Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13097 del 15/06/2011

Cassazione civile sez. II, 15/06/2011, (ud. 08/03/2011, dep. 15/06/2011), n.13097

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.G., rappresentato e difeso, in forza di procura

speciale a margine del ricorso, dall’Avv.to Manfredini Domenico Paolo

del foro di Novara ed elettivamente domiciliato presso lo studio

dell’Avv.to Giovanna Fiore in Roma, via degli Scipioni, n. 94;

– ricorrente –

contro

D.A.M.T., (OMISSIS) rappresentata e

difesa dall’Avv.to Sicher Francesco del foro di Novara e dall’Avv.to

Corrado Carrubba del foro di Roma, in virtù di procura speciale

apposta a margine del controricorso, ed elettivamente domiciliata

presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via di Vigna Murata, n. 1;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino n. 441/2005

depositata il 16 marzo 2005;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica dell’8

marzo 2011 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito l’Avv.to Giovanna Fiore (con delega dell’Avvio Domenico Paolo

Manfredini), per parte ricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. LETTIERI Nicola, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 27 marzo 1995 M.G. evocava in giudizio, dinanzi al Tribunale di Verbania, D.A. M.T. e G.M. deducendo che nell’anno 1994 si erano verificate nella sua proprietà immobiliare numerose infiltrazioni provenienti dal fondo limitrofo di proprietà dei convenuti, per cui chiedeva la condanna degli stessi al risarcimento dei danni ed alla realizzazione delle opere necessarie alla eliminazione delle cause delle medesime infiltrazioni.

instauratosi il contraddittorio, il convenuto G. affermava di non essere proprietario del fondo da cui provenivano le infiltrazioni, mentre la D.A. affermava l’infondatezza delle altrui pretese e spiegava riconvenzionale per ottenere la condanna del M. alla esecuzione delle opere (indicate nella rimozione di un muro e di una falda del tetto) illegittimamente gravanti sulla proprietà della convenuta, all’esito dell’istruzione della causa, il Tribunale adito dichiarava cessata la materia del contendere per quanto concerneva la posizione del G.;

relativamente ai rapporti tra il M. e la D.A. rigettava sia la domanda attorea sia quella riconvenzionale.

In virtù di rituale appello interposto dal M., con il quale lamentava l’erronea interpretazione da parte dei giudice di prime cure dell’espletato accertamento tecnico preventivo, nonchè violazione dei principi generali e dei principi processuali delle parti per mancata ammissione della c.t.u., delle prove testimoniali e per interrogatorio, la Corte di appello di Torino, nella resistenza dell’appellato G. (il quale sottolineava che erroneamente il M. lo aveva evocato nel giudizio di appello) e della D. A., con decisione del 21.3.2003 rilevava la carenza di legittimazione del G. e con ordinanza in pari data rimetteva la causa sul ruolo disponendo c.t.u. nel rapporto fra le restanti parti. Espletata istruttoria, la Corte torinese respingeva il gravame, confermando la sentenza impugnata.

A sostegno dell’adottata sentenza, la Corte territoriale evidenziava che sulla base della espletata consulenza tecnica di ufficio era possibile affermare che la infiltrazione di umidità all’interno dell’alloggio di proprietà del M. si era verificata, propagandosi dalla base muraria fondale e sino all’altezza di 2 metri circa, per assorbimento del terreno. Considerazione a cui il c.t.u.

aveva aggiunto che “un significativo contributo a detto fenomeno (di assorbimento – da parte delle strutture murarie del M. – per capillarità dell’acqua presente nel terreno) era fornito dall’acqua percolante attraverso l’area cortiliva scoperta, non pavimentata, di proprietà D.A. posta a quota più elevata rispetto al pavimento dei locali di proprietà M. di circa 1,20 mt”. Lo stesso c.t.u., inoltre, aveva accertato, da un punto di vista tecnico, la mancata esecuzione, nell’area cortiliva predetta, da parte della D.A. ed a svantaggio del M., di alcuna opera incidente sul deflusso delle acque.

