Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13002 del 23/06/2016

Cassazione civile sez. III, 23/06/2016, (ud. 02/03/2016, dep. 23/06/2016), n.13002

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23502/2014 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUIGI

LUCIANI 1, presso lo studio dell’avvocato DANIELE MANCA BITTI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABRIZIO TOMASELLI

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.A.G., G.A., G.G.

G., G.M.G., GR.RO. DECEDUTA E PER

ESSA EREDI IMPERSONALMENTE COLLETTIVAMENTE, G.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1108/2013 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 07/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/03/2016 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

udito l’Avvocato DANIELE MANCA BITTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso del 1994 al Pretore di Bergamo finalizzato all’applicazione della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, comma 10, G.R. convenne in giudizio i propri germani G. A.G., A., G.G., Ro., M. G. e F., chiedendo che venisse riconosciuto il suo diritto al riscatto in relazione alle quote di spettanza dei convenuti sui beni immobili appartenenti al defunto padre G.M., morto in data (OMISSIS).

A sostegno della domanda espose che egli si era sempre dedicato della coltivazione dei terreni e dell’allevamento del bestiame nell’ambito dell’azienda agricola familiare della quale era unico titolare il padre e che le sorelle avevano cessato di partecipare all’azienda medesima a seguito dei loro matrimoni.

Si costituirono in giudizio le sorelle, contestando il fondamento della domanda e dando atto della pendenza di un giudizio di divisione da loro instaurato in una data precedente (1993).

Il Pretore dichiarò inammissibile il ricorso, rilevando che era necessario definire prima il giudizio di divisione e di impugnazione del testamento del defunto G.M., al fine di determinare le quote oggetto di riscatto.

2. Contro la decisione del Pretore G.R. propose reclamo al Tribunale di Bergamo, Sezione specializzata agraria, ai sensi della L. 22 luglio 1966, n. 607, art. 5, richiamata dalla L. n. 590 del 1965, art. 8, comma 10.

Il Tribunale, con sentenza del 21 febbraio 1997, dichiarò la propria incompetenza per materia in ordine alle domande finalizzate ad ottenere la nullità del testamento e la riduzione delle disposizioni testamentarie per lesione della quota di legittima. Indi, con separata ordinanza, ritenendo pregiudiziale la decisione su tali domande già proposte da G.R. nell’ambito del giudizio di divisione, sospese il giudizio in attesa della definizione dell’altro.

Passata in giudicato, a seguito di pronuncia della Corte di cassazione, la decisione sul giudizio di divisione, G.R. riassunse il giudizio davanti al medesimo Tribunale di Bergamo in data 4 maggio 2011.

Il Tribunale, con sentenza del 9 febbraio 2013, rigettò il ricorso, condannando l’attore al pagamento delle spese di giudizio.

3. Avverso la sentenza del Tribunale ha proposto appello il soccombente e la Corte d’appello di Brescia, Sezione specializzata agraria, con sentenza del 7 ottobre 2013, ha rigettato l’appello senza emettere pronuncia sulle spese, attesa la contumacia degli appellati.

Ha osservato la Corte territoriale che, a norma dell’art. 8, comma 10, cit., lo speciale diritto di riscatto ivi previsto ha ad oggetto soltanto quote indivise e rimaste tali, “in quanto di spettanza di soggetti che, già componenti di una famiglia coltivatrice, abbiano cessato da almeno cinque anni l’esercizio dell’attività agricola e non abbiano nel frattempo venduto la quota di loro spettanza del terreno che formava oggetto della coltivazione in comune”. La ratio della norma, infatti, è nel senso di salvaguardare il consolidamento di un’impresa agricola efficiente “che abbia peraltro tuttora ad oggetto una proprietà comune e indivisa”. D’altra parte, è la norma stessa a disporre che la vendita a terzi della propria quota, se esercitata nel quinquennio dalla data in cui l’alienante ha lasciato l’azienda comune, preclude l’esercizio del riscatto speciale.

Tanto premesso, la CulLe bresciana ha aggiunto che, oltre alla preclusione derivante dall’intervenuta divisione con sentenza passata in giudicato, la domanda proposta dal G. era comunque infondata, per insussistenza e difetto di prova dei requisiti previsti per il riscatto. Ed infatti, il diritto del comproprietario del fondo di chiederne la divisione, ove esercitato entro i cinque anni dalla cessazione della conduzione agricola comune, non è impedito dalla domanda di riscatto avanzata dagli altri componenti della famiglia coltivatrice, perchè della L. n. 590 del 1965, art. 8, comma 10, non comporta uno stato di indivisibilità. Pertanto, come già osservato dal Tribunale con argomentazione non validamente contestata dall’appellante, l’intento legislativo di evitare il frazionamento del fondo per salvaguardare il consolidamento dell’impresa familiare “non è tale da importare il sacrificio del diritto alla divisione del bene comune”; per cui la domanda di riscatto, avanzata dopo quella di divisione da parte delle sorelle G., era comunque priva dei requisiti di legge.

