Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13087 del 14/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 14/05/2021, (ud. 14/07/2020, dep. 14/05/2021), n.13087

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2074/2014 proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore p.t., rappresentata e

difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici, in

Roma, in via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro

L.S., in proprio e quale Sovrintendente pro tempore della

Fondazione Teatro alla Scala di Milano, rappresentato e difeso dagli

Avv.ti Matteo Masoni e Francesco Brizzi ed elettivamente domiciliato

presso il loro studio, in Roma, piazza dei Caprettari, n. 70;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 97/18/13 della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, depositata l’11 settembre 2013 e non

notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 luglio

2020 dal consigliere Andreina Giudicepietro.

 

Fatto

RILEVATO

che:

l’Agenzia delle Entrate ricorre con un umico motivo di ricorso avverso la Fondazione Teatro alla Scala di Milano ed il Sovrintendente L.S. per la cassazione della sentenza n. 97/18/13 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata l’11 settembre 2013 e non notificata che, in controversia relativa all’impugnazione dell’atto di contestazione e di irrogazione delle sanzioni, che conteneva una sanzione amministrativa pecuniaria per violazione del D.L. n. 79 del 1997, art. 6, comma 1, ha rigettato l’appello dell’Ufficio, confermando la sentenza di primo grado della Commissione tributaria provinciale di Milano;

la C.t.r. della Lombardia in via preliminare ha respinto la contestazione dell’Ufficio circa l’inammissibilità del ricorso introduttivo proposto dalla Fondazione per carenza di poteri rappresentativi del Sovrintendente, ritenendo il contrario, sulla base della documentazione depositata dall’appellata e della delib. del Consiglio di Amministrazione della Fondazione 14 dicembre 2009, n. 139;

in seguito, la C.t.r. ha preso in esame la censura sollevata dalla Fondazione, relativa alla carenza di interesse al presente appello per omessa impugnazione della sentenza che già aveva deciso sul provvedimento di accertamento della Guardia di Finanza del 17 marzo 2010, dal quale scaturiva anche l’atto di irrogazione della sanzione oggetto di impugnazione;

secondo i giudici di appello, la censura era fondata, in quanto si era in presenza di più provvedimenti sanzionatori, notificati a soggetti diversi ma del medesimo contenuto e tutti originati dallo stesso verbale di accertamento;

il fatto che il Tribunale di Milano, con sentenza passata in giudicato, avesse già accertato la violazione del precetto di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 14, di necessaria correlazione tra fatto contestato e fatto assunto a base della sanzione irrogata, non poteva che fare stato anche per gli altri provvedimenti sanzionatori collegati al medesimo verbale di accertamento e, in particolare, per quello oggetto di esame;

a seguito del ricorso, il sig. L.S. e la Fondazione Teatro alla Scala di Milano resistono con controricorso;

il ricorso é stato fissato per la Camera di Consiglio del 14 luglio 2020;

i controricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con l’unico motivo, la ricorrente denunzia la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, anche con riferimento all’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

secondo la ricorrente la C.t.r. erroneamente non ha accolto il motivo di appello inerente al difetto di giurisdizione, di fatto riconoscendo implicitamente la propria giurisdizione;

la sanzione irrogata con l’atto di contestazione impugnato, infatti, non rientrerebbe nella giurisdizione del giudice tributario;

secondo quanto affermato dalla ricorrente, l’interpretazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, conduce all’esclusione della giurisdizione del giudice tributario in merito alle controversie aventi per oggetto l’irrogazione delle sanzioni previste dal D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, per omessa registrazione del lavoratore dipendente nelle scritture obbligatorie;

nel caso di specie, ove si disquisisce di atti di irrogazione di sanzioni amministrative del D.L. n. 79 del 1997, ex art. 6, comma 1, non vi sarebbe una controversia avente ad oggetto i tributi di ogni genere e specie;

in conclusione, quindi, la ricorrente chiede la cassazione della sentenza impugnata perché pronunciata da giudici privi di giurisdizione che, erroneamente, hanno riconosciuto la propria giurisdizione senza pronunciarsi sullo specifico motivo di appello dell’Agenzia;

il motivo é fondato e va accolto;

preliminarmente, deve rilevarsi che “l’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “é rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 c.p.c. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito “per saltum”, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito. (Nella specie, le Sezioni Unite hanno giudicato inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità dalla parte che, soccombente nel merito in primo grado, aveva appellato la sentenza del giudice tributario senza formulare alcuna eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 329, c.p.c., comma 2)” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24883 del 09/10/2008);

nel caso di specie, l’Agenzia delle entrate, a seguito della sentenza di primo grado sfavorevole, ha proposto appello, rilevando preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice adito;

tale eccezione, implicitamente disattesa dalla C.t.r., che ha rigettato nel merito l’appello dell’Ufficio, ha impedito che sulla giurisdizione si formasse un giudicato implicito, preclusivo del suo successivo rilievo in sede di legittimità, che risulta, quindi, ammissibile;

per quanto riguarda la sussistenza di un giudicato esterno, che renderebbe inutile la decisione sulla giurisdizione, vincolando l’esito dell’eventuale successivo giudizio di merito ad una pronuncia di rigetto, essa deve essere esclusa nel caso di specie;

invero, si ha giudicato esterno quando due giudizi tra le stesse parti abbiano ad oggetto un medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato;

nel caso di specie, non vi é identità di parti con il giudizio di impugnazione dei diversi provvedimenti sanzionatori, emanati sulla base dello stesso p.v.c. nei confronti di altri soggetti e decisi con la sentenza del Tribunale di Milano, passata in giudicato, che ha accertato la violazione del precetto di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 14, di necessaria correlazione tra fatto contestato e fatto assunto a base della sanzione irrogata;

