Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13031 del 14/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 14/05/2021, (ud. 26/10/2020, dep. 14/05/2021), n.13031

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui riuniti ricorsi iscritti ai nn. 22290/2015 e 22311/2015 R.G.

proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

– ricorrente –

contro

British American Tobacco Italia s.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.

Alessandro Fusillo e Antonio Strizzi, con domicilio eletto presso lo

studio dell’avv. Duccio Casciani, sito in Roma, via dei Prefetti,

17;

– controricorrente –

avverso le sentenze della Commissione tributaria regionale del Lazio,

nn. 952/35/15 e 953/35/15, depositate entrambe il 18 febbraio 2012;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 ottobre 2020

dal Consigliere Paolo Catallozzi e, riconvocato il Collegio, in data

15 gennaio 2021;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale De Augustinis Umberto, che ha concluso chiedendo il rigetto

dei ricorsi;

uditi gli avv. Alfonso Peluso, per la ricorrente, e Alessandro

Fusillo, per la controricorrente

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 18 febbraio 2012, che, in accoglimento dell’appello proposto dalla British American Tobacco Italia s.p.a., già British American Tobacco Southern Europe s.p.a., società consolidante che aveva incorporato la consolidata British American Tobacco Italia s.p.a. e modificato la propria ragione sociale in quest’ultima denominazione, ha annullato l’avviso di accertamento con cui l’Ufficio, relativamente all’anno 2006, aveva rettificato la dichiarazione resa ai fini i.re.s..

2. Dall’esame della sentenza impugnata si evince che con tale atto impositivo era stata contestata l’indebita deduzione di costi, in quanto erroneamente qualificati quali spese di pubblicità, sostenuti per l’acquisto di scansie e attrezzature simili utilizzate per l’esposizione di sigarette presso le rivendite di tabacchi.

2.1. Il giudice di appello, dopo aver dato atto che la Commissione provinciale aveva respinto il ricorso, ha accolto il gravame della contribuente evidenziando che tali costi, privi del carattere della gratuità e direttamente correlati alla produzione di ricavi, non erano finalizzati ad accrescere il prestigio della società, ma ad assicurare maggiore visibilità al prodotto fabbricato e, in quanto tali, rientravano nel novero delle spese promozionali e non di rappresentanza.

3. Il ricorso è affidato a tre motivi.

4. Resiste con controricorso la British American Tobacco Italia s.p.a., la quale deposita, poi, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

5. Con distinto ricorso, dal contenuto sostanzialmente identico al precedente, l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso altra sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata in pari data e dal contenuto pressochè identico, che, in accoglimento dell’appello proposto dalla consolidata British American Tobacco Italia s.p.a., ha annullato l’avviso di accertamento con cui l’Ufficio aveva provveduto alla medesima contestazione

6. Resiste con controricorso la British American Tobacco Italia s.p.a., la quale deposita, poi, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., spiegando difese sostanzialmente identiche a quelle del precedente giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Occorre preliminarmente dare atto della riunione dei giudizi, disposta per ragioni di opportunità, avuto riguardo all’unicità dell’operazione economica oggetto degli atti impositivi impugnati e all’identità dell’oggetto deli atti impositivi impugnati, nonchè all’identità dei motivi di ricorso e delle difese delle parti.

1.1. Ciò posto, con il primo motivo l’Agenzia denuncia la violazione e falsa applicazione del Testo Unico 22 dicembre 1986, n. 917, art. 108, comma 2, artt. 1362 e ss. e 1803 e ss. c.c., D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 25, e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 4 per aver la sentenza impugnata ritenuto che i costi in oggetto fossero riconducibili a spese promozionali e non, invece, a spese di rappresentanza.

Evidenzia, in proposito, che, diversamente da quanto affermato dalla Commissione regionale, si era in presenza di spese effettuate a titolo gratuito e senza una diretta correlazione con i ricavi.

1.1. La controricorrente eccepisce l’inammissibilità del motivo di ricorso sotto il profilo della sua strumentalità ad ottenere un riesame degli elementi di fatto accertati dal giudice di appello.

1.2. L’eccezione è priva di pregio.

Con il motivo del ricorso principale la ricorrente non contesta la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, ma assume che tali fatti, così come individuati nella sentenza impugnata, determinerebbero l’applicazione della fattispecie astratta invocata, rappresentata dalla inclusione dei costi in oggetto tra le spese di rappresentanza.

Si è, dunque, in presenza di una doglianza che non investe la ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di merito, ma la individuazione che questi ha compiuto della norma applicata a quel fatto così come accertato, riconducibile all’ipotesi di falsa applicazione della legge, usualmente definita “vizio di sussunzione”.

