violare principi diversi e fondamentali: essendo, infatti, ricorribile per cassazione, deve evidentemente escludersi che tale decisione possa trasmodare in giudizio arbitrario, dal momento che, se così fosse, il sindacato di legittimità, consentito dal combinato disposto dell’art. 339 c.p.c., comma 3 e all’art. 360 c.p.c., comma 1, verrebbe ad essere svuotato di ogni concreto significato.

Nel ricercare nell’ordinamento detti limiti che, per effetto dell’avvenuta abrogazione dell’obbligo di osservanza dei principi regolatori della materia, devono ritenersi più ristretti di quelli enunciati da questa Suprema Corte riguardo alle sentenze rese dal conciliatore, occorre in proposito distinguere a seconda che il ricorso per cassazione sia proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione della legge sostanziale ovvero ex art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, per vizi di motivazione. Nel primo caso, il sindacato di legittimità deve ritenersi ristretto all’accertamento dell’osservanza delle norme di rango costituzionale e quelle di diritto comunitario, cui il giudice di pace deve conformarsi essendo esse poste da una fonte di livello superiore a quella della legge ordinaria che prevede il giudizio equitativo, nonchè ai principi generali dell’ordinamento, i quali più angusti dei principi regolatori della materia, devono ritenersi a loro volta obbligatori a tutela della coesione del sistema, nel quale il giudizio di equità si colloca.

I vizi di motivazione del giudizio equitativo in senso stretto sono, invece, deducibili ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 in caso di inesistenza di qualsivoglia motivazione, mentre del successivo n. 5 in caso di motivazione meramente apparente od affetta da radicale ed insanabile contraddittorietà su un punto decisivo della controversia.

Pertanto, se il rispetto delle norme costituzionali e dei principi generali dell’ordinamento e delle regole processuali sia stato accertato o se il loro mancato rispetto non sia stato denunziato, nessuna censura è proponibile in ordine alla determinazione equitativa della regola sostanziale in base alla quale la controversia è stata decisa, per quanto questa regola sia stata tratta dall’interpretazione di una norma giuridica (in tal senso v.

Cass., Sez. 3^, 1 ottobre 1998, n. 9754).

Alla luce di quanto sopra illustrato, tenuto conto che nel ricorso viene dedotto sia il vizio di motivazione del giudizio equitativo sia la violazione di norme di rango costituzionale, osserva la Corte che il convincimento del giudice di pace, basato sulla premessa di fatto che nel caso di specie non sia stata arbitraria o illegittima la rinuncia al mandato per essere stato lo stesso espletato, attiene ad una questione che non è censurabile in questa sede di legittimità in considerazione degli accennati limiti del relativo giudizio.

Invero, il ricorrente nel dolersi del vizio di motivazione avrebbe dovuto rilevare che detta denunzia è possibile solo quando sia configurabile l’inesistenza della motivazione o una motivazione apparente o in contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, sì da precludere l’identificazione della “ratio decidendi”, ovvero ancora una motivazione perplessa dalla quale non sia possibile stabilire la giustificazione di quanto posto a base della decisione. Le censure relative alla sufficienza ed alla correttezza della motivazione non sono quindi deducibili tout court nei confronti di sentenze pronunciate secondo equità. La giurisprudenza di questa Corte ha inoltre affermato (cfr: Cass. 12 luglio 2000 n. 9268; Cass. 6 aprile 2000 n. 4326; Cass. 24 febbraio 2000 n. 2105; tutte conformi alla decisione a Sezioni Unite 15 ottobre 1999 n. 716) che la natura dell’equità di cui al modificato art. 113 c.p.c. è “formativa” o “sostitutiva” – che si ha quando il giudice prescinde dall’individuazione della norma astrattamente applicabile al caso concreto (l’indicazione della quale non sarebbe neppure richiesta al giudice di pace la cui valutazione equitativa sostituisce integralmente, nel momento applicativo, la norma positiva) – e non “suppletiva” o “integrativa” ravvisabile quando l’equità risulti funzionale al completamento della fattispecie normativa in relazione ad aspetti da questa non definiti.