tale sentenza (che, comunque, non risulta prodotta agli atti, ma meramente menzionata nel provvedimento del giudice di appello) non può avere efficacia vincolante in questa sede, attesa la diversità delle parti e del fatto oggetto del presente procedimento (impugnazione di un autonomo provvedimento sanzionatorio);

passando all’esame del motivo di ricorso sul difetto di giurisdizione, le Sezioni Unite di questa Corte hanno più volte affrontato il problema della giurisdizione sulle controversie relative a tutte le sanzioni irrogate da uffici finanziari, affermando che, quando conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura fiscale, deve escludersi la giurisdizione del giudice tributario;

invero, é stato detto che “a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 130 del 2008, con la quale é stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2 (come sostituito dalla L. n. 448 del 2001, art. 12, comma 2), nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative a tutte le sanzioni irrogate da uffici finanziari, anche quando conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura fiscale, deve escludersi la giurisdizione del giudice tributario in ordine alle controversie aventi ad oggetto l’irrogazione delle sanzioni previste dal D.L. 22 febbraio 2002, n. 12, art. 3, comma 3, per omessa registrazione del lavoratore dipendente nelle scritture obbligatorie, con la conseguente devoluzione di tali controversie alla giurisdizione ordinaria” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 15846 del 07/07/2009);

é stato ulteriormente chiarito che “l’opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione emessa dall’Agenzia delle entrate a carico del privato che abbia conferito un incarico retribuito a un dipendente pubblico in violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella del giudice tributario, poiché la sanzione, anche se irrogata da un ufficio finanziario, inerisce al rapporto di pubblico impiego e non ad un rapporto tributario” (Cass. Sez. U., Ordinanza n. 11709 del 08/06/2016);

più di recente, nel solco delle precedenti pronunce, le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che ” l’illecito amministrativo consistente nel conferimento di incarichi retribuiti a dipendenti pubblici, in violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9, non é di natura fiscale-tributaria-finanziaria, ma é riconducibile alla disciplina del pubblico impiego contrattualizzato; ne consegue che il secondo periodo del predetto comma – ove é previsto che “all’accertamento delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, avvalendosi della Guardia di Finanza, secondo le disposizioni della L. 24 novembre 1981, n. 689″ deve essere interpretato nel senso che il legislatore non ha previsto alcuna esclusiva attribuzione di competenza, ma ha soltanto stabilito che, quando gli accertamenti degli illeciti ivi sanzionati sono disposti su impulso del Ministero delle Finanze, vi debba provvedere, per evidenti ragioni di celerità, la Guardia di Finanza, ovvero il corpo dipendente direttamente da detto Ministero, senza tuttavia escludere che possano comunque provvedervi gli altri soggetti appartenenti alla Polizia giudiziaria” (Cass. S.U. n. 28210/2019);

alla luce dei suddetti principi, attesa la natura non tributaria della sanzione irrogata nel caso di specie con il provvedimento impugnato per la violazione del D.L. n. 79 del 1997, art. 6, il ricorso deve ritenersi fondato e va accolto, dovendosi ritenere sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, innanzi al quale vanno quindi rimesse le parti,

di conseguenza, la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3;

solo con la memoria, i controricorrenti eccepiscono la sopravvenuta carenza di interesse dell’Agenzia delle entrate al ricorso, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 98 del 5 giugno 2015, secondo cui “é costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 76 Cost., il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53, comma 15, nella parte in cui assoggetta gli enti pubblici economici e i privati che conferiscono incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, alla sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti, in caso di omessa comunicazione dell’ammontare dei compensi. La disciplina censurata non risulta riconducibile ai principi o criteri direttivi enunciati nelle leggi di delega succedutesi nel tempo, che non avevano autorizzato il legislatore delegato a prevedere sanzioni amministrative per l’inadempimento dell’obbligo di comunicazione dei compensi corrisposti. Inoltre, la censurata previsione finisce per risultare particolarmente vessatoria, atteso che la sanzione in esame si duplica rispetto a quella già prevista per il conferimento degli incarichi senza autorizzazione, con un effetto moltiplicativo raccordato ad un inadempimento di carattere formale. In tal modo, la sanzione per la violazione di un obbligo che appare del tutto “servente” rispetto a quello di comunicazione del conferimento di un incarico – previsto in funzione delle esigenze conoscitive della pubblica amministrazione – viene a sovrapporsi irragionevolmente – perequando fra loro situazioni del tutto differenziate, per gravità e natura – a quella prevista per la violazione di un obbligo di carattere sostanziale. Il che, fra l’altro, conferisce alla sanzione “accessoria” de qua un carattere di automatismo e di non graduabilità contrastante con i principi di proporzionalità ed adeguatezza che devono, in linea generale, essere osservati anche nella disciplina delle sanzioni amministrative”;

tale eccezione non appare fondata, poiché la dichiarazione d’illegittimità costituzionale travolge solo la sanzione irrogata per la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 15, e non quella irrogata nel caso in esame (la sanzione accessoria prevista dal D.L. n. 79 del 1997, art. 6);

la particolarità della fattispecie, in cui non é contestato che la stessa amministrazione finanziaria abbia indicato il giudice tributario per l’impugnazione del provvedimento sanzionatorio, giustifica la compensazione integrale delle spese di lite.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa senza rinvio la sentenza impugnata, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, innanzi al quale rimette le parti, compensando integralmente le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2021

 

 

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