La Corte d’appello, infine, ha aggiunto che l’assunto dell’appellante secondo cui il quinquennio per l’esercizio del riscatto non doveva decorrere dalla morte del padre ma dalla data, anteriore, nella quale le sorelle avevano lasciato la famiglia colonica per contrarre matrimonio, era, oltre che inammissibile in rito, privo di fondamento; trattandosi, infatti, di comunione ereditaria, l’uscita dall’azienda comune da parte di uno dei componenti non può che collocarsi in un momento successivo al nascere della comunione stessa, che ha avuto inizio proprio con la morte del comune genitore.

Quanto ai capitoli di prova dei quali l’appellante aveva chiesto l’ammissione, la Corte ha ribadito il giudizio di inammissibilità per genericità degli stessi.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Brescia propone ricorso G.R. con atto affidato a quattro motivi ed affiancato da memoria.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, comma 10.

Osserva il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe errato nel considerare inammissibile la domanda di riscatto a causa dell’intervenuto scioglimento della comunione ereditaria. Tale decisione avrebbe trascurato che il giudizio di riscatto era stato promosso quando la comunione ancora sussisteva e che era stato proprio il Tribunale di Bergamo a disporre la sospensione del giudizio stesso in attesa della definizione di quello di divisione. A tale conclusione la Corte d’appello sarebbe giunta in base ad un’errata interpretazione della sentenza 26 aprile 1983, n. 2861, della Corte di cassazione, la cui corretta lettura, invece, dimostrerebbe che la pendenza del giudizio di riscatto determina la sospensione necessaria del giudizio di divisione ereditaria avente ad oggetto il medesimo fondo.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, comma 10, sotto un diverso profilo.

Osserva il ricorrente che la sentenza in esame ha affermato che egli non aveva diritto al riscatto in quanto aveva esercitato tale facoltà prima che scadessero i cinque anni indicati dalla legge.

Siffatta interpretazione della norma citata sarebbe errata in ordine all’individuazione del dies a quo dal quale decorre tale termine.

L’art. 8, comma 10, cit., infatti, non fa alcun esplicito riferimento alla comunione ereditaria, ma richiama semplicemente qualunque forma di conduzione colonica in comune. Ne consegue che il termine di cinque anni entro il quale le sorelle potevano chiedere la divisione era decorso, avendo le stesse abbandonato la conduzione colonica nelle date dei rispettivi matrimoni, avvenuti negli anni 1962, 1974 e 1967, e tale circostanza era stata evidenziata dall’odierno ricorrente fin dal primo grado.

3. I due motivi ora indicati devono essere trattati congiuntamente in considerazione della stretta connessione tra loro esistente e sono entrambi privi di fondamento.

3.1. Per dare una corretta soluzione ai problemi in esame è bene prendere le mosse dal testo della L. n. 590 del 1965, art. 8, comma 10, il quale così dispone: “Se il componente di famiglia coltivatrice, il quale abbia cessato di far parte della conduzione colonica in comune, non vende la quota del fondo di sua spettanza entro cinque anni dal giorno in cui ha lasciato l’azienda, gli altri componenti hanno diritto a riscattare la predetta quota al prezzo ritenuto congruo dall’Ispettorato provinciale dell’agricoltura, con le agevolazioni previste dalla presente legge, semprechè l’acquisto sia fatto allo scopo di assicurare il consolidamento di impresa coltivatrice familiare di dimensioni economicamente efficienti. il diritto di riscatto viene esercitato, se il proprietario della quota non consente alla vendita, mediante la procedura giudiziaria prevista dalle vigenti leggi per l’affrancazione dei canoni enfiteutici”.

Si tratta, come facilmente si comprende, di una norma che, nello spirito della legislazione agraria, tende ad assicurare il consolidamento dell’impresa coltivatrice familiare di dimensioni economicamente efficienti, favorendo, in caso di uscita di uno dei componenti, il subentro degli altri attraverso l’esercizio di una speciale forma di riscatto (v. la sentenza 18 luglio 2002, n. 10417).

Tale riscatto può essere richiesto anche in caso di dissenso del proprietario uscente, attraverso una procedura complessa che consenta la determinazione di un prezzo congruo, con la partecipazione dell’ispettorato provinciale dell’agricoltura.

