Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13014 del 10/06/2014
Civile Sent. Sez. 1 Num. 13014 Anno 2014
Presidente: SALME’ GIUSEPPE
Relatore: BERNABAI RENATO
SENTENZA
sul ricorso 24669-2012 proposto da:
RAFFAELLO E MICHELANGELO S.P.A. (p.i. 09014970017),
in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, Via P. DA
Data pubblicazione: 10/06/2014
PALESTRINA 47, presso l’avvocato BASILE GAETANO,
che la rappresenta e difende unitamente
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all’avvocato PAMPALONI RODOLFO, giusta procura in
calce al ricorso;
– ricorrente contro
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FALLIMENTO RAFFAELLO E MICHELANGELO S.P.A., in
persona del Curatore dott. PAOLO CACCIARI,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIAN GIACOMO
PORRO 8, presso l’avvocato GROSSO ANDREA, che lo
rappresenta e difende, giusta procura a margine del
–
controri corrente
–
avverso la sentenza n. 1501/2012 della CORTE
D’APPELLO di TORINO, depositata il 20/09/2012;
udita la relazione della causa svolta nella
pubblica udienza del 20/02/2014 dal Consigliere
Dott. RENATO BERNABAI;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato ANSELMO
CARLEVARO, con delega, che si riporta;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. FEDERICO SORRENTINO che ha concluso
per il rigetto del ricorso.t
controricorso;
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Su richiesta del Pubblico ministero il Tribunale di Torino, con
sentenza 3 maggio 2012, dichiarava il fallimento della Raffaello e
Michelangelo s.p.a., società immobiliare facenti parte del cd.
“gruppo CALLEGARO”.
Torino con sentenza in data 20 settembre 2012.
La corte territoriale motivava
–
che, pacifica la sussistenza dei requisiti oggettivi e
dimensionali di cui agli articoli 1 e 15 della legge fallimentare, la
società aveva contestato solo lo stato di insolvenza;
– che questa invece emergeva dal debito fiscale, gravato di
sanzioni per ritardo nel pagamento di rate scadute, eseguito del
resto con denaro proveniente da altra società del gruppo, e
suscettibile di ulteriore incremento a seguito di avvisi di
•
accertamento relativi agli anni 2007 e 2008 notificati alla curatela
nell’imminenza della camera di consiglio;
– che mancava la prova di un piano di rientro con gli istituti di
credito che vantavano crediti ingenti nei confronti della società;
– che era infondata la censura di sottovalutazione del
patrimonio immobiliare, stimato in euro 44.580,000,00 da periti
incaricati della stessa società, secondo il valore di mercato, e
comunque la sussistenza di cespiti patrimoniali non eliminava
l’incapacità di adempiere regolarmente le obbligazioni.
Avverso la sentenza notificata in data 27 settembre 2012, la
Raffaello e Michelangelo s.p.a. proponeva ricorso per cassazione,
notificato il 26 ottobre 2012.
Il successivo reclamo era respinto dalla Corte d’appello di
La curatela resisteva con controricorso.
All’udienza del 20 febbraio 2014 il Procuratore generale ed il
difensore del fallimento della Raffaello e Michelangelo s.p.a
precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe
MOTIVI DELLA DECISIONE
Le censure dedotte dalla ricorrente senza un chiaro ordine
numerico ed una distinta e puntuale distinzione tra violazioni di
legge e vizi della motivazione – spesso accomunati, ai limiti della
inammissibilità – possono essere riassuntivamente ricondotte
all’inosservanza dei principi in tema di successione delle leggi nel
tempo e alla violazione dell’art.5 legge fallimentare ed alla carenza
di motivazione nell’accertamento dello stato di insolvenza.
Sotto il primo profilo si deduce, in particolare, l’omessa
applicazione dell’art. 33 decreto-legge 22 giugno 2012 n. 83 (cd.
decreto Sviluppo), convertito con modificazioni il legge 7 agosto
2012 n.147.
Il motivo è infondato.
In sostanza, la censura, riproducente per esteso anche una
sentenza penale di questa Corte non pertinente al
thema
decidendum, si riduce alla mancata concessione di un termine per
la formalizzazione di una proposta di accordo di ristrutturazione ex
art.182 bis I. fall. ( senza alcuna precisazione delle condizioni e
delle prospettive concrete di accettazione da parte del ceto
creditorio), sul presupposto erroneo che l’istituto possa essere
retroattivamente applicato in ipotesi di fallimento già dichiarato.
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riportate.
