Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13005 del 10/06/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 13005 Anno 2014
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: CURZIO PIETRO

SENTENZA
sul ricorso 8830-2011 proposto da:
VINCIGUERRA

ANTONIETTA

VNCNNT45L56F839K,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la
CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli QUATTROMINI
PAOLA, QUATTROMINI GIULIANA giusta procura a margine del
ricorso;
– ricorrente contro
UNILEVER ITALIA MANUFACTURING SRL 00846710150, (già
SAGIT SRL, incorporata nella UNILEVER ITALIA SPA, come da
atto di fusione per incorporazione), in persona dell’amministratore,

Data pubblicazione: 10/06/2014

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE U. TUPINI 133, presso
lo studio dell’avvocato BRAGAGLIA ROBERTO, rappresentata e
difesa dall’avvocato GOMEZ D’AYALA GIULIO giusta mandato in
calce al controricorso e ricorso incidentale;

avverso la sentenza n. 7909/2010 della CORTE D’APPELLO di
NAPOLI del 25/11/2010, depositata 11 03/12/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
15/04/2014 dal Presidente Relatore Dott. PIETRO CURZIO.
Ragioni della decisione
Deve premettersi che le medesime questioni oggetto di questa causa
sono state già sottoposte alla Corte di cassazione in analoghi giudizi,
decisi con una serie di sentenze (cfr., per tutte, Cass. 16 gennaio 2014,
n. 801) dalle cui conclusioni e motivazioni non vi è ragione di
discostarsi e che devono essere qui richiamate ai sensi dell’art. 118
disp. att c.p.c.
h/ricorrente principale ha dedotto di aver lavorato alle dipendenze
della società SAGIT come addetto alla lavorazione di gelati e surgelati,
obbligato ad indossare una tuta, scarpe antinfortunistiche copricapo e
indumenti intimi forniti dall’azienda e a presentarsi al lavoro 15/20
minuti prima dell’inizio dell’orario di lavoro aziendale; solo dopo aver
indossato tali abiti ed essere passato da un tornello con marcatura del
badge poteva entrare nel luogo di lavoro accedendo al reparto dove
una macchina bottatrice rilevava l’orario di ingresso. Tali operazioni si
ripetevano al termine dell’orario di lavoro per dismettere gli indumenti
indossati. Il ricorrente ha chiesto il pagamento delle differenze
retributive dovute per il tempo di tali prestazioni, a titolo di compenso
per lavoro straordinario e in via subordinata come compenso per
Ric. 2011 n. 08830 sez. ML – ud. 15-04-2014
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– controricorrente e ricorrente incidentale –

lavoro

ordinario.

La Unilever Italia s.r.1., (già SAGIT sii) si è costituita in giudizio. Il
Tribunale di Napoli ha rigettato la domanda; con la sentenza oggi
impugnata la Corte di Appello di Napoli ha riformato tale decisione,
riconoscendo il diritto del dipendente alla retribuzione per il tempo

carattere necessario e obbligatorio per l’espletamento dell’attività
lavorativa, e del fatto che anche tale operazione si svolgeva sotto la
direzione del datore di lavoro. Una diversa regolamentazione di tale
attività non poteva essere desunta, sul piano della disciplina collettiva,
dal “silenzio” dell’autonomia collettiva sul problema del “tempo tuta”,
ne’ da accordi aziendali intervenuti per la disciplina delle pause
fisiologiche.
La sentenza impugnata ha determinato il tempo di tali attività, facendo
ricorso a nozioni di comune esperienza, in dieci minuti per ognuna
delle due operazioni giornaliere (vestizione e svestizione),
commisurando quindi il compenso dovuto alla retribuzione oraria
fissata dal contratto collettivo applicabile.
La Corte ha poi accolto l’eccezione di parziale prescrizione
(quinquennale) sollevata da parte convenuta, tenuto conto
dell’interruzione della prescrizione operata con lettera di messa in
mora. Non poteva invece essere valutata a tal fine, secondo la Corte di
Appello, la richiesta di tentativo di conciliazione presentata
anteriormente alla Direzione Provinciale del Lavoro, che non risultava
inoltrata alla società datrice di lavoro.
Contro la sentenza della Corte d’appello parte ricorrente ha proposto
ricorso per cassazione articolato in quattro motivi. La società intimata
ha depositato controricorso con ricorso incidentale, a sua volta
articolato in quattro motivi.
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impiegato nelle operazioni di vestizione e svestizione, in ragione del

