Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13010 del 24/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 24/05/2017, (ud. 02/12/2016, dep.24/05/2017),  n. 13010

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20340/2014 proposto da:

FORMIFICIO ROMAGNOLO S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato EMANUELE

COGLITORE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIER

GIUSEPPE DOLCINI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

A.D., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 22, presso lo studio dell’avvocato ANDREA

MANCINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO

GHERARDI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 383/2013 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 23/08/2013 R.G.N. 791/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/12/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato PIER GIUSEPPE DOLCINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 7 marzo 2006 A.D. esponeva di aver lavorato alle dipendenze del FORMIFICIO ROMAGNOLO S.p.A. e che da 19 ottobre 1981 era stato responsabile della filiale di (OMISSIS); che dal settembre dell’anno 2003 la società, servendosi di due ispettori appositamente inviati presso la filiale, aveva progressivamente ridotto le sue mansioni, lasciandolo privo di incarichi ed in condizione di emarginazione; che con lettere del 2 settembre, 26 settembre, 12, 17 e 21 novembre, nonchè 12 dicembre 2003 la società aveva contestato una serie di addebiti, però negati in sede di giustificazione, ma che tuttavia parte datoriale in data 9 gennaio 2004 gli aveva intimato licenziamento per giusta causa, quindi impugnato il 19 gennaio dello stesso anno. Pertanto, il ricorrente A. chiedeva il risarcimento del danno in ordine al dedotto demansionamento, relativo al periodo settembre 2003 – 9 gennaio 2004, nonchè l’invalidazione del suddetto recesso, con conseguente tutela reale ex art. 18 Statuto dei Lavoratori (secondo il testo ratione temporis applicabile).

Instauratosi il contraddittorio con la costituzione della società convenuta, che resisteva alle pretese avversarie, spiegando altresì domanda in via riconvenzionale finalizzata al risarcimento del danno subito in relazione alle spese sostenute per vitto e alloggio degli ispettori, inviati nel periodo da settembre a dicembre 2003, nonchè per le spese di alloggio del nuovo responsabile della filiale, poichè l’attore non aveva liberato tempestivamente quello di servizio a suo tempo assegnatogli.

L’adito giudice del lavoro di Verona con sentenza in data 13 aprile – 26 agosto 2010 dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava la società a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro con ogni conseguente tutela ex cit. art. 18. Condannava, altresì, la convenuta al pagamento di somme di danaro a titolo di differenze retributive, rigettando invece le altre domande del ricorrente, nonchè le suddette richieste proposte in via riconvenzionale dalla resistente.

Con ricorso depositato il 14 settembre 2010 la S.p.A. FORMIFICIO Romagnolo appellava la suindicata pronuncia, anche se poi nel corso del giudizio di 20 grado rinunciava ai motivi di gravame relativi alle differenze retributive.

L’appellato resisteva all’interposto gravame chiedendone il rigetto.

La Corte di Appello di Venezia con sentenza n. 383 del 30 maggio/23 agosto 2013 rigettava l’impugnazione, con conseguente condanna della società appellante alle relative spese in favore dell’appellato.

La Corte distrettuale riteneva del tutto corrette le argomentazioni, dettagliatamente esaminate, in forza delle quali era stata pronunciata la gravata decisione, per cui venivano confutate, in particolare e per quanto qui d’interesse, le doglianze riferite alla valutazione degli addebiti di cui alle lettere di contestazione in data 12 novembre e 12 dicembre 2003, concernenti le condotte tenute dall’ A. nelle giornate ivi indicate, dal 27 settembre al 4 dicembre 2003, consistite essenzialmente nel fatto che egli sarebbe rimasto inoperoso sul posto di lavoro, dedicandosi alla lettura di giornali e a giochi di computer durante l’intero orario, unitamente ad altri fatti di grave negligenza. La società aveva, soprattutto, lamentato che il primo giudicante non aveva tenuto conto delle ammissioni fatte da parte ricorrente e che non aveva quindi valutato correttamente le acquisite risultanze istruttorie, senza per giunta neppure escutere tutti i testimoni indicati.