Fa, infatti, parte del sindacato di legittimità secondo il paradigma della “falsa applicazione di norme di diritto” il controllare se la fattispecie concreta (assunta così come ricostruita dal giudice di merito e, dunque, senza che si debba procedere ad una valutazione diretta a verificarne l’esattezza e meno che mai ad una diversa valutazione e ricostruzione o apprezzamento ricostruttivo), è stata ricondotta a ragione o a torto alla fattispecie giuridica astratta individuata dal giudice di merito come idonea a dettarne la disciplina oppure al contrario doveva essere ricondotta ad altra fattispecie giuridica oppure ancora era irriconducibile ad una fattispecie giuridica astratta, sì da non rilevare in iure, oppure ancora non è stata erroneamente ricondotta ad una certa fattispecie giuridica cui invece doveva esserlo, essendosi il giudice di merito rifiutato expressis verbis di farlo (così, Cass. 31 maggio 2018, n. 13747).

Non è, quindi, affatto precluso al giudice di legittimità stabilire se il giudice di merito abbia correttamente sussunto sotto l’appropriata previsione normativa i fatti da lui accertati – ferma restando l’insindacabilità di questi ultimi e l’impossibilità di ricostruirli in modo diverso – e l’errore eventualmente commesso non è un errore di accertamento, ma un errore di giudizio, consistente nello scegliere in modo non corretto quella, tra le tante norme dell’ordinamento, della quale deve farsi applicazione al caso concreto (cfr. Cass., ord. 18 gennaio 2018, n. 1106).

1.3. Nel merito, il motivo è fondato.

Si osserva che il T.U. n. 917 del 1986, art. 108, comma 2, nella formulazione applicabile ai fatti di causa ratione temporis (e, dunque, anteriore a quella risultante dall’entrata in vigore della L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 33, lett. p), distingue, tra le spese pluriennali, le spese di pubblicità e di propaganda, delle quali ammette la deduzione nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi, dalle spese di rappresentanza, la cui deduzione è ammessa solo nella misura di un terzo del loro ammontare e, per quote costanti, nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi.

E’ principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello per cui costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti e servizi dell’impresa (cfr., da ultimo, Cass. 1 marzo 2019, n. 6092; Cass., ord., 23 gennaio 2019, n. 1795; Cass., ord., 10 ottobre 2018, n. 25021).

Il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va, dunque, individuato negli obiettivi perseguiti, atteso che le prime sono sostenute per accrescere il prestigio della impresa senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, se non in via mediata e indiretta attraverso il conseguente aumento della sua notorietà e immagine, mentre le seconde hanno una diretta finalità promozionale di prodotti e servizi commercializzati, mediante l’informazione ai consumatori circa l’esistenza di tali beni e servizi, unitamente all’evidenziazione e all’esaltazione delle loro caratteristiche e dell’idoneità a soddisfarne i bisogni, e di incremento delle vendite.

1.4. L’accertamento delle spese di pubblicità postula, dunque, l’esistenza di un collegamento obiettivo ed immediato tra la promozione di un prodotto o di una produzione e l’aspettativa diretta di un maggior ricavo.

Siffatto collegamento è stato ritenuto insussistente in caso di costi sostenuti per la cessione gratuita a v.i.p. dei capi d’abbigliamento grillati di produzione del contribuente, avuto riguardo all’assenza di alcun obbligo giuridico d’indossarli in manifestazioni pubbliche e di un “ficcante” messaggio che rendesse immediato per il grande pubblico il diretto riferimento del capo alla griffe (Cass. 4 maggio 2018, n. 10636; Cass. 22 maggio 2016, n. 8121).

E’ stato affermato che la spesa pubblicitaria deve essere riferita alla trasmissione di un messaggio destinato a informare il pubblico della esistenza e della qualità di un prodotto o di un servizio, allo scopo di incrementare le vendite, mentre non può risolversi in una spesa idonea ad incidere solo sull’immagine dell’impresa, in relazione all’esaltazione di aspetti attinenti al suo decoro e alla sua importanza (cfr. Cass. 23 maggio 2018, n. 12676, in relazione al costo per monopattini offerti in omaggio ai clienti in occasione delle vendite).

In alcuni casi, la qualità dei soggetti beneficiari della spesa è stata ritenuta espressiva di una relazione diretta tra quest’ultima e i ricavi dell’impresa e, conseguentemente, è stata riconosciuta la natura di spese pubblicitarie alle spese di ospitalità per la stampa specializzata e le personalità invitate a presenziare ad eventi organizzati da soggetti operanti nel settore della moda, avuto riguardo alla strumentalità della sensibilizzazione mediatica rispetto alla riuscita delle iniziative e all’incremento delle vendite (cfr. Cass., ord., 23 gennaio 2019, n. 1795; Cass. 2016, n. 8851), e, più in generale, ai costi di partecipazione alle fiere, in quanto aventi una finalità diretta di incremento delle vendite (Cass., ord., 20 giugno 2018, n. 16223).

