Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13008 del 24/05/2017

Cassazione civile, sez. lav., 24/05/2017, (ud. 01/12/2016, dep.24/05/2017),  n. 13008

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24512-2013 proposto da:

M.N. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE DEL CICLISMO 14, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE

DANTE, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

EMMEDUE DI CESCATI E & DI PERINI L. S.N.C. P.I. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante C.E., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio

dell’avvocato NICOLA DOMENICO PETRACCA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MAURIZIO RUBIN, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3623/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/05/2013 R.G.N. 7170/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. DE GREGORIO FEDERICO;

udito l’Avvocato DANTE GIUSEPPE;

udito l’Avvocato SOLFANELLI ANDREA per delega Avvocato PETRACCA

NICOLA DOMENICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO che ha concluso per inammissibilità del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

M.N., agente con rappresentanza dal dicembre 1996 della EMMEDUE s.n.c. (azienda operante nel settore merceologico della oggettistica religiosa), convenne in giudizio detta società allegando l’assenza di giusta causa in ordine al recesso dal contratto di agenzia comunicato dalla proponente in data 21 giugno 2002, chiedendo la condanna di Emmedue s.n.c. al pagamento di Euro 276.146,45 a titolo di indennità ex art. 1751 c.c. e di mancato preavviso, oltre ad Euro 100.000,00 a titolo di risarcimento danni conseguenti all’illegittimo recesso, ed in via subordinata la condanna al pagamento di Euro 159.144,99 a titolo di FIRR residuo, indennità suppletiva di clientela, indennità di mancato preavviso, oltre al risarcimento danni per illegittimo recesso in ragione di Euro 100.000.

All’esito della prova testimoniale il giudice adito rigettava le domande dell’attore.

La pronuncia di rigetto (n. 10743/25 – 29 maggio 2006) veniva appellata da M.N., come da ricorso notificato il 13 maggio 2008. Nel corso del giudizio di secondo grado, l’appellante rinunciava alla domanda di condanna al pagamento dell’indennità ex art. 1751 c.c., chiedendo l’accoglimento delle conclusioni rassegnate in un primo momento in via subordinata.

La Corte di Appello di Roma con sentenza n. 3623 del 20 aprile 2012, pubblicata mediante deposito il 2 maggio 2013, rigettava l’interposto gravame, condannando l’appellante alle relative spese. La Corte capitolina giudicava del tutto infondate le doglianze del M., per cui in base alle acquisite risultanze istruttorie riteneva di poter affermare che l’attore nei primi mesi dell’anno 2002 aveva sostanzialmente avviato un’attività nettamente concorrenziale con quella della società della quale era agente. In concomitanza con tali iniziative la Emmedue aveva subito un netto calo del fatturato coincidente con un calo altrettanto netto degli ordinativi procurati dal M.. Il collegamento causale tra la condotta del ricorrente e le conseguenze sull’andamento economico della società rappresentava la spiegazione più probabile, in assenza di altri elementi che potessero indurre ad una diversa conclusione. Sussisteva palesemente la giusta causa di recesso da parte della proponente, con conseguente infondatezza delle domande avanzate dall’attore nei confronti di parte convenuta, nei riguardi della quale peraltro non era azionabile la domanda rivolta ad ottenere il residuo FIRR.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione M.N. con atto in data 17/18 ottobre 2013, affidato ad un unico motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 10, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che (asseritamente) era stato oggetto di discussione tra le parti.

All’impugnazione avversaria ha resistito EMMEDUE s.n.c. di C. E. e di P. L., come da controricorso in data 4/5 dicembre 2013.

Non risultano depositate memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

In sintesi, il ricorrente ha sostenuto che la Corte d’Appello non aveva considerato il fatto che la Emmedue aveva affidato al M., insieme a quello di curare le vendite, anche l’incarico di marketing, incarico questo che richiedeva necessariamente i contatti con i fornitori nell’interesse della mandante. Se il giudice del merito avesse tenuto conto che tali contatti rientravano nell’incarico pure ricevuto dalla Emmedue, non avrebbe potuto qualificarli come attività concorrenziale, idonea ad ingenerare sfiducia nella mandante, giustificandone così il recesso in tronco. Il convincimento di entrambi i giudici del merito risultava pertanto viziato alla radice del percorso motivazionale, per l’omesso esame circa il fatto decisivo del doppio incarico affidato dalla proponente (marketing e direzione vendite), comprovato dal catalogo dei prodotti della Emmedue, ritualmente allegato (sub doc. n. 14) al ricorso introduttivo del giudizio e di cui la resistente non aveva mai contestato la genuinità. Tale fatto decisivo, del doppio incarico, era stato espressamente richiamato nell’atto di appello e quindi proposto al contraddittorio con la controparte, che aveva preferito tacere del tutto al riguardo: un silenzio emblematico della consapevolezza di una discussione che l’avrebbe vista perdente.