La disposizione in esame è strutturata secondo ben precise cadenze temporali, giacchè la legge richiede che siano passati cinque anni dal momento in cui il componente abbia cessato di far parte della conduzione colonica in comune senza vendere la propria quota;

insomma, chi esce dalla conduzione in comune, ha cinque anni di tempo per decidere se vendere o meno la propria quota e, dopo cinque anni di inerzia, gli altri potranno riscattare anche forzatamente la sua quota. Il che, a ben vedere, si spiega in modo del tutto ragionevole perchè tiene presente, da un lato, il diritto alla libera determinazione di chi decide di uscire dalla conduzione comune e, dall’altro, pone gli altri componenti in condizione di impedire che l’inerzia si protragga indefinitamente, con danno anche alle ragioni di un’efficiente attività di coltivazione.

3.2. In questo senso devono essere letti i precedenti di questa Corte che la Corte bresciana ha correttamente richiamato, cioè le sentenze 26 aprile 1983, n. 2861, e 27 agosto 1990, n. 8830.

La prima decisione ha infatti chiarito che la disposizione in esame si riferisce alla quota di comproprietà pro indiviso e non già al fondo che all’esito di divisione dei beni comuni venga attribuito al condividente, perchè la divisione preclude il riscatto in quanto fa cessare lo stato di comunione.

La seconda sentenza – che è certamente quella che più si avvicina al caso oggi in esame – ha affermato che il diritto del comproprietario del fondo di ottenerne la divisione, ove esercitato prima del compimento di cinque anni dal momento in cui ha cessato di far parte della conduzione colonica in comune, non trova limite con riguardo all’azione di riscatto proposta dagli altri componenti della famiglia coltivatrice, a norma della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, comma 10, atteso che questa norma, non comportando un vincolo di indivisibilità del fondo comune, riconosce il diritto di riscatto soltanto al compimento del quinquennio dall’abbandono della coltivazione comune, senza porre nel frattempo alcuna restrizione alle iniziative del proprietario che abbia volontariamente cessato da tale partecipazione alla detta famiglia. In altri termini, come sopra già si è detto, l’esercizio del riscatto in modo intempestivo, cioè prima che sia decorso il quinquennio, non esclude affatto che il comproprietario abbia il diritto di chiedere la divisione; come ha affermato la sentenza n. 8830 del 1990 ora richiamata, non si tratta di stabilire se il diritto di riscatto prevalga o meno su quello di divisione, quanto di prendere atto del contemperamento attuato dalla legge, nel senso che l’esaurimento della procedura di divisione entro il quinquennio esclude l’esistenza di un qualsivoglia pregiudizio in capo al riscattante, perchè verrebbe in tal modo a mancare, “prima della scadenza del quinquennio, lo stato di comunione ed in conseguenza la quota indivisa, cui si riferisce il diritto di riscatto”. Nè la situazione muta se il giudizio di divisione, intrapreso nel quinquennio, si concluda dopo il suo decorso, attesa la natura dichiarativa e retroattiva del giudizio di divisione.

3.3. Così correttamente inquadrati i termini del problema, il Collegio osserva che il primo ed il secondo motivo del ricorso in esame pongono, in sostanza, le seguenti due questioni: 1) il giudizio di riscatto era stato promosso quando la comunione ancora sussisteva e la norma non richiede che la comunione rimanga fino alla fine del giudizio stesso, con la conseguenza che il diritto al riscatto non poteva essere frustrato (primo motivo); 2) la sentenza impugnata avrebbe erroneamente indicato il dies a quo per la decorrenza del quinquennio fissato dalla legge (secondo motivo).

Ora, le argomentazioni esposte in precedenza dimostrano già in modo evidente l’infondatezza delle censure di cui al punto l), perchè la tempestiva proposizione del giudizio di divisione che, nel caso in esame, si è concluso con una sentenza ormai definitiva a seguito di proposizione di ricorso per cassazione dichiarato inammissibile da questa Corte con la sentenza 8 novembre 2010, n. 22662 – fa sì che non vi sia più alcuno spazio per l’esercizio del riscatto speciale.

Analogamente, non hanno alcun fondamento le censure (primo motivo) riguardanti la presunta necessità di sospensione del giudizio di divisione in pendenza della domanda di riscatto, e ciò alla luce del rapporto esistente tra i due istituti così come sopra delineato.

Qualche problema si potrebbe astrattamente porre, in relazione alla censura di cui al n. 2), ove fosse dimostrato che la partecipazione dei fratelli del ricorrente alla conduzione colonica in comune era cessata già prima della morte del padre. Ciò in quanto l’art. 8, comma 10, cit. non contiene un riferimento esclusivo alla comunione ereditaria, ma dà rilievo solo alla cessazione della conduzione in comune.