Concludeva la corte di merito nel senso che l’appellante non aveva neanche riferito che nel fondo della appellata fosse intervenuta l’opera dell’uomo ad alterare significativamente, quanto allo scolo delle acque piovane, la situazione del suo fondo sito a valle, per cui trovando applicazione il disposto dell’art. 913 c.c., che prevedeva l’assoggettamento del fondo inferiore a ricevere le acque che scolavano naturalmente dal fondo più elevato, la domanda non poteva trovare accoglimento non essendo stata aggravata la configurazione naturale del terreno.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione il M., che risulta articolato su due motivi, al quale ha resistito con controricorso la D. A..

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo d’impugnazione – deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui all’art. 112 c.p.c. in tema di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato nonchè l’omesso esame della domanda e pronuncia su domanda non proposta – il ricorrente sostanzialmente lamenta che, rispetto alla domanda dallo stesso avanzata di risarcimento del danno provocato da infiltrazioni provenienti dalla proprietà D.A. e la realizzazione delle opere necessarie per emendarli, la sentenza impugnata avrebbe male interpretato le domande proposte dal M. attraverso l’esame di una norma di diritto, l’art. 913 c.c., mai citata o invocata dalle parti. Di converso, il ricorrente ha denunciato un comportamento giuridicamente scorretto e sanzionato ai fini della responsabilità extracontrattuale per mancata custodia del bene, in particolare per mancata manutenzione del piccolo cortile insistente sulla proprietà della controinteressata. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia un error in procedendo per mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato per essere il giudice del gravame, in base all’errata applicazione di una norma di diritto, l’art. 913 c.c. e non già l’art. 2051 c.c., giunto alle conclusioni prospettate. La corte rileva l’infondatezza di entrambe le censure, che possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza, nonchè per l’evidente legame logico – giuridico che le congiunge riguardando tutte e due, in via diretta ovvero indiretta, questioni collegate all’applicazione alla fattispecie in esame dell’art. 913 c.c. Occorre premettere che il giudice incorre nel vizio di extrapetizione quando attribuisce alla parte un bene non richiesto, perchè non compreso, neanche implicitamente e virtualmente, nella domanda dedotta e non anche quando pone a fondamento della sua decisione una norma giuridica non invocata, essendo stata nella specie chiesta la condanna del proprietario del fondo sovrastante al risarcimento dei danni cagionati al proprietario del fondo sottostante, per non avere eseguito opere di pavimentazione del c.d. buco.

Ciò posto, il giudice d’appello ha precisato, anzitutto, che lo stato dei luoghi, in particolare la posizione a dislivello dei fondi di proprietà, rispettivamente, del ricorrente, quello a valle, e della resistente, quello a monte, doveva essere apprezzato in relazione alle previsioni legali in tema di rapporti di vicinato, e non esclusivamente in rapporto alla responsabilità extracontrattuale tout court.

Da ciò il giudice del gravame ha argomentato che le lamentele relative alle “copiose infiltrazioni” non derivavano da una alterazione della configurazione naturale del terreno, tale da determinare un peggioramento del deflusso delle acque, imputabile alla D.A., proprietaria del fondo superiore.

Con detto accertamento la corte di merito ha compiutamente esaurito il thema decidendum, posto che consisteva nello stabilire se la scopertura, non pavimentata, dell’area cortiliva di proprietà D. A. costituisse (o meno) una innovazione apportata dalla convenuta allo stato dei luoghi, con alterazione dell’equilibrio idrogeologico, cui sarebbe conseguita la necessità di rimuovere le cause e di stabilire l’entità dei derivati danni.

In particolare, la corte torinese ha precisato che, pur avendo il perito nominato in sede di ATP, riferendosi alla proprietà D. A., parlato di “terreni parzialmente ripianati” ed il c.t.u.

nominato dal giudice descritto il cortile come terrapieno non pavimentato, il M. non ha dimostrato e neanche allegato che vi fossero stati a suo danno dei mutamenti del terreno a monte, “tale da rendere più gravoso lo scolo naturale delle acque” rispetto all’originario stato dei luoghi.

E’ evidente, pertanto, che non sussiste il dedotto vizio di non corrispondenza fra chiesto e pronunciato, dato che i giudice di secondo grado ha compiutamente esaminato, nella prospettiva più ampia di quanto non avesse fatto il primo giudice, l’incidenza che tutte le alterazioni riscontrate potevano avere avuto rispetto all’assetto pregresso dei luoghi.