Nella specie la motivazione da conto che dalla stessa linea difensiva del ricorrente – opponente emerge l’ammissione dell’avvenuto adempimento dei mandato conferito all’Avv.to C., cui ha fatto seguito la rinuncia del mandato da parte del professionista solo in momento successivo, dal momento che il G. si duole del mancato svolgimento di prestazioni professionali “secondo il mandato ricevuto”, omettendo però di specificare quali sarebbero state le violazioni perpetrate dal mandatario (di cui il ricorrente formula una quanto mai generica allegazione solo nella memoria ex art. 378 c.p.c.).

Quanto poi al denunciato vizio di violazione delle norme che sovrintendono al principio di disponibilità delle prove, posto peraltro in relazione al difetto di omessa motivazione, nel caso in esame non è censurabile (in quanto non viola norme costituzionali nè si pone in contrasto con quelle comunitarie o che regolano lo svolgimento del processo) la determinazione del giudice di pace di non assunzione delle prove articolate dal ricorrente a base dell’opposizione a decreto ingiuntivo, giacche la motivazione della decisione impugnata anche sul punto, seppure in forma implicita, è adeguata e completa e consente agevolmente di identificare con chiarezza la “ratio decidendi”. Il giudice, infatti, è libero di scegliere, tra gli elementi di prova sottoposti al suo vaglio, quelli che reputa più attendibili ed efficaci ai fini della decisione e tale potere di scelta non comporta l’obbligo di discutere analiticamente ogni deduzione, essendo sufficiente una valutazione, anche globale, delle risultanze di causa col rigetto, anche implicito, delle altre deduzioni. Nella specie la ratio decidendi è incentrata sull’apprezzamento di fatto circa la dedotta mancanza di giusta causa per la rinuncia al mandato, trattandosi di requisito non necessario in ipotesi di mandato difensionale, che peraltro nella sostanza risultava essere stato svolto, come ammesso dallo stesso ricorrente, ragione per la quale la causa non necessitava di ulteriori elementi probatori.

Dunque, non viene dedotta la violazione di norme processuali, ma prospettata la violazione di norme del codice civile in tema di onere della prova (art. 2697) e di efficacia probatoria delle affermazioni delle parti, in definitiva sostenendo che, una volta ammesso l’adempimento dell’incarico, avrebbe dovuto il debitore offrire la prova che lo stesso era avvenuto in violazione dei canoni di corretto adempimento, tenuto conto della natura dell’obbligazione assunta e censurando per questo la decisione. Il problema di diritto posto dai ricorrente è dunque relativo alla individuazione del soggetto cui incombe l’onere della prova dell’esistenza dei rapporto, ovvero dell’individuazione del soggetto a carico del quale vanno poste le conseguenze del difetto di prova sul punto.

Il che comporta che il motivo di ricorso – il quale segna l’ambito della devoluzione e, dunque, il limite cognitivo della corte di cassazione – si appunta su norme di diritto sostanziale e non sulla violazione di norme processuali, con la conseguente inammissibilità della censura di cui al secondo motivo del ricorso, siccome afferente a vizio di motivazione. Di conseguenza è inammissibile la censura relativa all’asserita violazione dell’art. 115 c.p.c. e degli artt. 2 e 24 Cost. trattandosi di norme di carattere sostanziale alla cui osservanza il giudice di pace non è tenuto allorchè pronuncia – come appunto nella specie – in controversie di valore inferiore ad Euro 1.100,00 (pari a vecchie L. due milioni). Ne discende il rigetto del ricorso per inammissibilità, in quanto in esso non si prospetta alcuno dei profili in relazione ai quali è consentito il ricorso per violazione di legge con riferimento alle sentenze del giudice di pace pronunciate ai sensi dell’art. 113 c.p.c., comma 2, ma solo una diversa interpretazione della vicenda giuridica.

Passando ora all’esame dell’unico motivo di ricorso incidentale proposto dal controricorrente, con il quale è stata denunciata la violazione di legge per mancata applicazione della L. n. 794 del 1942, artt. 29 e 30 e con la quale il C. critica la decisione del giudice di merito per non avere provveduto al mutamento del rito nonostante fosse espressamente previsto dalla legge invocata, si osserva che va ritenuto assorbito con il rigetto del ricorso principale, essendo venuto meno ogni interesse dell’intimato ad una pronuncia sul ricorso incidentale condizionato.

Al rigetto del ricorso consegue, come per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato;

condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 600,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2A Sezione Civile, il 15 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2011

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