In effetti, la Corte d’Appello aveva esaminato la testimonianza resa dal legale rappresentante della MY WAY NET S.r.l., signor C., il quale era stato escusso all’udienza del 9 giugno 2005, allorchè aveva escluso categoricamente un’attività concorrenziale il danno della Emmedue da parte del M., dichiarando che costui non gli aveva mai chiesto di lavorare per la sua società, nè aveva mai commercializzato prodotti della stessa. Il teste aveva, altresì, precisato di aver sempre consegnato alcuni campioni al M. in qualità di agente della Emmedue, della quale era fornitore e alla quale fatturava tutto. La Corte di Appello aveva colto la rilevanza di tale testimonianza, ma ne aveva escluso la portata risolutiva in ordine alla insussistenza dei motivi che potessero giustificare il recesso in tronco, e ciò proprio perchè non aveva tenuto conto della decisiva circostanza per cui il mandato di agenzia conferito comprendeva anche il marketing, cioè la ricerca sul mercato di altri prodotti da farne eventualmente rientrare nel catalogo della proponente.

La comprovata esclusione di qualsivoglia attività di vendita di tali prodotti da parte del M. era in effetti diretta a saggiare l’appetibilità, per la clientela della Emmedue, di nuovi prodotti da inserire eventualmente in catalogo per essere commercializzati da quest’ultima: un’attività di marketing, dunque, svolta nell’interesse della preponente e quindi perfettamente rientrante dell’incarico ricevuto.

Orbene, va subito rilevato come nell’introdurre l’anzidetto unico motivo di ricorso, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, parte ricorrente abbia, comunque erroneamente, prospettato questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 348 ter c.p.c., assumendo che nella specie potesse risultare applicabile anche l’u.c. dell’art. 348 ter in ordine all’impossibilità di dedurre il vizio di motivazione, ex art. 360 n. 5 cit., nel caso di c.d. doppia conforme in base al rigetto della sentenza di primo grado, confermato da quella di appello.

Evidentemente, il ricorrente ignora che nel caso qui in esame catione temporis è inapplicabile l’anzidetto articolo 348 ter, co. V, in base a regime transitorio di pertinenza, visto che la sentenza di appello, pubblicata il 29-05-2006 (con conseguente termine annuale massimo per l’impugnazione ex art. 327 c.p.c., secondo il testo allora vigente, che scadeva quindi 30 maggio 2007, non operando nella specie la sospensione feriale), il ricorso di appello risale all’anno 2006 (v. infatti il numero di r.g., 7170/06, indicato nella sentenza n. 3623/12), ancorchè poi notificato il 13 maggio 2008, pertanto molto tempo prima dell’11 settembre 2012.

Infatti l’art. 348 – ter è stato inserito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. a), conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134. La norma, per espressa previsione della D.L. art. 54, comma 2, cit., “si applica ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto (avvenuta il 12 agosto 2012)”.

Nella specie, invece, è applicabile il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (cit. D.L. n. 83, ex art. 54, comma 1, lett. b)), visto che la sentenza de qua è stata pubblicata il due maggio 2013, perciò ben oltre il termine del 12 agosto/11 settembre 2012, di cui all’apposito regime transitorio ex art. 54, comma 3, dello stesso decreto legge (v. peraltro al riguardo Cass. 1 civ. n. 7983 del 04/04/2014, secondo cui l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, va inteso, in applicazione dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 disp. prel. c.c., tenendo conto della prospettiva della novella, mirata ad evitare l’abuso dei ricorsi basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, supportando la generale funzione nomofilattica della Corte di cassazione. Ne consegue che: a) l'”omesso esame” non può intendersi che “omessa motivazione”, perchè l’accertamento se l’esame del fatto è avvenuto o è stato omesso non può che risultare dalla motivazione; b) i fatti decisivi e oggetto di discussione, la cui omessa valutazione è deducibile come vizio della sentenza impugnata, sono non solo quelli principali ma anche quelli secondari; c) è deducibile come vizio della sentenza soltanto l’omissione e non più l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione, salvo che tali aspetti, consistendo nell’estrinsecazione di argomentazioni non idonee a rivelare la “ratio decidendi”, si risolvano in una sostanziale mancanza di motivazione).

Più in particolare, quanto poi alla portata dell’art. 360 codice di rito, n. 5, va dunque, richiamato l’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, secondo cui la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, disposta dal legislatore del 2012 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass. sez. un. civ. n. 8053 del 7/4/2014, idem n. 8054/13. In senso conforme v. altresì Cass. civ. 6 – 3, ordinanza n. 21257 – 08/10/2014 e sentenza n. 23828 del 20/11/2015).

