Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13069 del 10/06/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 13069 Anno 2014
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 17223-2010 proposto da:
FEDI BRUNO, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO
VITTORIO EMANUELE II 326, presso lo studio degli
avvocati SCOGNAMIGLIO RENATO, SCOGNAMIGLIO CLAUDIO
che lo rappresentano e difendono, giusta delega in
atti;
– ricorrente –

2014
1114

contro

AZIENDA OSPEDALIERA SANTA MARIA DI TERNI C.F.
00679270553, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

Data pubblicazione: 10/06/2014

NOMENTANA 323, presso lo studio dell’avvocato CALDARA
GIAN ROBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato
ZINGARELLI LUIGI, giusta delega in atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 737/2009 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 27/03/2014 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
udito l’Avvocato SANGERMANO FRANCESCO per delega
SCOGNAMIGLIO RENATO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. FRANCESCA CERONI che ha concluso per
il rigetto del rícorn_

di PERUGIA, depositata il 21/01/2010 R.G.N. 405/2007;

„..

R.G. 17223/2010
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

kg

Con ricorso depositato il 30-12-2003 il prof. Bruno Fedi esponeva di aver
lavorato alle dipendenze dell’Ospedale “Santa Maria” di Temi, come

quando si era dimesso per giusta causa, e di aver subito dall’Ospedale prima e
dall’Azienda Ospedaliera poi, dal 1995, una serie di comportamenti che
avevano determinato la sua emarginazione professionale e gli avevano causato
un grave stato depressivo con necessità di cure specialistiche, oltre a un danno
economico, rappresentato dall’impossibilità di accedere alla ripartizione delle
compartecipazioni e delle incentivazioni collegate alla produttività e di
esercitare l’attività libero-professionale intra moenia.
In particolare il ricorrente deduceva che, a seguito dell’istituzione a Temi
dell’Istituto universitario di anatomia patologica, dell’Università di Perugia, il
servizio ospedaliero del quale era responsabile era stato progressivamente
svuotato, di attrezzature e di personale, con conseguente rilevante
depauperamento del suo ruolo, e che l’amministrazione lo aveva di fatto
emarginato, anche ostacolando la sua attività professionale intra moenia. Il
ricorrente lamentava inoltre che, a causa dei fumi tossici dell’inceneritore su
cui affacciava il suo studio, egli aveva contratto una broncopatia, per la quale
gli era stata riconosciuta la causa di servizio.
Il prof. Fedi chiedeva quindi la condanna dell’Azienda Ospedaliera al
risarcimento dei danni non patrimoniali e patrimoniali indicati.
La convenuta si costituiva eccependo in primo luogo la nullità del ricorso
e il difetto di legittimazione passiva, deducendo che i comportamenti lamentati

responsabile del servizio di anatomia patologica, dal 1-6-1970 al 1-11-2000,

dall’attore erano stati in gran parte posti in essere dall’Ospedale “Santa Maria”,
per cui degli stessi per legge non poteva rispondere essa Azienda Ospedaliera.
All’udienza del 14-4-2004 la difesa del ricorrente precisava che la
richiesta di risarcimento si riferiva unicamente ai comportamenti tenuti, dal

Il Giudice del Tribunale di Temi, con sentenza n. 115/2007, respingeva la
domanda.
Il prof. Fedi proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la
riforma con l’accoglimento della domanda.
L’Azienda Ospedaliera appellata si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza depositata il 21-1-2010,
respingeva l’appello.
In sintesi la Corte di merito, preso atto della delimitazione della domanda
al solo periodo (dal 1995) riguardante l’Azienda Ospedaliera, non rispondendo
la stessa per legge per il periodo pregresso, respingeva l’eccezione di nullità
del ricorso e rilevava che il Fedi non aveva fornito la prova dei fatti posti a
fondamento della domanda stessa.
In particolare la Corte territoriale rilevava che l’atteggiamento
dell’ospedale, dimostrato dai numerosi procedimenti disciplinari fra il 1973 e il
1983, contestuale alla nascita della struttura universitaria e alla
“marginalizzazione” del Servizio ospedaliero di anatomia patologica,
riguardava il periodo pregresso ed in effetti costituiva, al momento della
instaurazione del rapporto fra le parti, “una realtà ormai consolidata”, a fronte
della quale il Fedi, seppure rappresentò all’Azienda i problemi derivanti
dall’esistenza delle due strutture tanto da essere invitato a rapportarsi
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1995, dalla Azienda Ospedaliera.