Il ricorso principale investe la sola statuizione relativa alla decorrenza
della prescrizione, censurata perché la Corte non considera valido atto
interruttivo la mera presentazione della richiesta di tentativo
obbligatorio di conciliazione rivolta alla Direzione Provinciale del
Lavoro. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2943

questa Corte che connette gli effetti di interruzione della prescrizione e
di sospensione dei termini di decadenza ex art. 410 c.p.c., comma 2 alla
mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione. Con il
secondo motivo dello stesso ricorso principale, mediante la denuncia
di violazione dell’art. 2729 cod. proc. civ., si lamenta che la sentenza
impugnata non ha esaminato la possibilità di desumere una prova
presuntiva dell’inoltro della comunicazione della suddetta richiesta al
datore di lavoro dalla circostanza che richieste del genere vengono
generalmente inoltrate dalla D.P.L.; e ciò anche perché neppure la
società UNILEVER aveva obiettato di aver ricevuto la comunicazione.
La stessa censura viene proposta con il successivo terzo motivo sotto il
profilo del difetto di motivazione della sentenza impugnata. Con il
quarto motivo si denuncia la violazione dell’art. 421 c.p.c., comma 2,
dell’art. 115 cod. proc. civ., rilevandosi che il lavoratore resta in
possesso soltanto dell’istanza diretta alla D.P.L. con cui promuove il
tentativo di conciliazione e non della conseguente comunicazione
inoltrata al datore di lavoro dalla D.P.L., che rimane in possesso della
prova della spedizione e ricezione dell’avviso. Il lavoratore si trova
nella impossibilità di documentare la circostanza, sicché sarebbe stato
doveroso per la Corte di Appello esercitare i poteri officiosi ex art. 421
cod. proc. civ. per accertare la ricezione della convocazione da parte
della

società.

In via subordinata, si solleva questione di legittimità costituzionale
Ric. 2011 n. 08830 sez. ML – ud. 15-04-2014
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cod. civ. e dell’art. 410 cod. proc. civ., richiamando la giurisprudenza di

dell’art. 410 c.p.c., comma 2, in relazione agli artt. 24, 36 e 111 Cost.
nella parte in cui connette l’interruzione della prescrizione alla
ricezione da parte del datore di lavoro della comunicazione da parte
della D.P.L. dell’av-venuta instaurazione del tentativo di conciliazione
anziché alla mera proposizione di tale richiesta da parte del lavoratore.

della disciplina dei CCNL del settore industria alimentare e degli
accordi aziendali del 16.11.1999, in relazione all’art. 2099 cod. civ. e art.
36 Cost., nonché delle regole di cui all’art. 1362 c.c. e segg., e difetto di
motivazione. La sentenza impugnata viene censurata per non aver
valutato l’incidenza sull’assetto negoziale del rapporto della
contrattazione collettiva, che secondo la parte esclude il pagamento di
una retribuzione ulteriore del tempo impiegato sia per raggiungere i
reparti, sia per indossare e togliere gli indumenti di lavoro, correlando
la retribuzione dovuta al solo tempo della prestazione lavorativa
effettiva. La società, premesso che la determinazione quantitativa della
retribuzione risulta soprattutto dalla disciplina collettiva, trae
argomenti a sostegno della propria tesi dalle norme contrattuali in tema
di durata e distribuzione dell’orario di lavoro e di riduzione dello stesso
(correlata al godimento di riposi individuali) nonché dalla clausola del
CCNL applicabile che, imponendo all’azienda di destinare un locale a
spogliatoio, dispone che questo debba rimanere chiuso durante l’orario
di lavoro; tale previsione escluderebbe che il tempo da destinare alla
vestizione possa rientrare nella prestazione lavorativa. Con il secondo
motivo si denunciano ancora un vizio di motivazione in ordine
all’esame del contenuto della disciplina collettiva e la violazione delle
regole di interpretazione dei contratti, sostenendosi che la Corte di
Appello avrebbe erroneamente affermato l’esistenza di una norma
imperativa che vieta l’assorbimento del tempo non lavorato destinato a
Ric. 2011 n. 08830 sez. ML – ud. 15-04-2014
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Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia una violazione