1.5. In coerenza con un autorevole tesi dottrinaria è stata attribuita rilevanza all’inserimento della spesa nell’ambito di un rapporto contrattuale oneroso, quale corrispettivo di una prestazione ricevuta, nel senso di ritenere la sussistenza di una presunzione assoluta che una spesa avente carattere di gratuità vada qualificata come spese di rappresentanza (cfr. Cass. 27 maggio 2015, n. 10910).

1.6. Con riferimento, poi, alle spese derivanti da contratti di sponsorizzazione, in quanto idonee al più ad accrescere il prestigio dell’impresa vanno ritenute spese di rappresentanza deducibili ove il contribuente non provi che all’attività sponsorizzata sia riconducibile una diretta aspettativa di ritorno commerciale (cfr. Cass., ord., 10 ottobre 2018, n. 25021; Cass. 28 ottobre 2015, n. 21977; Cass. 30 dicembre 2014, n. 27482).

In proposito, tuttavia, è stata negata l’esistenza del collegamento tra la spesa e la diretta aspettativa di incremento delle vendite in un caso di accertata distanza merceologica tra i prodotti e servizi commercializzati dallo sponsee e quelli commercializzati dallo sponsor ed è stato ritenuto che, in tale caso, era preminente la finalità di far crescere l’immagine ed il prestigio del soggetto sponsorizzato e che la finalità di incremento dei ricavi e degli utili era perseguita solo in via solo mediata ed indiretta (cfr. Cass., ord., 24 gennaio 2019, n. 1922).

1.7. Ciò posto, si osserva che la Commissione regionale ha ritenuto che le spese sostenute dalla contribuente per l’acquisto di scansie cedute in comodato ai rivenditori di tabacchi costituissero spese di pubblicità in considerazione, da un lato, dell’esistenza degli obblighi, gravanti sul comodatario, di rispettare la destinazione d’uso impressa ai beni, di assicurare la loro collocazione all’interno dei locali in coerenza con le previsioni contrattuali e di custodirli con diligenza, e, dall’altro, della inidoneità di tali spese ad accrescere il prestigio della società contribuente, atteso che il cliente non è messo nelle condizioni di conoscere il nome del fornitore degli espositori e l’iniziativa è diretta all’incremento della vendita delle sigarette, in quanto ne permette una migliore conservazione e/o visibilità.

Così facendo, tuttavia, il giudice di appello non ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi.

Infatti, si osserva, in primo luogo, che la ritenuta assenza del requisito della gratuità dei rapporti contrattuali che legavano la contribuente con i vari rivenditori di tabacchi non assume carattere decisivo ai fini della qualificazione delle spese dedotte, non sussistendo una presunzione assoluta che fa discendere dall’onerosità del rapporto l’esistenza di un collegamento obiettivo ed immediato tra le stesse e l’aspettativa diretta di un maggior ricavo.

In ogni caso, la Commissione regionale ha erroneamente ritenuto che gli obblighi di condotta gravanti sui rivenditori, individuati nel divieto di “modificare la destinazione d’uso dei beni e di spostarli ad altra sede” e nell’obbligo di “conservarli e custodirli con la dovuta diligenza” e di “restituzione alla scadenza” fossero espressivo del carattere oneroso di tali rapporti contrattuali.

Tali obblighi, infatti, costituiscono obbligazioni tipiche del contratto di comodato e non si pongono in rapporto sinallgmatico con la concessione in godimento del bene, costituendo, piuttosto, limiti al godimento della cosa.

1.8. Del pari, non decisiva si presenta la circostanza, valorizzata dal giudice di appello, relativa all’assenza dagli espositori di marchi di impresa della contribuente o, comunque, di altri elementi idonei a comunicare al pubblico l’identità del soggetto che aveva provveduto alla fornitura degli stessi.

Anzi, una siffatta circostanza costituisce un indizio che depone in senso contrario all’esistenza del necessario collegamento funzionale, nei sensi riferiti in precedenza, tra le stesse e l’aspettativa diretta di un maggior ricavo, in quanto proprio la presenza di elementi (segni distintivi o altro) che consentono al pubblico di associare i beni posti in vendita con l’impresa venditrice garantisce una maggiore visibilità ai prodotti commercializzati e, per tale via, consente il soddisfacimento di una finalità promozionale (come desumibile dal contenuto del parere del Comitato consultivo norma antielusive n. 6 del 27 gennaio 2007, richiamato nella pronuncia di appello).

Non può accedersi alla tesi del giudice di appello secondo cui una siffatta finalità sarebbe assicurata, anche in assenza di siffatti elementi, attraverso l’esposizione di “prodotti fumo” destinati alla vendita all’interno delle scansie fornite, essendo necessario il previo un accertamento in ordine al fatto che solo i prodotti della contribuente erano ivi esposti.