La Corte di Appello, premesso che non sussistevano le condizioni per l’ammissione delle istanze istruttorie per le ragioni all’uopo indicate, ad ogni modo escludeva la pretesa ammissione dell’inattività da parte del ricorrente, poichè nell’atto introduttivo del giudizio costui aveva lamentato di essere stato lasciato privo di incarichi a causa dell’invio presso la filiale dei due ispettori; inoltre, la stessa sentenza impugnata aveva dato atto, nell’esaminare la domanda di risarcimento del danno per demansionamento, che l’attore aveva dedotto di non aver mai cessato di svolgere le proprie funzioni di direttore, ancorchè sottoposto ad interferenze e controlli da parte del personale ispettivo inviato sul posto, soddisfacendo quindi alle richieste dei colleghi e dei clienti. Il giudice di primo grado aveva valorizzato tale tesi difensiva al fine di escludere il totale preteso demansionamento. Ad ogni modo, ciò che rilevava era l’insussistenza di quella ammissione, cui l’appellante aveva inteso attribuire efficacia probatoria. Appariva, altresì, decisivo quanto evidenziato dal giudice di primo grado, e cioè che già nella memoria di costituzione la medesima società resistente aveva dichiarato che, al fine di coprire il ruolo lasciato di fatto vacante dall’ A., era stata costretta ad tenere presso la filiale un addetto proveniente dalla sede di (OMISSIS), sicchè, se vi era già una persona incaricata di fare le veci del ricorrente fin dal settembre del 2003, non si comprendeva come parte datoriale potesse continuare ad esigere dallo stesso A. il pieno e continuo esercizio dei poteri di direzione della filiale.

Occorreva, dunque, considerare che nel periodo di ottobre – novembre 2003 l’ A. si trovava ad operare in un contesto in cui vi erano altri soggetti che per incarico della società datrice di lavoro svolgevano compiti che erano di sua competenza; perciò non poteva essere di per sè ritenuto espressione di negligenza, tate da giustificare licenziamento, il fatto che nelle giornate oggetto di contestazione e comunque nelle occasioni risultanti dalle testimonianze evidenziate dall’appellante, il dipendente fosse rimasto inoperoso, visto soprattutto quanto dichiarato in proposito dai testi P., L., S. e C., secondo i quali egli continuava ad essere disponibile e collaborativo sul posto di lavoro. Dunque, tenuto conto pure di quanto riferito dagli altri testimoni escussi, specificamente indicati in motivazione, la Corte distrettuale escludeva che la condotta contestata integrasse giusta causa di licenziamento: per le modalità di svolgimento dell’attività durante il periodo in cui erano stati presenti nella filiale gli addetti inviati dalla direzione che svolgevano le sue mansioni, il fatto di esser rimasto inoperoso non esprimeva dispregio dei propri doveri o negligenza tanto gravi da giustificare il venir meno della fiducia da parte datoriale, perchè ciò era conseguito alla scelta della medesima società di attribuire i compiti dell’ A. ad altri soggetti senza nel contempo affidargli altro incarico. E questa conclusione non si poneva in contrasto con la decisione di primo grado, non impugnata, di rigetto della domanda di risarcimento del danno da demansionamento, atteso che tale diniego era dovuto al fatto che era stato escluso il totale svuotamento delle mansioni lamentato dall’attore, cosa però che non escludeva che il lavoratore fosse rimasto inoperoso a causa della presenza degli ispettori, nelle giornate contestate collocate nel breve periodo di circa due mesi. Inoltre, la Corte territoriale, alla stregua delle anzidette circostanze, motivava pure le ragioni per cui escludeva che le restanti condotte fossero state di gravità tale da giustificare il licenziamento, sicchè non avevano concreto rilievo le argomentazioni della società appellante in ordine al raggiungimento della prova sui fatti, la cui rilevanza era assai limitata, atteso che anche tali condotte andavano poste nell’ambito del contesto lavorativo in precedenza descritto.

Avverso l’anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la S.p.A. FORMIFICIO ROMAGNOLO con DUE motivi, entrambi formulati ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 10, n. 5, successivamente illustrati da memoria ex art. 370 c.p.c. (rectius, art. 378), cui ha resistito A.D. mediante controricorso.

Il collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente della Corte in data 14 Settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente ha lamentato omesso esame circa un fatto decisivo e per

palese illogicità. Da un lato si negava l’ammissione di parte ricorrente in ordine all’inattività e dall’altro si sosteneva che l’inattività, già ritenuta inesistente, sarebbe stata la conseguenza del comportamento datoriale, avendo la società affidato le mansioni, già dell’ A., ai due ispettori inviati presso la filiale.

Era, altresì, palese che la Corte d’Appello non aveva tenuto conto delle deduzioni contenute nel ricorso avversario (laddove di era lamentato che lo stesso A. era stato lasciato privo di incarichi ed in condizioni di emarginazione dall’attività lavorativa). Ne derivavano: la illogicità dell’argomentazione dell’impugnata sentenza, attese le contraddittorietà riscontrabili; la sostanziale inesistenza della motivazione, perchè difettava completamente, sotto il profilo sostanziale, il ragionamento logico sottesovi.