pause fisiologiche, mentre l’accordo sindacale prevedeva per la
fruizione delle pause proprio l’arco temporale intercorrente tra
“l’avviamento e messa a regime della linea produttiva” (corrispondente
all’inizio del turno) e la “predisposizione turno seguente”
(corrispondente alla fine del turno) secondo uno schema di fruizione

un trattamento di miglior favore rispetto a quello previsto dal
paradigma legale. Con il terzo motivo, con la denuncia di violazione
degli artt. 414 e 432 cod. proc. civ., artt. 1226 e 2697 cod. civ. in
relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si censura la determinazione, ai
fini dell’accoglimento della domanda, della durata delle operazioni di
vestizione e svestizione. Tale statuizione, ad avviso della parte, è
sostanzialmente immotivata, priva di una determinazione obiettiva e
ragionevole, in assenza di insufficiente documentazione delle
allegazioni del lavoratore, ed anche di qualsiasi dimostrazione della
quotidiana presenza al lavoro. Si è ignorato che il rapporto di lavoro è
stato interessato da assenze per malattie, infortuni, permessi ed altre
vicende sospensive della prestazione. Con il quarto motivo si denuncia
la violazione di plurime norme di diritto, sostenendosi che secondo la
disciplina di legge deve intendersi per orario di lavoro quello di
effettivo svolgimento delle mansioni, “al netto di quello che il
lavoratore impiega nello svolgimento di attività preparatorie”, in cui
deve includersi il tempo che il lavoratore impiega per preparare se
stesso e i propri strumenti allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si fa
riferimento a questo fine anche alla definizione di orario di lavoro
dettata dal D.Lgs. n. 66 del 2003, di attuazione della disciplina
comunitaria, come “qualsiasi periodo in cui al lavoratore sia al lavoro, a
disposizione del datore e nell’esercizio delle sue attività o delle sue
funzioni”, per sostenere che nella fattispecie non potrebbe ravvisarsi
Ric. 2011 n. 08830 sez. ML – ud. 15-04-2014
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delle pause: si assume che tale regolamentazione assegna al personale

un esercizio delle funzioni in assenza di una effettiva prestazione. Si
afferma poi che gli obblighi normativamente imposti al lavoratore
(specie per il personale delle industrie alimentari) di indossare
indumenti adeguati e se del caso protettivi, derivano dalla legge e non
possono rientrare nell’ambito delle prerogative datoriali, gravando

erano predeterminate oggettivamente dal datore di lavoro, perché il
personale poteva effettuarle in un arco temporale di massima
ovviamente collocato in un momento precedente l’inizio dell’orario di
lavoro, ma sulla base di scelte del tutto personali da parte dei
dipendenti. I lavoratori avevano facoltà di accedere in azienda fino a
29 minuti prima dell’inizio del turno lavorativo, e potevano impiegare a
loro piacimento questo intervallo temporale, come di gestire tempi e
modi della vestizione. Si tratta, secondo la parte, della cosiddetta
diligenza preparatoria in cui rientrano comportamenti che esulano di
fatto dalla stretta funzionalità del sinallagma contrattuale.
I ricorsi sono entrambi infondati.
Come si è messo in evidenza nei precedenti specifici di questa Corte,
per ragioni di priorità logica devono essere esaminate in primo luogo le
censure svolte nel ricorso incidentale, che investono con il primo,
secondo e quarto motivo la questione del diritto alla retribuzione per il
tempo occorrente ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro,
con riferimento sia alla disciplina legale dell’orario di lavoro, sia alla
regolamentazione collettiva applicabile. Tali motivi, che possono essere
esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, in relazione
alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo cui
“è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda
un’occupazione assidua e continuativa”, il principio secondo cui tale
Ric. 2011 n. 08830 sez. ML – ud. 15-04-2014
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direttamente sul lavoratore; inoltre, che le operazioni in questione non

disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la
divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto
retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale
ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di
operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo

Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n. 19273, Cass.
10 settembre 2010 n. 19358 (che riguarda una fattispecie analoga); v.
anche Cass. 7 giugno 2012 n. 9215. È stato anche precisato (v. Cass. 25
giugno 2009 nn. 14919 e 15492) che i principi così enunciati non
possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.Lgs. 8 aprile
2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il
quale all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo
in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e
nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”;
e nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o
della funzione lascia in buona sostanza invariati – come osservato in
dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione
di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un
lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere generico della
definizione testé riportata. Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa
giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare
se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di
lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere
fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di

quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte
Giust. Com. eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 ss.).
Tale orientamento (come osserva la citata Cass. n. 19358/2010)
consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che
Ric. 2011 n. 08830 sez. ML – ud. 15-04-2014
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svolgimento dell’attività lavorativa: così, Cass. 14 aprile 1998 n. 3763,

soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase
preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali,
da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma
2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio
può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di

da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa
finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.
Il giudice dell’appello si è attenuto a questi principi, avendo accertato
che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali
aziendali prefissati e nei tempi delimitati non solo dal passaggio nel
tomello azionabile con il badge e quindi dalla marcatura del successivo
orologio, ma anche dal limite di 29 minuti prima dell’inizio del turno,
secondo obblighi e divieti sanzionati disciplinarmente, stabiliti dal
datore di lavoro e riferibili all’interesse aziendale, senza alcuno spazio
di discrezionalità per i dipendenti.
La sentenza ha anche negato l’esistenza di una disciplina contrattuale
collettiva tale da escludere dal tempo dell’orario di lavoro quello
impiegato per le operazioni in questione. Questa statuizione risulta
fondata su una compiuta ricognizione della disciplina collettiva
richiamata, nella quale non si rinviene alcuna specifica regola con il
contenuto indicato dalla ricorrente incidentale, e sfugge alle censure
mosse sotto i profili sia del vizio di motivazione che di violazione delle
regole ermeneutiche negoziali; in particolare, con riguardo al regime
delle pause fisiologiche (che non può essere riferito al tempo di quella
che viene definita come “fase preparatoria” della prestazione) e alla
destinazione di locali a spogliatoio, da cui nulla è dato desumere in
ordine alle modalità della stessa prestazione.
Il terzo motivo del ricorso incidentale va disatteso, perché la
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conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti

determinazione della durata del tempo in questione (e
conseguentemente della correlativa controprestazione retributiva) è
stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la
difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il
giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli attribuisce

in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato.
Appare del resto del tutto infondato il rilievo in ordine alla mancata
valutazione dei periodi di assenza dal lavoro (dedotti in modo
assolutamente generico) posto che il parametro di misura del
compenso è riferito ad un periodo complessivo di diverse annualità.
quanto al ricorso principale, con il primo motivo il ricorrente invoca
inutilmente a sostegno della propria tesi (secondo cui l’effetto
interruttivo della prescrizione ex art. 410 c.p.c., comma 2 dovrebbe
essere connesso alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di
conciliazione, con la richiesta del lavoratore, indipendentemente dalla
successiva comunicazione indirizzata dalla D.P.L. al datore di lavoro)
la giurisprudenza di questa Corte relativa alla decadenza dalla
impugnazione del licenziamento.
Si deve infatti osservare che la norma richiamata, conservata anche
nella formulazione della L. n. 183 del 2010, art. 31 (“la comunicazione
della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe
la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e
per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni
termine di decadenza”) fa riferimento a due istituti profondamente
diversi. Mentre il fondamento della prescrizione consiste nella
presunzione di abbandono di un diritto per inerzia del titolare, il
fondamento della decadenza si coglie nell’esigenza obiettiva del
compimento di particolari atti entro un termine perentorio stabilito
Ric. 2011 n. 08830 sez. ML – ud. 15-04-2014
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la norma processuale dell’art. 432 cod. proc. civ., con apprezzamento