Non è, infatti, sufficiente affermare che l’idoneità della spesa per le scansie e gli espositori a generare un incremento delle vendite di un determinato settore merceologico, anche se coincidente con quello in cui si collocano i prodotti commercializzati dal soggetto che sostiene la spesa, venendo in rilievo, in quest’ultimo caso, un collegamento solo indiretto tra la spesa e l’incremento delle vendite.

1.9. Sotto altro profilo, si osserva che, ai fini della riconducibilità di una spesa tra quelle di pubblicità, non è sufficiente che la stessa non sia qualificabile quale spesa di rappresentanza, ma è necessario che sia direttamente strumentale all’incremento delle vendite di specifici prodotti dalla stessa commercializzati.

1.10. Da ultimo, si evidenzia che, ai sensi del D.L. 10 gennaio 1983, n. 4, art. 8, conv., con modif., nella L. 22 febbraio 1983, n. 52 (e, in precedenza, della L. 10 aprile 1962, n. 165, art. 1), e delle disposizioni del D.Lgs. 16 dicembre 2004, n. 300 (di attuazione della dir. 2003/33/CE), è vietata la propaganda pubblicitaria di qualsiasi prodotto da fumo, fatta eccezione per le pubblicazioni destinate esclusivamente ai professionisti del commercio del tabacco e per quelle stampate ed edite in Paesi non appartenenti alla Unione Europea, che non siano principalmente destinate al mercato comunitario, e per le sponsorizzazioni di eventi e di attività che si svolgano contemporaneamente in più di uno Stato appartenente alla Unione Europea ovvero il cui organizzatore sia costituito da più soggetti residenti in più di uno Stato della Unione, sempre che, per la loro organizzazione, non producano direttamente effetti transfrontalieri.

Tale divieto coinvolge sia forme direttamente evocative dei prodotti suddetti con effetto propagandistico, sia forme il cui effetto sia conseguito con modalità indirette ed occulte, senza che sia consentito, ai fini dell’esistenza dell’illecito, graduare la maggiore o minore intensità dell’effetto vietato (così, Cass., S.U., 6 ottobre 1995, n. 10508).

Il riferito quadro ordinamentale si pone, dunque, in contrasto con la deducibilità delle spese per promozione di prodotti da fumo, trattandosi di attività non consentita.

2. L’accoglimento del primo motivo di ricorso osta all’esame del secondo motivo, proposto solo in via gradata.

3. Con l’ultimo motivo di ricorso l’Agenzia si duole della falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 2, L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, per aver la sentenza impugnata riconosciuto la sussistenza della causa di non punibilità, per incertezza sulla qualificazione delle spese in oggetto, idonea ad escludere l’irrogazione delle sanzioni.

3.1. Il motivo è fondato.

Occorre preliminarmente osservare che la sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito, come nel caso in esame, ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere – quanto alle sanzioni irrogate – la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, nè contiene un mero obiter dictum, insuscettibile di trasformarsi nel giudicato, per cui configurando una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sè sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, diligentemente il ricorrente ha provveduto ad impugnarle entrambe, al fine di evitare l’inammissibilità, in parte qua, del ricorso.

3.2. Ciò posto, si rammenta che, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il potere delle commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni in caso di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme alle quali la violazione si riferisce, potere conferito dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8 e ribadito, con più generale portata, dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, e quindi dal D.Lgs. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, deve ritenersi sussistente quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione (cfr. Cass., ord., 26 giugno 2019, n. 17195; Cass. 14 gennaio 2015, n. 440).

L'”incertezza normativa oggettiva tributaria” è riferita, non già ad un generico contribuente, nè a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata e neppure all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento a cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (cfr. Cass., ord., 1 febbraio 2019, n. 3108; Cass. 23 novembre 2016, n. 23845).

E’ caratterizzata dall’impossibilità d’individuare in modo univoco, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile, situazione che può essere desunta dal giudice mediante la rilevazione di una serie di “fatti indice” (cfr. Cass., ord., 12 aprile 2019, n. 10313).

Orbene, la Commissione regionale ha ritenuto che sussistesse tale condizione in ragione delle “numerose richieste di parere presentate all’Amministrazione finanziarie e dei numerosi casi di contenzioso”.

Tale valutazione non è condivisibile, in quanto riconosce valore di indici sintomatici dell’esistenza della situazione di incertezza normativa a circostanza fattuali che, seppur unitariamente valutate, sono inidonee a dimostrare l’impossibilità di pervenire in modo univoco alla corretta interpretazione del dato normativo.

4. La sentenza impugnata va, dunque, cassata, con riferimento ai motivi accolti e rinviata, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e il terzo motivo dei ricorsi e dichiara assorbito il secondo; cassa le sentenze impugnate con riferimento ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 26 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2021

 

 

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