Con il secondo motivo, è stato censurato l’omesso esame circa un fatto decisivo, laddove la Corte di Appello aveva ritenuto che il fatto di essere rimasto inoperoso non esprimeva dispregio dei propri doveri di negligenza tanto grave da giustificare il venir meno della fiducia datoriale, trattandosi di fatto conseguito alla scelta della stessa società di attribuire i compiti dell’ A. ad altri soggetti senza nel contempo affidare a lui altro incarico. Sì trattava, ad avviso della ricorrente, di una motivazione del tutto apparente, che ometteva di valutare un fatto decisivo ai fini del giudizio, e cioè che, diversamente rispetto a quanto ritenuto nell’impugnata sentenza, era inequivocabilmente emerso che fu l’ A. a risultare inadempiente rispetto ai compiti che gli erano stati affidati, tanto che l’azienda fu costretta ad inviare propri ispettori per sopperire alle sue deficienze, a differenza dunque di quanto apoditticamente affermato dalla sentenza di 20 grado. All’uopo sono state ampiamente richiamate (cfr. in part. pagine da 16 a 20 del ricorso) le testimonianze di V.V., di Z.U., di M.S., di Zo.Ma., di B.S., di S.S. e di Ag.Gi..

Sostenere che l’inoperosità del A. fosse dipesa da volontà datoriale significava aver totalmente ignorato le inequivocabili circostanze di fatto di cui alla riportate testimonianze, attestanti esattamente il contrario e cioè che il stante comportamento dell’ A., la società fu costretta a inviare presso la filiale di (OMISSIS) propri incaricati al fine di attendere alle funzioni che lui ometteva di svolgere.

Tanto premesso, entrambe le anzidette doglianze, che per la loro stretta evidente connessione possono esaminarsi congiuntamente, sono inammissibili sotto diversi profili.

Ed invero, la ricorrente se da un lato denuncia una motivazione, ritenuta contraddittoria e apparente, la stessa società poi, con la seconda censura, finisce invero per criticare nel merito le anzidette argomentazioni – invero ampie, esaurienti, coerenti e dettagliate – che i giudici di merito hanno ritenuto di svolgere per dar conto del proprio convincimento circa le contestazioni, considerate nel loro complessivo ingiustificate, poste a sostegno dell’impugnato recesso.

Come si è visto, la Corte territoriale ha tenuto conto di tutte le acquisite risultanze processuali per giungere alla conclusione che l’attività lavorativa del dipendente, ancorchè non completamente svilita professionalmente (con conseguente insussistenza del pregiudizio al riguardo inizialmente lamentato dall’attore), era stata d’altro canto neutralizzata ed emarginata, almeno in relazione all’arco temporale oggetto di contestazione, per effetto dell’intervento sul posto degli ispettori inviati dalla società, che avevano quindi finito per esautorare l’ A. nei compiti cui era stato adibito.

In tale contesto, pertanto, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non lascia alcuna possibilità di sindacato in sede di legittimità sull’operato del giudice di merito per quanto concerne la sua competenza ad accertare i fatti di causa e a trarne le relative conclusioni mediante il loro prudente apprezzamento.

Più in particolare, quanto alla portata dell’art. 360 c.p.c., n. 5, va richiamato l’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, secondo cui la riformulazione di tale norma, disposta dal legislatore del 2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass. sez. un. civ. n. 8053 del 7/4/2014, idem n. 8054/14. In senso conforme v. altresì Cass. civ. 6-3, ordinanza n. 21257 – 08/10/2014 e sentenza n. 23828 del 20/11/2015).

Tanto premesso, le anzidette censure di parte ricorrente appaiono inammissibili nell’ambito nei rigorosi limiti fissati dal citato art. 360, secondo la critica, appunto vincolata, ivi consentita, alla stregua di quanto motivatamente e dettagliatamente accertato e di conseguenza valutato dalla competente Corte di merito, su specifiche circostanze in contrasto con i fatti del cui mancato esame si duole la ricorrente.

D’altro canto, va ancora ricordato (cfr. più recentemente Cass. 1^ civ. n. 16526 del 05/08/2016) che in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6-5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì Cass. 1^ civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007).

Invero, lo stesso cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 3^ civ. n. 11892 del 10/06/2016).

Peraltro, quanto poi, alla contestata portata delle testimonianze, sulle quali la Corte di Appello ha motivatamente ritenuto di fondare la propria decisione, va ancora ricordato che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni testimoniali, nonchè la valutazione delle loro emergenze, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 1^ civ. n. 16056 del 2/8/2016. Conformi, tra le varie, Cass. lav. n. 17097 del 21/07/2010, 3^ civ. n. 12362 del 24/05/2006e numerose altre di segno analogo).

Nel caso di specie, dunque, non è ravvisabile alcun vizio ex art. 360, n. 5 cit., tenuto conto della più che sufficiente motivazione, effettiva e non già meramente apparente, svolta con la sentenza di appello, che ha ritenuto fondata nel merito la domanda dell’attore quanto all’impugnato licenziamento.

Pertanto, il ricorso va respinto, siccome inammissibile, con conseguente condanna alle relative spese della soccombente, tenuta altresì come per legge al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

 

la Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna la Società ricorrente al pagamento delle spese, che si liquidano a favore del controricorrente in Euro quattromila/00 per compensi professionali ed in cento/00 Euro per esborsi, oltre spese generali al 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2017

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