dalla legge, oltre il quale l’atto è inefficace, senza che abbiano rilievo le
situazioni soggettive che hanno determinato l’inutile decorso del
termine o l’inerzia del titolare, e senza possibilità di applicare alla
decadenza le norme relative all’interruzione della prescrizione. Come
questa Corte ha già avuto occasione di osservare (v. Cass. 1 giugno

effetti che il tentativo obbligatorio di conciliazione ha ai fini della
interruzione della prescrizione dalle conseguenze che da esso derivano
con riferimento ai termini decadenziali. Con riguardo alla decadenza
dal potere di impugnazione del licenziamento, la sospensione del
termine opera a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della
procedura di conciliazione (contenente l’impugnativa del
licenziamento) essendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di
controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provvede a
comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di
conciliazione (v. in tal senso la giurisprudenza consolidata a partire da
Cass. 19 giugno 2006 n. 14087). Invece, solo con la comunicazione al
creditore della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione si
verifica l’effetto di interruzione della prescrizione con effetto
permanente fino al termine di venti giorni successivi alla conclusione
della procedura conciliativa (Cass. 24 novembre 2008 n. 27882, 16
marzo 2009 n. 6336).
Nella specie, il giudice dell’appello si è attenuto a tale principio di
diritto – che va qui riaffermato – escludendo l’interruzione della
prescrizione in assenza di prova della suddetta comunicazione alla
società datrice di lavoro.
Il secondo e il terzo motivo del ricorso principale devono essere
disattesi perché la valutazione in ordine all’opportunità di fare ricorso
alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo
Ric. 2011 n. 08830 sez. ML – ud. 15-04-2014
-11-

2006 n. 13046) la disposizione intende chiaramente distinguere gli

processo logico e stabilirne la rispondenza ai requisiti di legge, è
riservata all’apprezzamento di fatto del giudice di merito. Dunque,
l’utilizzazione o meno del ragionamento presuntivo può essere criticata
in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione, ma
tale censura non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso

l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio; resta
peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento
indiziario (nella specie, neppure specificamente dedotto) possa dare
luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (v. per tutte Cass.
21 ottobre 2003 n. 15737, 11 maggio 2007 n. 10847).
Il quarto motivo dello stesso ricorso principale appare infondato,
essendo sufficiente rilevare in proposito che il mancato esercizio da
parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ.,
preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola
di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con
ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice
di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi
istruttori. D’altro canto, non è neppure prospettabile una impossibilità
del lavoratore di fornire la prova della avvenuta trasmissione al datore
di lavoro, ad opera della D.P.L., della richiesta di espletamento del
tentativo di conciliazione; prova che può essere certamente acquisita
con l’accesso alla documentazione presso l’ufficio.
Per la stessa ragione, risulta manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2, prospettata per
la violazione degli artt. 24, 36 e 111 Cost. in relazione alla prova
dell’atto interruttivo della prescrizione.

Ric. 2011 n. 08830 sez. ML – ud. 15-04-2014
-12-

da quello espresso dal giudice di merito, dovendo far emergere

o

Entrambi i ricorsi devono essere quindi respinti. La reciprocità della
soccombenza comporta che le spese devono essere compensate
interamente tra le parti ai sensi dell’art. 92, secondo comma, c.p.c.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta e compensa le spese del giudizio di

Così deciso in Roma, il 15 aprile 2014.

legittimità.

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