Osserva il Collegio, però, che su questo punto nulla può essere più detto in sede di legittimità, perchè la Corte d’appello, con un accertamento in fatto non sindacabile, pervenuta alla conclusione per cui, trattandosi di comunione ereditaria e di conduzione di un fondo divenuto comune a seguito della morte del padre, il termine di cinque anni non poteva che decorrere da tale evento; ed ha aggiunto (p. 13) che il diritto di riscatto era stato azionato dopo che le sorelle avevano intrapreso il giudizio di divisione. D’altra parte, è lo stesso ricorrente a dare conto del fatto che il giudizio divisorio era stato promosso dalle sorelle nel gennaio 1993 (v.

ricorso a p. 5), ossia entro i cinque anni dalla morte del padre ( (OMISSIS)), tanto da essere poi indotto a sostenere, per giustificare la prevalenza del proprio diritto di riscatto, che le sorelle erano uscite dalla conduzione in comune alle date dei rispettivi matrimoni; ma la sentenza impugnata è stata chiara anche su questo punto, precisando che di tali circostanze nulla era stato effettivamente dimostrato, attesa la genericità e l’irrilevanza delle prove proposte.

3.4. Dal complesso delle ragioni fin qui addotte deriva l’infondatezza del primo e del secondo motivo di ricorso.

4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., ed error in procedendo per avere la sentenza ritenuto che i motivi di appello fossero privi della necessaria specificità.

La Corte bresciana ha affermato che il ricorrente non avrebbe indicato nei motivi di appello quale fosse la corretta indicazione del termine dal quale far decorrere il quinquennio per avanzare la domanda di divisione. Ciò nonostante, la stessa sentenza ha dimostrato di poter individuare con esattezza la doglianza proposta, in tal modo cadendo in evidente contraddizione.

4.1. Osserva il Collegio che l’esame di questo motivo rimane assorbito da quanto detto a proposito dei due precedenti, posto che la sentenza impugnata non si è limitata ad affermare che le censure relative alla decorrenza del termine quinquennale erano inammissibili in quanto formulate attraverso un mero richiamo agli scritti difensivi di primo grado, ma ha anche dichiarato infondato l’appello sul punto, attraverso la motivazione che sopra è stata già richiamata.

5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 5), nullità della sentenza per omessa motivazione in violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4), nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 244 e 421 c.p.c., ed omessa pronuncia su un fatto decisivo per il giudizio, in ordine alla mancata ammissione delle richieste istruttorie formulate in primo grado.

Rileva il ricorrente che la sentenza impugnata, a fronte della doglianza sollevata nell’atto di appello in ordine alla mancata ammissione delle richieste istruttorie da parte del Tribunale, ha dichiarato che i capitoli di prova erano inammissibili per genericità. Il Tribunale, in realtà, con l’ordinanza del 28 ottobre 1994 aveva già valutato l’ammissibilità e la rilevanza della prova per interpello dedotta dalle parti, riservandosi all’esito di ammettere la prova per testi, poi inspiegabilmente non assunta in primo grado. Stante l’ammissione avvenuta da parte del Tribunale, la Corte d’appello avrebbe dovuto provvedere sul punto e motivare sulle ragioni della presunta genericità, con conseguente omissione di pronuncia.

5.1. Il motivo è inammissibile.

La Corte di merito, come si è detto, ha dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto inammissibili i capitoli di prova richiesti dall’odierno ricorrente, il che, fra l’altro, esclude che si possa configurare la lamentata omissione di pronuncia.

A fronte della motivazione resa dal giudice di merito, il motivo in esame continua ad essere anch’esso generico, senza indicare nè quando, nè come le prove siano state richieste, nè quale ne fosse il contenuto, sicchè il Collegio non è posto in condizioni di valutare la decisività delle prove non ammesse e, quindi, l’eventuale errore commesso dal giudice di merito (v., tra le altre, le sentenze 17 maggio 2007, n. 11457, e 4 marzo 2014, n. 4980).

E’ appena il caso di aggiungere, infine, che la sentenza impugnata ha anche spiegato, come si è detto, che l’intervenuta divisione con sentenza definitiva rendeva ormai non più configurabile il diritto di riscatto asseritamente leso, per cui ogni valutazione sulla mancata ammissione delle prove appare priva di rilevanza in considerazione delle ragioni complessive della decisione.

6. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati.

Pur sussistendo, in astratto, le condizioni di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, tale obbligo va escluso, trattandosi di ricorso esente per legge, attesa la natura della controversia.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 2 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2016

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