Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13027 del 24/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 24/05/2017, (ud. 08/03/2017, dep.24/05/2017),  n. 13027

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2965/2011 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 592/2009 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI

SEZ. DIST. DI SASSARI, depositata il 21/01/2010 R.G.N. 144/2009.

Fatto

RILEVATO

che con sentenza pubblicata il 21.1.10 la Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, rigettava il gravame di Poste Italiane S.p.A. contro la sentenza n. 392/08 con cui il Tribunale di Sassari, dichiarato nullo il termine apposto al contratto di lavoro subordinato stipulato con S.M. per il periodo 1-31.12.01 ex art. 25 c.c.n.l. 11.1.01 per “esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario, conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi”, aveva accertato la sussistenza d’un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fra le parti dal 1.12.01, con condanna della società a pagare al lavoratore le retribuzioni maturate dal 20.7.04;

che per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a quattro motivi;

che l’intimato non ha svolto attività difensiva;

che l’udienza originariamente fissata per il 14.1.16 è stata rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione delle S.U. sulle ordinanze di rimessione n. 14340/15 e n. 15705/15.

Diritto

CONSIDERATO

che il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 230 del 1962, art. 3, in quanto si sostiene che la Corte di merito è incorsa in errore nel riversare sulla società l’onere probatorio del rispetto della clausola di contingenta mento, mentre sarebbe spettato al lavoratore, che aveva sostenuto l’illegittimità del contratto a termine per l’asserita violazione della predetta clausola prevista dalla contrattazione collettiva, provare le ragioni della dedotta illegittimità; prosegue il ricorso con l’evidenziare che il prospetto depositato dalla società relativo al numero delle assunzioni a tempo determinato effettuate nell’anno di riferimento non è stato contestato dalla difesa del lavoratore;

che tale motivo infondato: come è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito (v., per tutte, Cass. n. 17535/14 e Cass. n. 839/10), nel regime di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro è subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine; l’onere della prova dell’osservanza di detto rapporto è a carico del datore di lavoro, sia nel regime di cui alla L. n. 230 del 1962 (v. relativo art. 3) che in quello di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001 (v. relativo art. 4, cpv.), norme che hanno sempre addossato al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro;

che inoltre, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, la determinazione da parte della contrattazione collettiva, in conformità di quanto previsto dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, della percentuale massima di contratti a termine rispetto a quelli di lavoro a tempo indeterminato nella azienda, è stabilita per la validità della clausola appositiva del termine per le causali individuate dalla medesima contrattazione collettiva (cfr., ad es., Cass. n. 20398/12);

che, infine, quanto alla mancata contestazione del prospetto depositato dalla società relativo al numero delle assunzioni a tempo determinato effettuate nell’anno di riferimento, è appena il caso di ricordare che l’onere di contestazione concerne le sole allegazioni in punto di fatto della controparte e non anche i documenti da essa prodotti, rispetto ai quali vi è soltanto l’onere di eventuale disconoscimento, nei casi e modi di cui all’art. 214 c.p.c., o di proporre – ove occorra – querela di falso, restando in ogni momento la loro significatività o valenza probatoria oggetto di discussione tra le parti e suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice (cfr. Cass. n. 12748/16; Cass. n. 6606/16) e che correttamente la Corte territoriale ha – nel caso di specie – negato che la prova del rispetto della clausola di contingentamento possa fornirsi mediante deposito d’un mero riassunto riepilogativo stilato dalla società in maniera unilaterale;

che con il secondo motivo la ricorrente si duole di vizio di motivazione, nonchè di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., in quanto assume che la Corte d’appello non ha posto a fondamento della propria decisione il prospetto contenente i dati delle assunzioni a termine prodotto dalla società, nè ha dato ingresso alla prova testimoniale chiesta dalla società e nemmeno ha cercato di acquisire le prove relative alla clausola di contingentamento nell’ambito dei suoi poteri istruttori;