direttamente, ed in condizioni di parità, con il direttore dell’istituto
universitario, neppure aveva allegato di essersi adoperato al riguardo.
In base, poi, alle risultanze testimoniali, secondo la Corte “non poteva
considerarsi vessatorio o dettato dall’intento di marginalizzare il ricorrente il

destinata all’Istituto, anziché al Servizio” allo stesso rivolgendosi i singoli
medici con maggior frequenza. Né al riguardo assumevano rilevanza le
circostanze della mancata indicazione del Servizio nelle tabelle segnaletiche
dell’Ospedale e nella Carta dei servizi e del mancato accoglimento della
proposta di istituzione di un centro di bioetica.
In sostanza la Corte affermava che non poteva addebitarsi alla convenuta
alcuna condotta colpevole verso il prof. Fedi, con riguardo alla ridotta
utilizzazione del Servizio da lui diretto, né sotto il profilo della
dequalificazione professionale, né, tanto meno, sotto il profilo dell’asserito

mobbing, l’una e l’altro rimasti non dimostrati.
Neppure, poi, secondo la Corte vi fu alcun comportamento illegittimo da
parte dell’Azienda in merito allo svolgimento dell’attività libero professionale
del Fedi intra moenia, giacché dalle risultanze testimoniali era emerso che tale
svolgimento era legittimamente limitato all’ambito della relativa specialità del
Fedi stesso.
Inoltre, sulla domanda di risarcimento dei danni alla salute, in particolare
per la vicinanza dell’inceneritore (peraltro già esistente da decenni e poi
collocato in posizione più lontana in epoca non precisata) la Corte di merito
rilevava che comunque il ricorrente non aveva indicato il tipo di patologia da

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fatto che nel corso degli anni, la maggior parte delle risorse disponibili fosse

cui era affetto, né aveva precisato quali sostanze l’avrebbero causata ed in
quale epoca.
Infine la Corte territoriale respingeva l’istanza di cancellazione di alcune
frasi, contenute nella memoria della resistente depositata il 19-10-2006,

Per la cassazione di tale sentenza il Fedi ha proposto ricorso con tre
motivi.
L’Azienda Ospedaliera “Santa Maria” ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Tutti e tre i motivi, a ben vedere, sono in gran parte inammissibili e per il
resto risultano infondati.
Innanzitutto difetta di chiarezza la contestuale formulazione di motivi
aventi ad oggetto nel contempo violazioni di legge e vizi di motivazione, senza
che si siano specificate le relative doglianze, così in sostanza affidandosi a
questa Corte di cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi
la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una
autonoma collocazione, al pari di quella riguardante la violazione di legge (v.
Cass. 11-4-2008 n. 9470, Cass. 23-7-2008 n. 20355, Cass. 20-9-2013 n.
21611).
In particolare, poi, “il vizio della violazione e falsa applicazione della
legge di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di
cui all’art. 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., deve essere, a pena
d’inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto
asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle
affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente
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avanzata dal Fedi ex art. 89 c.p.c.

si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla
prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione
comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla

della denunziata violazione.” (v. Cass. 26-6-2013 n. 16038, Cass. 28-2-2012 n.
3010, Cass. 8-11-2005 n. 21659, Cass. 2-8-2005 n. 16132). D’altra parte, “la
motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal
ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata,
emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una
diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel
complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto,
sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando,
invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte
ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati,
risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di
revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa
all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla
natura ed ai fini del giudizio di cassazione.” (v. , per tutte, Cass. S.U. 25-102013 n. 24148).
Del resto, come è stato ripetutamente affermato da questa Corte “il
controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma
primo, n. 5) cod. proc. civ., non equivale alla revisione del “ragionamento
decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una
determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile
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S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento

revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe
sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione
assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del
tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte

l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Né,
ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è
demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di
merito, se – confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie – prendesse
d’ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a
quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione,
accogliendo il ricorso “sub specie” di omesso esame di un punto decisivo. Del
resto, il citato art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ. non conferisce alla
Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma
solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza
giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale
soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito,
valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra
le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in
discussione.” (v. Cass. 6-3-2006 n. 4766, cfr. fra le altre Cass. 28-3-2012 n.
5024, Cass. 7-1-2014 n. 91).
Tanto premesso, riguardo al primo motivo, va rilevato che il Fedi critica la
decisione della Corte territoriale definendo “inconsistenti” ed “insostenibili” le
argomentazioni svolte dai giudici di merito e ribadendo la propria valutazione
delle risultanze istruttorie, invocando in particolare vari elementi di fatto, a ben
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di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso

vedere tutti già attentamente valutati, con congrua motivazione, dalla Corte di
merito.
In particolare la Corte territoriale ha rilevato:
che “al momento dell’instaurazione del rapporto fra le parti, la situazione

del Servizio di anatomia patologica rispetto all’omologo Istituto universitario
si era già da tempo consumata”;
che, con riferimento al periodo che interessa, a seguito delle proteste del
Fedi, l’Azienda fece presente che il ricorso all’Istituto piuttosto che al Servizio
“dipendeva da scelte discrezionali dei singoli sanitari” “insindacabili
dall’Azienda”, per cui aveva invitato il Fedi a “rapportarsi con il direttore
dell’istituto”;
che il Fedi “aveva pieno titolo per trattare in una condizione di parità con
il direttore dell’Istituto universitario” circa “i criteri di assegnazione del lavoro
alle strutture di rispettiva competenza”, cosa che non fece (peraltro senza
neppure chiedere ai vertici aziendali di “affiancarlo nella trattativa”);
che seppure il teste Donzelli avesse riferito di “una disposizione che
imponeva ai medici dell’Ospedale di consegnare i reperti all’università”, di tale
ordine non era stata specificata neppure la provenienza e non era emersa traccia
alcuna “tra la pur copiosa documentazione prodotta dal ricorrente”:
che nessuna rilevanza poteva assumere il fatto che il nome del Fedi “non
fosse indicato nelle tabelle segnaletiche dell’Ospedale”, non essendo l’attività
dello stesso “diretta al pubblico”, bensì soltanto ai sanitari che ben “ne
conoscevano l’ubicazione”, ed essendo peraltro risultato che la segnaletica “di
tutti i reparti era incompleta”;
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lamentata dal Fedi era una realtà ormai consolidata, e che la marginalizzazione

