Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13018 del 24/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 24/05/2017, (ud. 15/02/2017, dep.24/05/2017),  n. 13018

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3742/2015 proposto da:

BANCO DI NAPOLI S.P.A., (già SANPAOLO BANCO DI NAPOLI S.P.A.) C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 326,

presso lo studio degli avvocati RENATO SCOGNAMIGLIO e CLAUDIO

SCOGNAMIGLIO, che la rappresentano e difendono giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

C.L., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA ANTONIO CANTORE, 5, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO

MARIA GAZZONI, rappresentata e difesa dagli avvocati MAURIZIO

MARANO, PAOLO MOLINARA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 890/2014 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 30/07/2014 r.g.n. 458/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/02/2017 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato CLAUDIO SCOGNAMIGLIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Salerno, in parziale riforma della pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede, accoglieva la domanda proposta da C.L. nei confronti della s.p.a. Banco di Napoli volta a conseguire declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole in data 17/2/2010, con gli effetti reintegratori e risarcitori sanciti dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, confermando la statuizione del giudice di prima istanza con cui era stata annullata la sanzione disciplinare conservativa irrogata il 3/8/2009.

I giudici dell’impugnazione, nel proprio iter motivazionale, osservavano, per quanto qui rileva, che la mancanza ascritta alla dipendente – consistita nell’omessa denunzia, al termine della giornata precedente alla verifica dell’Ufficio Controlli di Area, di un ammanco di cassa di Euro 2.300,00 non era stata dettata dall’intento di appropriarsi della somma erogata in favore della cognata per far fronte ad urgenti esigenze di carattere familiare, essendo ella certa di potere il giorno successivo, depositare assegno di pari importo. Argomentavano, quindi, che la condotta addebitata alla lavoratrice, non si atteggiava in termini di tale gravità da impedire la prosecuzione, anche temporanea del rapporto di lavoro, sì da giustificare l’irrogazione della massima sanzione disciplinare. Con riferimento alla declaratoria di illegittimità della sanzione conservativa impugnata, parimenti, dalla lavoratrice, condividevano gli approdi ai quali era pervenuto il primo giudice in ordine alla tardività della misura disciplinare adottata.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione l’istituto di credito affidato a quattro motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso la parte intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo è denunciato omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che ha formato oggetto di discussione fra le parti.

Si deduce che la società sin dalla memoria di costituzione innanzi al Tribunale e prima ancora in sede cautelare, aveva rilevato una serie di circostanze decisive al fine della soluzione della controversia, e consistite: a) nella brevissima distanza fra la filiale del Banco di Napoli ove lavorava la C. e quella ove era collocata la filiale trassata, ove la cognata della dipendente avrebbe ben potuto recarsi per svolgere l’operazione voluta; b) nella possibilità per la C., di operare un prelevamento in circolarità con sottoscrizione della relativa quietanza da parte della cognata. Le predette circostanze, ove esaminate, avrebbero potuto in termini di ragionevole certezza, condurre ad un esito decisorio differente.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c.. Si critica la sentenza impugnata per aver affermato che nel giudizio avente ad oggetto l’impugnativa di licenziamento il datore di lavoro è gravato di un onere della prova completo con riguardo a tutti gli elementi della fattispecie, non “avendo cittadinanza nel nostro ordinamento un licenziamento fondato esclusivamente su prove indiziarie non adeguatamente verificate”. Si deduce, per contro, che secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità, le presunzioni non costituiscono uno strumento probatorio di rango secondario e più debole rispetto alla prova diretta, di guisa che la mera circostanza che la norma gravi una delle parti dell’onere probatorio, non vale a precludere al giudice di merito la ricorrenza dei presupposti sanciti dall’art. 2729 c.c..

3. Con il terzo mezzo di impugnazione, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c..

Ci si duole della errata concretizzazione del concetto indeterminato di giusta causa di recesso, disposta dai giudici dell’impugnazione, senza tenere conto della peculiare intensità del vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro bancario.

Posto che in sede di legittimità è sindacabile il procedimento di valutazione normativa di norme elastiche quale quella di giusta causa, si deduce che la attività di concretizzazione deve tener conto della dedotta intensità dell’elemento fiduciario, che è diversificata in ragione alla qualità del singolo rapporto e nel settore bancario va riguardata in un’ottica di particolare rigore. Si critica, quindi, la sentenza impugnata per avere omesso ogni riferimento al parametro normativo riferito alla disposizione codicistica richiamata, che consente il riscontro della ricorrenza di una giusta causa di licenziamento e si sostanzia nel particolare affidamento che il datore di lavoro ripone nel corretto adempimento da parte del dipendente, degli obblighi inerenti al proprio ufficio, e nella assenza di comportamenti che possano arrecare un vulnus alla fiducia nutrita anche dal pubblico sulla correttezza dell’operato dei funzionari.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, art. 2119 c.c. e art. 112 c.p.c..

