Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13009 del 10/06/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 13009 Anno 2014
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: CURZIO PIETRO

SENTENZA
sul ricorso 12509-2011 proposto da:
PICA SALVATORE PCISVT68C01F839R, elettivamente domiciliato
in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CASSAZIONE,
rappresentato e difeso dagli avvocati QUA1 FROMINI GIULIANA,
QUATTROMINI PAOLA giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente contro

UNILEVER ITALIA MANUFACTURING SRL 00846710150, (già
SAGIT SRL, incorporata nella UNILEVER ITALIA SPA, come da
atto di fusione per incorporazione), in persona dell’amministratore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE U. TUPINI 133, presso

Data pubblicazione: 10/06/2014

lo studio dell’avvocato BRAGAGLIA ROBERTO, rappresentata e
difesa dall’avvocato GOMEZ D’AYALA GIULIO giusta mandato in
calce al controricorso e ricorso incidentale;
– contro ricorrente e ricorrente incidentale –

NAPOLI del 4/11/2010, depositata 21/12/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/04/
2014 dal Presidente Relatore Dott. PIETRO CURZIO.

Ragioni della decisione
Deve premettersi che le medesime questioni oggetto di questa causa
sono state già sottoposte alla Corte di cassazione in analoghi giudizi,
decisi con una serie di sentenze (cfr., per tutte, Cass. 16 gennaio
2014, n. 801) dalle cui conclusioni e motivazioni non vi è ragione di
discostarsi e che devono essere qui richiamate ai sensi dell’art. 118
disp. att. c.p.c.
Il ricorrente principale ha dedotto di aver lavorato alle dipendenze
della società SAG IT come addetto alla lavorazione di gelati e surgelati,
obbligato ad indossare una tuta, scarpe antinfortunistiche copricapo e
indumenti intimi forniti dall’azienda e a presentarsi al lavoro 15/20
minuti prima dell’inizio dell’orario di lavoro aziendale; solo dopo aver
indossato tali abiti ed essere passato da un tornello con marcatura del
badge poteva entrare nel luogo di lavoro accedendo al reparto dove
una macchina bollatrice rilevava l’orario di ingresso. Tali operazioni si
ripetevano al termine dell’orario di lavoro per dismettere gli indumenti
indossati. Il ricorrente ha chiesto il pagamento delle differenze
retributive dovute per il tempo di tali prestazioni, a titolo di compenso
per lavoro straordinario e in via subordinata come compenso per
lavoro ordinario.
Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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avverso la sentenza n. 7164/2010 della CORTE D’APPELLO di

La Unilever Italia s.r.1., (già SAGIT s.r.1.) si è costituita in giudizio. Il
Tribunale di Napoli ha rigettato la domanda; con la sentenza oggi
impugnata la Corte di Appello di Napoli ha riformato tale decisione,
riconoscendo il diritto del dipendente alla retribuzione per il tempo

carattere necessario e obbligatorio per l’espletamento dell’attività
lavorativa, e del fatto che anche tale operazione si svolgeva sotto la
direzione del datore di lavoro. Una diversa regolamentazione di tale
attività non poteva essere desunta, sul piano della disciplina collettiva,
dal “silenzio” dell’autonomia collettiva sul problema del “tempo tuta”,
ne’ da accordi aziendali intervenuti per la disciplina delle pause
fisiologiche.
La sentenza impugnata ha determinato il tempo di tali attività, facendo
ricorso a nozioni di comune esperienza, in dieci minuti per ognuna
delle due operazioni giornaliere (vestizione e svestizione),
commisurando quindi il compenso dovuto alla retribuzione oraria
fissata dal contratto collettivo applicabile.
La Corte ha poi accolto l’eccezione di parziale prescrizione
(quinquennale) sollevata da parte convenuta, tenuto conto
dell’interruzione della prescrizione operata con lettera di messa in
mora. Non poteva invece essere valutata a tal fine, secondo la Corte di
Appello, la richiesta di tentativo di conciliazione presentata
anteriormente alla Direzione Provinciale del Lavoro, che non risultava
inoltrata alla società datrice di lavoro.
Contro la sentenza della Corte d’appello parte ricorrente ha proposto
ricorso per cassazione articolato in quattro motivi. La società intimata
ha depositato controricorso con ricorso incidentale, a sua volta
articolato in quattro motivi.

Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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impiegato nelle operazioni di vestizione e svestizione, in ragione del

Il ricorso principale investe la sola statuizione relativa alla decorrenza
della prescrizione, censurata perché la Corte non considera valido atto
interruttivo la mera presentazione della richiesta di tentativo
obbligatorio di conciliazione rivolta alla Direzione Provinciale del

cod. civ. e dell’art. 410 cod. proc. civ., richiamando la giurisprudenza
di questa Corte che connette gli effetti di interruzione della
prescrizione e di sospensione dei termini di decadenza ex art. 410
c.p.c., comma 2 alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di
conciliazione. Con il secondo motivo dello stesso ricorso principale,
mediante la denuncia di violazione dell’art. 2729 cod. proc. civ., si
lamenta che la sentenza impugnata non ha esaminato la possibilità di
desumere una prova presuntiva dell’inoltro della comunicazione della
suddetta richiesta al datore di lavoro dalla circostanza che richieste del
genere vengono generalmente inoltrate dalla D.P.L.; e ciò anche
perché neppure la società UNILEVER aveva obiettato di aver
ricevuto la comunicazione.
La stessa censura viene proposta con il successivo terzo motivo sotto

il profilo del difetto di motivazione della sentenza impugnata. Con il
quarto motivo si denuncia la violazione dell’art. 421 c.p.c., comma 2,
dell’art. 115 cod. proc. civ., rilevandosi che il lavoratore resta in
possesso soltanto dell’istanza diretta alla D.P.L. con cui promuove il
tentativo di conciliazione e non della conseguente comunicazione
inoltrata al datore di lavoro dalla D.P.L., che rimane in possesso della
prova della spedizione e ricezione dell’avviso. Il lavoratore si trova
nella impossibilità di documentare la circostanza, sicché sarebbe stato
doveroso per la Corte di Appello esercitare i poteri officiosi ex art. 421
cod. proc. civ. per accertare la ricezione della convocazione da parte

Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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Lavoro. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2943

della società.
In via subordinata, si solleva questione di legittimità costituzionale
dell’art. 410 c.p.c., comma 2, in relazione agli artt. 24, 36 e 111 Cost.
nella parte in cui connette l’interruzione della prescrizione alla

della D.P.L. dell’avvenuta instaurazione del tentativo di conciliazione
anziché alla mera proposizione di tale richiesta da parte del lavoratore.
Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia una violazione
della disciplina dei CCNL del settore industria alimentare e degli
accordi aziendali del 16.11.1999, in relazione all’art. 2099 cod. civ. e
art. 36 Cost., nonché delle regole di cui all’art. 1362 c.c. e segg., e
difetto di motivazione. La sentenza impugnata viene censurata per non
aver valutato l’incidenza sull’assetto negoziale del rapporto della
contrattazione collettiva, che secondo la parte esclude il pagamento di
una retribuzione ulteriore del tempo impiegato sia per raggiungere i
reparti, sia per indossare e togliere gli indumenti di lavoro, correlando
la retribuzione dovuta al solo tempo della prestazione lavorativa
effettiva. La società, premesso che la determinazione quantitativa della
retribuzione risulta soprattutto dalla disciplina collettiva, trae
argomenti a sostegno della propria tesi dalle norme contrattuali in
tema di durata e distribuzione dell’orario di lavoro e di riduzione dello
stesso (correlata al godimento di riposi individuali) nonché dalla
clausola del CCNL applicabile che, imponendo all’azienda di destinare
un locale a spogliatoio, dispone che questo debba rimanere chiuso
durante l’orario di lavoro; tale previsione escluderebbe che il tempo da
destinare alla vestizione possa rientrare nella prestazione lavorativa.
Con il secondo motivo si denunciano ancora un vizio di motivazione
in ordine all’esame del contenuto della disciplina collettiva e la

Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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ricezione da parte del datore di lavoro della comunicazione da parte

violazione delle regole di interpretazione dei contratti, sostenendosi
che la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato l’esistenza di
una norma imperativa che vieta l’assorbimento del tempo non lavorato
destinato a pause fisiologiche, mentre l’accordo sindacale prevedeva

tra “l’avviamento e messa a regime della linea produttiva”
(corrispondente all’inizio del turno) e la “predisposizione turno
seguente” (corrispondente alla fine del turno) secondo uno schema di
fruizione delle pause: si assume che tale regolamentazione assegna al
personale un trattamento di miglior favore rispetto a quello previsto
dal paradigma legale. Con il terzo motivo, con la denuncia di
violazione degli artt. 414 e 432 cod. proc. civ., artt. 1226 e 2697 cod.
civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si censura la
determinazione, ai fini dell’accoglimento della domanda, della durata
delle operazioni di vestizione e svestizione. Tale statuizione, ad avviso
della parte, è sostanzialmente immotivata, priva di una determinazione
obiettiva e ragionevole, in assenza di insufficiente documentazione
delle allegazioni del lavoratore, ed anche di qualsiasi dimostrazione
della quotidiana presenza al lavoro. Si è ignorato che il rapporto di
lavoro è stato interessato da assenze per malattie, infortuni, permessi
ed altre vicende sospensive della prestazione. Con il quarto motivo si
denuncia la violazione di plurime norme di diritto, sostenendosi che
secondo la disciplina di legge deve intendersi per orario di lavoro
quello di effettivo svolgimento delle mansioni, “al netto di quello che il
lavoratore impiega nello svolgimento di attività preparatorie”, in cui
deve includersi il tempo che il lavoratore impiega per preparare se
stesso e i propri strumenti allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si fa
riferimento a questo fine anche alla definizione di orario di lavoro

Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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per la fruizione delle pause proprio l’arco temporale intercorrente

dettata dal D.Lgs. n. 66 del 2003, di attuazione della disciplina
comunitaria, come “qualsiasi periodo in cui al lavoratore sia al lavoro,
a disposizione del datore e nell’esercizio delle sue attività o delle sue
funzioni”, per sostenere che nella fattispecie non potrebbe ravvisarsi

afferma poi che gli obblighi normativamente imposti al lavoratore
(specie per il personale delle industrie alimentari) di indossare
indumenti adeguati e se del caso protettivi, derivano dalla legge e non
possono rientrare nell’ambito delle prerogative datoriali, gravando
direttamente sul lavoratore; inoltre, che le operazioni in questione non
erano predeterminate oggettivamente dal datore di lavoro, perché il
personale poteva effettuarle in un arco temporale di massima
ovviamente collocato in un momento precedente l’inizio dell’orario di
lavoro, ma sulla base di scelte del tutto personali da parte dei
dipendenti. I lavoratori avevano facoltà di accedere in azienda fino a
29 minuti prima dell’inizio del turno lavorativo, e potevano impiegare
a loro piacimento questo intervallo temporale, come di gestire tempi e
modi della vestizione. Si tratta, secondo la parte, della cosiddetta
diligenza preparatoria in cui rientrano comportamenti che esulano di
fatto dalla stretta funzionalità del sinallagma contrattuale.
I ricorsi sono entrambi infondati.
Come si è messo in evidenza nei precedenti specifici di questa Corte,
per ragioni di priorità logica devono essere esaminate in primo luogo
le censure svolte nel ricorso incidentale, che investono con il primo,
secondo e quarto motivo la questione del diritto alla retribuzione per il
tempo occorrente ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro,
con riferimento sia alla disciplina legale dell’orario di lavoro, sia alla
regolamentazione collettiva applicabile. Tali motivi, che possono

Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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un esercizio delle funzioni in assenza di una effettiva prestazione. Si

essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono
infondati.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, in relazione
alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo

un’occupazione assidua e continuativa”, il principio secondo cui tale
disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la
divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto
retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale
ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di
operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo
svolgimento dell’attività lavorativa: così, Cass. 14 aprile 1998 n. 3763,
Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n. 19273, Cass.
10 settembre 2010 n. 19358 (che riguarda una fattispecie analoga); v.
anche Cass. 7 giugno 2012 n. 9215. È stato anche precisato (v. Cass.
25 giugno 2009 nn. 14919 e 15492) che i principi così enunciati non
possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.Lgs. 8 aprile
2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il
quale all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi
periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di
lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”;
e nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o
della funzione lascia in buona sostanza invariati – come osservato in
dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione
di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un
lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere generico della
definizione testè riportata. Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa
giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare

Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda

se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario
di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad
essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a
disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la

02, parr. 58 ss.).
Tale orientamento (come osserva la citata Cass. n. 19358/2010)
consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che
soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase
preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali,
da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c.,
comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad
esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella
preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per
indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla
prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione
aggiuntiva.
Il giudice dell’appello si è attenuto a questi principi, avendo accertato
che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali
aziendali prefissati e nei tempi delimitati non solo dal passaggio nel
tornello azionabile con il badge e quindi dalla marcatura del successivo
orologio, ma anche dal limite di 29 minuti prima dell’inizio del turno,
secondo obblighi e divieti sanzionati disciplinarmente, stabiliti dal
datore di lavoro e riferibili all’interesse aziendale, senza alcuno spazio
di discrezionalità per i dipendenti.
La sentenza ha anche negato l’esistenza di una disciplina contrattuale
collettiva tale da escludere dal tempo dell’orario di lavoro quello
impiegato per le operazioni in questione. Questa statuizione risulta

Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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propria opera (Corte Giust. Com . eur., 9 settembre 2003, causa C-151/

fondata su una compiuta ricognizione della disciplina collettiva
richiamata, nella quale non si rinviene alcuna specifica regola con il
contenuto indicato dalla ricorrente incidentale, e sfugge alle censure
mosse sotto i profili sia del vizio di motivazione che di violazione delle

delle pause fisiologiche (che non può essere riferito al tempo di quella
che viene definita come “fase preparatoria” della prestazione) e alla
destinazione di locali a spogliatoio, da cui nulla è dato desumere in
ordine alle modalità della stessa prestazione.
Il terzo motivo del ricorso incidentale va disatteso, perché la
determinazione della durata del tempo in questione (e
conseguentemente della correlativa controprestazione retributiva) è
stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la
difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il
giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli
attribuisce la norma processuale dell’art. 432 cod. proc. civ., con
apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome
adeguatamente motivato. Appare del resto del tutto infondato il rilievo
in ordine alla mancata valutazione dei periodi di assenza dal lavoro
(dedotti in modo assolutamente generico) posto che il parametro di
misura del compenso è riferito ad un periodo complessivo di diverse
annualità.
quanto al ricorso principale, con il primo motivo il ricorrente invoca
inutilmente a sostegno della propria tesi (secondo cui l’effetto
interruttivo della prescrizione ex art. 410 c.p.c., comma 2 dovrebbe
essere connesso alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di
conciliazione, con la richiesta del lavoratore, indipendentemente dalla
successiva comunicazione indirizzata dalla D.P.L. al datore di lavoro)