che tale motivo è infondato: invero, il potere del giudice del lavoro di ammettere mezzi di prova, quale la prova per testimoni, ha carattere discrezionale e, quindi, la determinazione assunta del giudice di merito di ammetterla o meno si sottrae al sindacato di legittimità, tanto più che i poteri istruttori officiosi di cui all’art. 421 c.p.c., pur essendo preordinati al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti; a maggior ragione il mancato esercizio da parte del giudice dei suddetti poteri non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori; nè ha pregio il tentativo della società ricorrente di rivisitazione del materiale documentale già adeguatamente valutato dalla Corte territoriale la quale, con giudizio congruo ed esente da vizi di tipo logico-giuridico, ha ritenuto che la documentazione vertente sul numero medio mensile e sulla distribuzione regionale dei contratti a tempo determinato per il periodo oggetto di causa era inidonea ai fini della prova dell’osservanza della clausola di contingentamento; in ordine, poi, alla mancata obiezione delle organizzazioni sindacali in merito alle periodiche comunicazioni circa il numero delle future assunzioni a termine, è appena il caso di segnalarne l’irrilevanza ai presenti fini, sia perchè tali comunicazioni sono inidonee a rappresentare il quadro occupazionale nei termini imposti dall’art. 25 CCNL del 2001, sia perchè l’oggetto dell’onere della prova non è l’avvenuto espletamento della procedura consultiva sindacale, bensì l’effettiva esistenza della condizione di legittimità della singola assunzione;

che – sul preteso vizio di motivazione – spetta al giudice del merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, mentre al giudice di legittimità è attribuita la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, che nel caso in esame non fanno emergere alcun vizio logico o giuridico;

che infine, quanto alla prova testimoniale chiesta dalla società, il ricorso si rivela non autosufficiente perchè non ne trascrive i capitoli nè indica dove e come tale istanza istruttoria sarebbe stata ritualmente coltivata in sede di merito;

che con il terzo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 25 CCNL del 2001 e L. n. 56 del 1987, art. 23, per avere i giudici di merito erroneamente ritenuto che la violazione della clausola di contingentamento produca conseguenze sanzionatorie sul singolo contratto a termine;

che tale motivo è infondato, dovendosi dare continuità alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui la determinazione, da parte della contrattazione collettiva in conformità a quanto previsto dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, della percentuale massima di contratti a termine rispetto a quelli di lavoro a tempo indeterminato in azienda è stabilita per la validità della clausola appositiva del termine per le causali individuate dalla medesima contrattazione collettiva e trasfuse nei singoli contratti di lavoro a tempo determinato (cfr., ex aliis, Cass. n. 21214/13);

che il quarto motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1206,1207,1217,1218,1219,2094,2099 e 2697 c.c., nella parte in cui la gravata pronuncia non ha affermato che al lavoratore spettano le retribuzioni solo a decorrere dal momento dell’effettiva ripresa del servizio e che comunque in tal caso andrebbe applicato lo ius superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32);

che tale motivo è fondato nella parte in cui invoca l’applicazione dello ius superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 (il che assorbe ogni ulteriore censura in esso contenuta), dovendosi a riguardo seguire la sentenza n. 21691/16 delle S.U. di questa S.C., che ha statuito che una censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, può riguardare anche la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattivamente applicabili anche ai giudizi in corso (come l’art. 32 cit.: cfr., per tutte, Cass. n. 6735/14), atteso che il ricorso per cassazione ha ad oggetto non l’operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico;

che, dunque, ben può chiedersi l’applicazione anche in sede di legittimità dello ius superveniens intervenuto, come nel caso di specie, dopo la sentenza impugnata e prima della proposizione del ricorso per cassazione, con l’unico limite, non verificatosi nel caso di specie, di intervenuto passaggio in giudicato della statuizione relativa alle conseguenze economiche dell’accertata nullità della clausola di apposizione del termine (passaggio in giudicato da escludersi al momento del ricorso per cassazione, essendo ancora sub iudice la questione relativa alla validità del termine); che, in conclusione, accolto nei sensi di cui sopra il quarto motivo e disattesi tutti gli altri, la sentenza va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio, anche per le, spese, alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione, che dovrà limitarsi a quantificare l’indennità spettante all’odierno intimato ex art. 32 cit., per il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (cfr., per tutte, Cass. n. 14461/15), con interessi e rivalutazione su detta indennità da calcolarsi a decorrere dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa dell’illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato (cfr., per tutte, Cass. n. 3062/16).

PQM

 

accoglie il motivo concernente l’applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 8 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2017

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