che parimenti irrilevante era il fatto che la Carta dei servizi dell’Azienda
ospedaliera, non contenesse notizie circa il Servizio diretto dal Fedi, giacché
era emerso che quest’ultimo, al pari degli altri dirigenti sollecitato per la
stesura della detta Carta, non fornì alcun riscontro né alcuna notizia sul suo

neppure sollevò alcuna obiezione o lamentela;
che, in effetti, in un ospedale come quello di Temi, la presenza di due
strutture di anatomia patologica era oggettivamente sovrabbondante, di guisa
che “quella più efficiente e ben organizzata, ossia quella universitaria, finì con
lo sbrigare la gran parte del lavoro”, per cui, dopo il collocamento in
quiescenza del Fedi, il Servizio fu soppresso;
che, pertanto, non poteva addebitarsi alla appellata “alcun comportamento
colpevole verso il prof. Fedi, con riguardo alla ridotta utilizzazione del Servizio
da lui diretto, né sotto il profilo della dequalificazione professionale, né, tanto
meno, sotto il profilo del mobbing”.
Tali accertamenti di fatto risultano congruamente motivati e resistono alla
censura del ricorrente.
Parimenti, con riguardo al secondo motivo (concernente gli asseriti
ostacoli frapposti allo svolgimento dell’attività professionale intra moenia), va
rilevato che la Corte di merito, dopo aver attentamente esaminato tutte le
risultanze testimoniali (ed in specie anche quelle invocate dal ricorrente), ha
affermato che gli episodi emersi dimostravano soltanto che, in ossequio ad un
delibera che “consentiva ai medici dell’Azienda lo svolgimento dell’attività
libero-professionale solo nell’ambito della specialità per cui erano stati
assunti”, il Fedi legittimamente “non era autorizzato a eseguire interventi che
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servizio e, dopo la stesura della relativa bozza, in sede di una apposita riunione,

presupponevano una specializzazione in ginecologia o in chirurgia, e che, ciò
nonostante, in talune occasioni egli arbitrariamente rese prestazioni in quei
campi”.
Anche tale accertamento, congruamente motivato, resiste quindi alla

revisione del “ragionamento decisorio”.
Del pari con riferimento al terzo motivo (concernente il preteso
risarcimento del danno alla salute, arrecato dall’inceneritore, peraltro già
esistente “da decenni” e “in seguito, in epoca non esattamente individuata,
collocato in un’altra posizione”), osserva il Collegio che la Corte territoriale,
dopo aver esaminato i documenti relativi all’accoglimento dell’istanza di
riconoscimento della dipendenza da causa di sevizio delle infermità denunciate,
“non specificate”, e della richiesta di parere relativa all’equo indennizzo, ha
rilevato che “il ricorrente non ha indicato il tipo di patologia da cui è affetto, né
ha precisato quali sostanze, in ipotesi prodotte dall’inceneritore nel processo di
combustione, l’avrebbero causata”, per cui difettando l’allegazione e la prova
circa i fatti costitutivi del preteso diritto la domanda non poteva che essere
rigettata.
A fronte di tale chiara decisione, sorretta da congrua motivazione, il
ricorrente, nel ribadire non solo la presenza dell’inceneritore nel 2000 bensì
anche la sussistenza del danno alla salute, richiama i documenti già esaminati
dalla Corte di merito nonché la perizia del dott. Di Fulvio (asseritamente
“trascritta a pag. 95 ss. del ricorso in appello”), senza però riportare, in ricorso,
neppure nelle parti salienti, il contenuto di tali atti, in palese violazione del
principio di autosufficienza del ricorso stesso (sulla necessità della trascrizione
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censura del ricorrente, che, in effetti, si limita a sollecitare una inammissibile

del documento asseritamente trascurato od erroneamente interpretato dal
giudice di merito, al fine del controllo di decisività, che, per il principio di
autosufficienza del ricorso, questa Corte deve essere in grado di compiere sulla
base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito

Cass. 31-7-2012 n. 13677, Cass. 3-1-2014 n. 48).
Il ricorso va pertanto respinto e, in ragione della soccombenza, il
ricorrente va condannato al pagamento delle spese in favore della
controricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare alla
controricorrente le spese liquidate in euro 100,00 per esborsi e 3.000,00 per
compensi, oltre accessori di legge.
Roma 27 marzo 2014

sopperire con indagini integrative, v. fra le altre Cass. 30-7-2010 n. 17915,

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