Con riferimento alla affermata illegittimità della sanzione conservativa irrogata, si lamenta che la Corte di merito non abbia considerato che il requisito di tempestività non è coessenziale allo scrutinio delle sanzioni conservative, diversamente da quanto avviene in materia di licenziamento per giusta causa, in cui l’esigenza di tempestività della contestazione discende direttamente dalla nozione legale di giusta causa.

5. In ordine logico va esaminato con priorità il terzo motivo.

Esso è fondato, per i motivi di seguito esposti.

E’ bene rammentare, con riferimento alla nozione di giusta causa del licenziamento disciplinare oggetto di scrutinio in questa sede, che secondo una consolidata ricostruzione giurisprudenziale, giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali come quella di cui all’art. 2119 o all’art. 2106 c.c., che dettano tipiche “norme elastiche”, può essere scrutinata in sede di legittimità sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, poichè l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca (vedi ex plurimis, Cass. 13/12/2010 n. 25144).

6. Tale procedimento ermeneutico va elaborato alla stregua della peculiare consistenza che assume il vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro bancario, in relazione al quale l’idoneità lesiva del comportamento contestato deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per la parte datoriale o dal conseguimento di un utile (cfr. Cass. 8/4/2016 n. 6901), rilevando la lesione dell’affidamento che, non solo il datore di lavoro, ma anche il pubblico, ripongono nella lealtà e correttezza dei funzionari.

Di detti principi la Corte di merito non ha disposto corretta applicazione, avendo valutato, nel proprio incedere argomentativo, essenzialmente la mancanza di ogni profilo doloso nella condotta posta in essere dalla lavoratrice, che si riteneva non fosse stata dettata dall’intento di appropriarsi della somma, prelevata “al solo scopo di assicurare alla cognata la disponibilità di fondi occorrenti per far fronte ad impellenti esigenze di carattere familiare”, nella certezza del deposito, il giorno successivo, di un assegno di pari importo.

Ha omesso, il giudice dell’impugnazione, nell’applicazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., di far riferimento agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale e cristallizzati nei summenzionati principi, trascurando ogni valutazione circa la coscienza e volontà del comportamento assunto dalla dipendente e la idoneità dello stesso – anche a prescindere da una connotazione in termini di dolo – a vulnerare il vincolo fiduciario che assume connotati di peculiare intensità nel rapporto di lavoro bancario, tralasciando di considerare altresì la violazione degli specifici obblighi ai quali la stessa era tenuta in relazione alle mansioni a lei ascritte di cassiera, fra i quali assumeva indubbiamente carattere di spicco la custodia del denaro.

Ha trascurato in definitiva, di considerare il rapporto fra il modus operandi della lavoratrice, pur nella più favorevole ipotesi accreditata in sentenza, e i doveri che gravano sul dipendente, alla cui stregua va individuata la ricorrenza dell’affidamento datoriale sul futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, nucleo irriducibile dell’elemento fiduciario che qualifica il rapporto in questione, anche alla luce del “disvalore ambientale” che assume l’inadempimento del lavoratore agli obblighi inerenti al proprio ufficio, nello specifico settore bancario.

Per le superiori argomentazioni, il motivo va accolto, restando assorbite logicamente le prime due doglianze.

7. Deve, invece, essere respinta la quarta censura attinente al rispetto del principio della immediatezza in relazione alla irrogazione della sanzione conservativa.

Va infatti affermato che la statuizione impugnata è conforme a diritto perchè coerente con i dicta giurisprudenziali di questa Corte – emessi in relazione alla applicazione della massima sanzione disciplinare ed applicabili anche alle sanzioni conservative per la unitarietà della ratio sottesa alla definizione del procedimento disciplinare – secondo cui l’immediatezza della contestazione integra elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro in quanto, per la funzione di garanzia che assolve, l’interesse del datore di lavoro all’acquisizione di ulteriori elementi a conforto della colpevolezza del lavoratore, non può pregiudicare il diritto di quest’ultimo ad una pronta ed effettiva difesa, sicchè, ove la contestazione sia tardiva, resta precluso l’esercizio del potere e la sanzione irrogata è invalida (vedi ex aliis, Cass. 13/2/2015 n. 2902) non mancandosi di considerare che l’incolpazione ritardata non solo si presenta pregiudizievole per un pieno esercizio del diritto di difesa, ma è idonea a fondare la presunzione di mancanza di concreto interesse del datore di lavoro all’esercizio del potere di recesso (ex multis, vedi Cass. 17/12/2008 n. 29480).

In definitiva, il ricorso va accolto entro i limiti descritti, e la sentenza impugnata va cassata con rimessione alla cognizione della Corte di merito designata in dispositivo che provvederà allo scrutinio della fattispecie alla luce dei principi innanzi enunciati, decidendo anche sulle spese inerenti al presente giudizio di legittimità a norma dell’art. 385 c.p.c..

PQM

 

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Napoli.

Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2017

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