Quanto al preteso vizio di violazione delle norme in ordine alla ritenuta esclusione del rapporto causale tra lo stato dei luoghi della proprietà D.A. e l’evento di danno lamentato, deve questo collegio ribadire che le opere di manutenzione della proprietà in ipotesi di fondi posti a dislivello devono avere la finalità di assecondare il normale flusso delle acque, imponendo l’art. 913 c.c., che nella specie trova applicazione in considerazione della configurazione naturale dei luoghi, al proprietario del fondo inferiore di ricevere le acque che dal fondo più elevato scolano naturalmente.

Questa Corte, in tema di esegesi della norma di cui all’art. 913 cod. civ., ha infatti chiarito che la disciplina dello scolo delle acque da luogo, tanto rispetto al proprietario del fondo inferiore che rispetto a quello del fondo superiore, ad un limite legale del rispettivo diritto di utilizzazione, vietando, sia all’uno che all’altro, ogni alterazione non connessa ad opere di sistemazione agraria, che abbia per effetto di rendere più gravosa ovvero di ostacolare il naturale deflusso delle acque a valle, donde la sussistenza a carico di entrambi di un obbligo di non facere, strumentale a detto scopo (v. Cass. 14 novembre 2001 n. 14179).

La risalente giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, precisato che il precetto della legge non deve essere inteso in modo assoluto, poichè, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, debbono ritenersi consentite quelle modificazioni incidenti sul deflusso delle acque, che non ne alterino apprezzabilmente lo scolo e che non rendano più gravosa la condizione dei due fondi interessati (v. in tal senso, Cass. 28 settembre 1994 n. 7895; Cass. 8 novembre 1985 n. 5459).

Nella specie, l’impugnata sentenza ha espressamente ritenuto che alcuna modificazione del deflusso delle acque, imputabile ad eventuali opere eseguite a monte dalla convenuta, aveva assunto la valenza richiesta dalla norma dell’art. 913 cod. civ. e che, pertanto, doveva considerarsi che non vi era stata attività che potesse essere ritenuta lesiva del diritto del proprietario del fondo sottostante.

Infatti, ponendo la norma citata una limitazione legale alla proprietà, risulta imposto dalla legge ai proprietari dei rispettivi fondi un obbligo di non fare, il cui contenuto risponde al divieto di modificare il normale deflusso delle acque, e pertanto non vi può essere ricompresa l’obbligazione di realizzazione di una pavimentazione nell’area cortiliva del fondo superiore.

Nel caso di specie, dunque, l’iter argomentativo del giudice del merito è ineccepibile, per cui la censura dei ricorrente viene a concretare, in sostanza, una diversa qualificazione della fattispecie, inammissibile in sede di legittimità.

Nè deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui all’art. 2051 c.c. il ricorrente coglie nel segno, per cui la Corte del merito avrebbe dovuto ordinare la realizzazione della pavimentazione del c.d. buco, con condanna della convenuta al risarcimento dei danni.

Anche sotto detto profilo l’impugnazione non può trovare accoglimento, poichè, in ipotesi di alterazioni compiute su bene ad opera del titolare del diritto di proprietà per configurare ipotesi di responsabilità aquiliana è sì sufficiente un nesso eziologico tra evento danno e anomalia della cosa, sia questa originaria e naturale oppure sopravvenuta e ad opera dell’uomo, ma nel caso di proprietario del fondo superiore rispetto al fondo a valle occorre pur sempre la esecuzione di opere ovvero la realizzazione di attività di impianto che comportino un incremento dello scolo naturale (v. in tal senso, Cass. 4 giugno 2004 n. 10649).

Nella specie proprio il compimento di detta attività è rimasta affatto priva di riscontro probatorio e pertanto il rimedio accordato al M. non può certamente essere l’azione aquiliana, nella forma della responsabilità aggravata da cosa in custodia. La norma dell’art. 2051 c.c., infatti, nel riconosce la suddetta tutela (da ricondursi al naturale dinamismo della cosa) in ipotesi di condotta meramente omissiva richiede la presenza di uno specifico obbligo giuridico di impedire l’evento, che nella specie viene ad essere conformato dall’art. 913 c.c.. Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto, nel caso in esame si è al di fuori dell’azione ex art. 2051 c.c..

Per tutte le considerazioni sopra svolte, il ricorso deve essere respinto.

Al rigetto consegue, come per legge, la condanna del ricorrente al pagamento in favore della resistente delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2A Sezione Civile, il 8 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2011

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