Premesso che il decreto-legge 22 giugno 2012 n.83 non ha efficacia
retroattiva, in applicazione del principio generale di cui all’articolo
12 disposizioni sulla legge in generale ed in assenza di alcuna
espressa disposizione contraria, si osserva come lo strumento
concordatario e più in generale qualunque ipotesi di composizione
dichiarazione di fallimento: oltre la quale l’unico strumento
lato
sensu negoziale residuo è il concordato fallimentare. Né riveste
alcuna rilevanza, in contrario, la pendenza del reclamo ex art.18 I.
fall. dinanzi la Corte d’appello di Torino, che non consentiva certo
la remissione in termini, previa revoca della dichiarazione di
falliment, ai fini di una ipotesi concorsuale alternativa (artt160 e
182 bis I. fall.), così da evitare la condizione di procedibilità per il
delitto di bancarotta frodolenta (art.216 I. fall.), come
correttamente statuito dalla corte territoriale.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, l’art. 161,
decimo comma, legge fallimentare è di univoca lettura, laddove
consente la concessione di un termine per il deposito del piano e
della documentazione richiesti per l’ammissione al concordato
preventivo “quando pende il procedimento per la dichiarazione di
fallimento”:
formula, che “a contrario” vale ad escluderne la
possibilità quando il fallimento sia già stato dichiarato.
In realtà, la disposizione presuppone, anzi, che sia già
avvenuto il deposito del ricorso contenente la domanda di
concordato, unitamente ai bilanci relative gli ultimi tre esercizi; e il
termine dilatorio, in pendenza dell’istruttoria prefallimentare,
contenuto in sessanta giorni ( prorogabili, in presenza di giustificati
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negoziale della crisi di impresa incontrino un limite preclusivo nella
motivi, di non oltre sessanta), riguarda solo il completamento della
produzione documentale.
È pacifico che nessuna proposta in tal senso sia mai stata
presentata dalla Raffaello e Michelangelo s.p.a.; e ancora oggi, del
.
resto, le ipotesi di risanamento della crisi prospettate nel presente
Ne consegue l’infondatezza della denunziata violazione di
legge
Anche la parte della censura che concerne l’iniziativa del
pubblico ministero è manifestamente infondata. L’omessa
presentazione di ricorsi per fallimento da parte dei creditori privati
non esclude di per sé lo stato di insolvenza, motivato congruamente
nella sentenza impugnata e non suscettibile di riesame, nel merito,
in questa sede. Al riguardo si osserva che proprio le inadempienze
fiscali poste a base della pronunzia di fallimento possono dare conto
della mancata presentazione di ricorsi da parte di creditori privati,
evidentemente soddisfatti con preferenza rispetto all’erario.
Per quanto riguarda invece tutte le doglianze concernenti la
violazione dell’art.5 legge fallimentare e la carenza di motivazione
della sussistenza dello stato di insolvenza, la società ricorrente si
dilunga in una serie di argomentazioni di merito, che concernono
addirittura la valutazione dei cespiti immobiliari e dei
comportamenti penalmente rilevanti nell’ambito di svariate
operazioni infragruppo, e perfino di possibili vantaggi compensativi
ad esse riconducibili, del tutto estranei all’ambito del giudizio di
legittimità. Non senza rilevare, in linea di principio, che connotato
–
essenziale dello stato di insolvenza è l’incapacità di soddisfare
•
regolarmente le obbligazioni: onde, se si identifica, come si deve,
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ricorso hanno mero contenuto ipotetico ed astratto.
l’impresa con l’attività economica svolta – elemento di natura
dinamica – non si può poi analizzare l’insolvenza secondo un
parametro di tipo patrimoniale, statico, quale il valore dei cespiti
immobiliari.
In sostanza, le varie doglianze si riducono, dunque, ad una
esecuzione forzata) e ad una diversa e maggiore stima del
patrimonio della società ( che si spinge fino alla correzione dei
bilanci d’esercizio), senza addurre critiche davvero pertinenti sotto
il profilo dedotto della violazione dell’art.5 della legge fallimentare o
del vizio di motivazione.
Il ricorso dev’essere dunque rigettato, con la conseguente
condanna alla rifusione delle spese processuali, liquidate come in
dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e
complessità delle questioni trattate.
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle
spese di giudizio, liquidate in complessivi C 10.200,00, di cui C
10.000,00 per compenso, oltre gli accessori di legge.
Roma, 20 febbraio 2014
contestazione delle pretese fiscali (suscettibili, peraltro, di