Tanto premesso, le anzidette censure di parte ricorrente appaiono inammissibili nell’ambito nei rigorosi limiti fissati dal citato art. 360, secondo la critica, appunto vincolata, ivi ammessa, alla stregua di quanto motivatamente e dettagliatamente accertato e di conseguenza valutato dalla competente Corte di merito, su specifiche circostanze in netto contrasto con il fatto del cui mancato esame si duole il ricorrente (v. in part. i riferimenti contenuti nell’impugnata sentenza alla testimonianza D. in ordine a quanto appreso dal M. agli inizi dell’anno 2002 e all’episodio verificatosi in occasione di una fiera a Milano e a quello avvenuto nell’estate 2002 nel corso di una visita ad una congregazione religiosa cliente della EMMEDUE, allorchè pure il teste fu presente; v. ancora la circostanza relativa alla lettera datata 9 luglio 2002 delle (OMISSIS) diretta alla EMMEDUE unitamente alle testimonianze D. e C.; cfr. ancora i rapporti intrattenuti dal M. con la MY WAY NET S.r.l., ai fini della commercializzazione in proprio di prodotti da parte del ricorrente, allora appellante – a pagine 3 e 4 della sentenza qui impugnata; v. altresì la vicenda ALVA Snc, nonchè la testimonianza G. in ordine al forte decremento di fatturato nel corso dell’anno 2002 in coincidenza con il calo degli ordini acquisiti dal M. a pag. 4 della medesima sentenza).

Peraltro, va anche rilevato come il ricorrente, pur richiamando il suo ricorso d’appello -laddove assumeva che l’attività svolta a favore della EMMEDUE non era limitata al settore vendite, riguardando anche il marketing, con compiti di avere rapporti con i fornitori per individuare i prodotti da promuovere – abbia però completamente taciuto in proposito eventuali similari allegazioni contenute nel ricorso introduttivo, con conseguente inammissibilità per omessa completa esposizione dei fatti di causa e specifica indicazione dei relativi atti (art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6), di modo che l’anzidetta circostanza marketing deve ritenersi pure del tutto nuova in sede di appello, perciò in violazione dell’art. 437 c.p.c..

Diventa tardiva, quindi, la contestazione solo in appello, la quale, pur non integrando eccezione in senso proprio, risulta preclusa ostandovi il divieto di nova sancito dall’art. 437 c.p.c., che riguarda non soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma anche le circostanze nuove, ossia non esplicate in primo grado (cfr. Cass. 28.5.2007 n. 12363, 16.2.2000n. 1745) e ciò per il combinato disposto con l’art. 416 c.p.c. (che, infatti, parla di onere di tempestiva contestazione a pena di decadenza, decadenza che verrebbe frustrata se le contestazioni potessero opporsi anche soltanto in appello) e perchè nuove contestazioni in secondo grado, modificando i temi di indagine, trasformerebbero il giudizio d’appello da mera revisio prioris instantiae in judicium novum, il che è estraneo al vigente ordinamento processuale. Inoltre, altererebbero la parità delle parti, esponendo l’altra parte – a fronte della tardiva contestazione effettuata solo in appello – all’impossibilità di chiedere l’assunzione di quelle prove cui, in ipotesi, aveva rinunciato confidando nella mancata contestazione ad opera dell’avversario (cfr. del resto anche Cass. sez. un. civ., laddove è stato ricordato che in base al combinato disposto dell’art. 416 c.p.c., comma 3, – secondo cui convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare- l’onere probatorio grava anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977, di modo che ex art. 437, comma 2, dello steso codice di rito opera anche il divieto di novità in grado di appello, per cui le relative omissioni nell’atto introduttivo del giudizio determinano la conseguente decadenza, donde pure irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, che rende quindi il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello. In senso analogo v. tra le altre anche Cass. lav. n. 14696 del 25/06/2007).

D’altro canto, va ancora ricordato (cfr. più recentemente Cass. 1, civ. n. 16526 del 05/08/2016) che in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì Cass. 1^ civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007).

Invero, lo stesso cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 3^ civ. n. 11892 del 10/06/2016).

Peraltro, quanto poi, alla contestata portata delle testimonianze, sulle quali la Corte di Appello ha motivatamente ritenuto di fondare la propria decisione, premesso che le contrarie asserzioni non risultano accompagnate da integrali e/o comunque sufficienti ed esaurienti correlative riproduzioni o assunzioni, va ricordato che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni testimoniali, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 1, civ. n. 16056 del 2/8/2016. Conformi, tra le varie, Cass. lav. n. 17097 del 21/07/2010, 3, civ. n. 12362 del 24/05/2006 e numerose altre di segno analogo).

Nel caso di specie, dunque, non è ravvisabile alcun vizio ex art. 360, n. 5 cit., tenuto conto della più che sufficiente motivazione svolta con la sentenza di appello, che ha ritenuto infondata nel merito la domanda dell’attore.

Pertanto, il ricorso va respinto, con conseguente condanna alle relative spese del soccombente, tenuto altresì come per legge al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

 

La Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che si liquidano a favore della controricorrente in Euro cinquemila/00 per compensi professionali ed in cento/00 Euro per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2017

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