Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13065 del 10/06/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 13065 Anno 2014
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 26783-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2014
contro

1004

RENZETTI ROSELLA, già elettivamente domiciliata in
v

k

ROMA, VIA TIBULLO 10, presso lo studio dell’avvocato
MAROCCO

DOMENICO,

rappresentata

e

difesa

Data pubblicazione: 10/06/2014

dall’avvocato GIOVAGNONI FABRIZIO, giusta delega in
atti e da ultimo domiciliata presso LA CANCELLERIA
DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 753/2007 della CORTE D’APPELLO

1097/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 20/03/2014 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega PESSI
ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO CELENTANO che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso, in subordine rigetto.

di PERUGIA, depositata il 06/11/2007 R.G.N.

R.G. 26783/2008
FATTO E DIRITTO
Con sentenza n. 837 del 2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di

A

Perugia, in accoglimento della domanda proposta da Rosella Renzetti nei

contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 1-4-1999 al 31-5-1999, per
“esigenze eccezionali” ex art. 8 ccnl 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e
succ., con la conseguente instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato e
condannava la società alla riammissione in servizio della lavoratrice e al
risarcimento del danno in suo favore, commisurato alle retribuzioni globali di
fatto maturate dalla messa in mora dell’11-7-2003.
La società proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la
riforma con il rigetto della domanda.
La lavoratrice si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte di Perugia, con sentenza depositata il 6-11-2007, respingeva
l’appello.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con due
motivi.
La Renzetti ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno poi depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.
Ciò posto, va rilevato che con il primo motivo la società censura (sotto i
profili della violazione di legge e del vizio di motivazione) la sentenza
impugnata nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al
contratto de quo in quanto stipulato (per “esigenze eccezionali…”) oltre la

confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al

scadenza ultima fissata dagli accordi collettivi attuativi dell’acc. az. 25-9-1997
ed all’uopo sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura meramente
ricognitiva dei detti accordi.
Il motivo è infondato in base all’indirizzo ormai consolidato in materia

ceni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato
che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli
previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato
del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro
diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di
lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi
specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di
procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v.
anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste
dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale

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dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al

in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre,
Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia

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stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto

del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745,
Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e
come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti
postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8
del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo,
sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto dì riconoscere la
sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998;
ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo
derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962
n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450;
Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio va quindi respinto il primo motivo.
Con il secondo motivo, la ricorrente censura, poi, l’impugnata sentenza
nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo
consenso tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione di
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collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione

interesse alla funzionalità di fatto del rapporto, per un apprezzabile lasso di
tempo anteriore alla proposizione della domanda e la conseguente presunzione
di estinzione del rapporto stesso, con onere, in capo al lavoratore, di provare le
circostanze atte a contrastare tale presunzione.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle partì medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,
Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca
tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la
volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni
rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass.
1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).

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Anche tale censura non merita accoglimento

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente
ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei
comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara

rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e
neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al
riguardo, infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando
esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di una presupposta valutazione
sociale “tipica” (v. Cass. 6-7-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n.
14209), prescinde del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo
consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale, anche se
tacita.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, attenendosi a tali principi, ha
rilevato che “nel caso di specie, a sostegno della eccezione non è stata dedotta
alcuna circostanza di fatto rilevante, diversa dal mero decorso del tempo” e
d’altra parte la Renzetti “era iscritta in apposite liste, alle quali le Poste Italiane
continuavano ad attingere per l’assunzione di personale a tempo determinato”
per cui è ragionevole che la stessa “abbia confidato, per un certo lasso di
tempo, di essere chiamata per una nuova assunzione o per la definitiva
conversione del rapporto, prima di addivenire alla conclusione che ciò non
sarebbe più avvenuto e alla determinazione di intraprendere un’azione
giudiziaria”.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta
altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente, che
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manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del

peraltro in questa sede richiama gli ulteriori elementi della breve durata del
contratto a termine e della percezione del t.f.r., comunque entrambi privi di
decisività (il primo del tutto irrilevante e il secondo per nulla univoco).
In tali sensi, quindi, va respinto il ricorso e, non essendo stata, peraltro,

economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine
ed il capo relativo al risarcimento del danno, neppure potrebbe incidere in
qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall’art.
32, commi 5 0 , 60 e 7 0 della legge 4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24
novembre 2010.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di
principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di
legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in
qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso,
in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 272-2004 n. 4070).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Infine, in ragione della soccombenza, la società va condannata al
pagamento delle spese in favore della appellata.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla Renzetti le
spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00 per compensi oltre
accessori di legge.
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avanzata alcuna altra censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze

Roma 20 marzo 2014

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