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regole ermeneutiche negoziali; in particolare, con riguardo al regime

la giurisprudenza di questa Corte relativa alla decadenza dalla
impugnazione del licenziamento.
Si deve infatti osservare che la norma richiamata, conservata anche
nella formulazione della L. n. 183 del 2010, art. 31 (“la comunicazione

interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di
conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il
decorso di ogni termine di decadenza”) fa riferimento a due istituti
profondamente diversi. Mentre il fondamento della prescrizione
consiste nella presunzione di abbandono di un diritto per inerzia del
titolare, il fondamento della decadenza si coglie nell’esigenza obiettiva
del compimento di particolari atti entro un termine perentorio stabilito
dalla legge, oltre il quale l’atto è inefficace, senza che abbiano rilievo le
situazioni soggettive che hanno determinato l’inutile decorso del
termine o l’inerzia del titolare, e senza possibilità di applicare alla
decadenza le norme relative all’interruzione della prescrizione. Come
questa Corte ha già avuto occasione di osservare (v. Cass. 1 giugno
2006 n. 13046) la disposizione intende chiaramente distinguere gli
effetti che il tentativo obbligatorio di conciliazione ha ai fini della
interruzione della prescrizione dalle conseguenze che da esso derivano
con riferimento à termini decadenziali. Con riguardo alla decadenza
dal potere di impugnazione del licenziamento, la sospensione del
termine opera a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della
procedura di conciliazione (contenente l’impugnativa del
licenziamento) essendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di
controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provvede a
comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di
conciliazione (v. in tal senso la giurisprudenza consolidata a partire da

Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione

Cass. 19 giugno 2006 n. 14087). Invece, solo con la comunicazione al
creditore della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione
si verifica l’effetto di interruzione della prescrizione con effetto
permanente fino al termine di venti giorni successivi alla conclusione

marzo 2009 n. 6336).
Nella specie, il giudice dell’appello si è attenuto a tale principio di
diritto – che va qui riaffermato – escludendo l’interruzione della
prescrizione in assenza di prova della suddetta comunicazione alla
società datrice di lavoro.
Il secondo e il terzo motivo del ricorso principale devono essere
disattesi perché la valutazione in ordine all’opportunità di fare ricorso
alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo
processo logico e stabilirne la rispondenza ai requisiti di legge, è
riservata all’apprezzamento di fatto del giudice di merito. Dunque,
l’utilizzazione o meno del ragionamento presuntivo può essere criticata
in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione, ma
tale censura non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso
da quello espresso dal giudice di merito, dovendo far emergere
l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio; resta
peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento
indiziario (nella specie, neppure specificamente dedotto) possa dare
luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (v. per tutte Cass.
21 ottobre 2003 n. 15737, 11 maggio 2007 n. 10847).
Il quarto motivo dello stesso ricorso principale appare infondato,
essendo sufficiente rilevare in proposito che il mancato esercizio da
parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ.,
preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola

Ric. 2011 n. 12509 sez. ML – ud. 15-04-2014
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della procedura conciliativa (Cass. 24 novembre 2008 n. 27882, 16

di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con
ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso
giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi
mezzi istruttori. D’altro canto, non è neppure prospettabile una

trasmissione al datore di lavoro, ad opera della D.P.L., della richiesta di
espletamento del tentativo di conciliazione; prova che può essere
certamente acquisita con l’accesso alla documentazione presso l’ufficio.
Per la stessa ragione, risulta manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2, prospettata per
la violazione degli artt. 24, 36 e 111 Cost. in relazione alla prova
dell’atto interruttivo della prescrizione.
Entrambi i ricorsi devono essere quindi respinti. La reciprocità della
soccombenza comporta che le spese devono essere compensate
interamente tra le parti ai sensi dell’art. 92, secondo comma, c.p.c.
P. Q.M.
La Corte riuniti i ricorsi, li rigetta e compensa le spese del giudizio di
legittimità.
Così deciso in Roma, il 15 aprile 2014.

impossibilità del lavoratore di fornire la prova della avvenuta

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