Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12996 del 30/06/2020

Cassazione civile sez. VI, 30/06/2020, (ud. 23/01/2020, dep. 30/06/2020), n.12996

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31290-2018 proposto da:

C.M., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE

FLAMINIO 34, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO NUNE’, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

SOCIETA’ CATTOLICA DI ASSICURAZIONE COOP A RL, in persona del

Procuratore speciale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA DELLE FORNACI 38, presso lo studio dell’avvocato FABIO ALBERICI,

che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

D.W.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1201/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 04/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 23/01/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARILENA

GORGONI.

Fatto

RILEVATO

che:

C.M. ricorre per la cassazione della sentenza n. 1201/2018 della Corte d’Appello di Roma, pubblicata il 4 aprile 2018, articolando due motivi.

Resiste con controricorso Società Cattolica di Assicurazioni COOP A R.L.

Il ricorrente espone in fatto che, mentre si trovava alla guida del proprio motociclo Yamaha Majesty, sulla propria corsia di marcia, veniva violentemente investito dalla vettura Alfa Romeo 147, assicurata per la responsabilità civile automobilistica con la Cattolica Assicurazioni, di proprietà e condotta da D.W., il quale effettuava una svolta contromano e violava la doppia linea congiunta della carreggiata.

La Polizia municipale rilevava che l’auto condotta da D.W. aveva violato sia il divieto di svolta a destra sia il divieto di oltrepassare la doppia linea continua e nulla contestava all’odierno ricorrente.

La Cattolica Assicurazioni liquidava l’importo complessivo di Euro 13.600, di cui Euro 1500,00 per spese legali.

Il ricorrente presentava ricorso L. n. 102 del 2006, ex art. 3, avanti al Tribunale di Roma, per sentir condannare il conducente dell’auto investitrice e la sua Compagnia di Assicurazioni al risarcimento del danno biologico quantificato in Euro 28.232,74, o nella diversa somma giudizialmente accertata, oltre agli interessi ed alla rivalutazione monetaria, al danno esistenziale, al danno patrimoniale da lucro cessante ed al fermo tecnico dell’auto.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 7700/2012, accoglieva parzialmente la domanda attorea, ravvisando la concorrente responsabilità dei conducenti delle due auto coinvolte nel sinistro stradale.

La sentenza veniva impugnata dall’odierno ricorrente che insisteva per il riconoscimento della responsabilità esclusiva di D.W. nella causazione del sinistro – non avendo il giudice a quo tenuto conto che D.W. era rimasto contumace e non aveva reso l’interrogatorio formale deferitogli, che era risultato dimostrato che aveva violato plurime regole del Codice della Strada – e per la condanna degli appellati in solido al risarcimento integrale dei danni subiti, in particolare, quanto al danno patrimoniale da lucro cessante, derivante dalla accertata riduzione della capacità lavorativa nella misura del 15%, e delle spese di lite, in applicazione del principio della soccombenza.

La sentenza, oggetto dell’odierna impugnazione, rigettava l’appello e poneva le spese del giudizio a carico di C.M..

Avendo ritenuto sussistenti le condizioni per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta che è stata ritualmente notificata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Il ricorrente in vista dell’odierna Camera di Consiglio ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 1227,2727,2729,2054 c.c., del D.L. 30 aprile 1992, n. 285, artt. 39-146, degli artt. 232-240 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ad avviso del ricorrente, la condotta di guida di D.W. avrebbe dovuto essere ritenuta idonea a superare la presunzione del concorso di colpa di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, e a considerarlo l’esclusivo responsabile del sinistro stradale. La Corte d’Appello avrebbe erroneamente ritenuto l’incidente come avvenuto in corrispondenza di un incrocio, piuttosto che in prossimità di una intersezione a raso con svolta obbligatoria a destra, avrebbe erroneamente ritenuto non assolto da parte sua l’onere probatorio di essersi attenuto alle norme di comportamento di cui all’art. 140 C.d.S., comma 1, art. 142 C.d.S., commi 1-3, art. 145 C.d.S., comma 1, avendo affrontato una situazione pericolosa, quale l’impegno di un incrocio, senza ridurre la velocità e osservare le dovute tutele, in assenza delle quali non era stato in grado di avvistare tempestivamente l’auto proveniente da destra, sì da evitare l’impatto o ridurne le conseguenze, perchè la presunzione di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, viene in considerazione solo là dove non sia stato possibile accertare la responsabilità esclusiva di uno dei conducenti. La responsabilità esclusiva di D.W. emergeva dal verbale dei Vigili urbani, il quale faceva piena prova, ai sensi dell’art. 2700 c.c., del fatto che egli non si fosse attenuto alle norme di comportamento di cui all’art. 140 C.d.S., comma 1, che non avesse violato il limite di velocità fissato dall’art. 142 C.d.S., che non avesse adottato la condotta richiesta a chi si avvicina ad un’intersezione.

Inoltre per ipotizzare la violazione dei limiti di velocità erano da considerare fonti di prova le risultanze delle apparecchiature debitamente omologate ovvero il verbale di contestazione.

Nè la Corte avrebbe tratto, come avrebbe dovuto, elementi di giudizio dal comportamento processuale di D.W. che non aveva partecipato al giudizio e non aveva reso interrogatorio formale.

Per finire, la Corte d’Appello, come già il Giudice di prime cure, avrebbe determinato la misura del concorso di responsabilità senza alcuna motivazione logica e giuridica.

1.1. Il motivo è inammissibile, per le seguenti ragioni.

Complessivamente non emerge dal mezzo impugnatorio una efficace confutazione delle argomentazioni giuridiche utilizzate nella sentenza impugnata per addivenire all’affermazione della pari responsabilità dei conducenti dei due mezzi nella causazione del sinistro, ma una contrapposizione alla ricostruzione del giudice di merito di una diversa ricostruzione dei fatti, in base alla quale il ricorrente risulterebbe esente da ogni responsabilità nella provocazione dell’incidente.

Ove accolta tale censura, che presuppone la possibilità di rinnovare il giudizio in fatto, trasformerebbe inevitabilmente le caratteristiche morfologiche e funzionali del giudizio per cassazione, trasformandolo in un terzo grado di giudizio.

Deve, invece, rilevarsi che la Corte d’appello ha accertato la sussistenza di una condotta colposa in capo ad entrambi i soggetti coinvolti (al conducente del ciclomotore, per non aver moderato la velocità, in particolare in prossimità dell’intersezione, e per non avere adeguato la propria condotta di guida alla situazione dei luoghi, per non aver tenuto la destra, al conducente dell’auto per avere effettuato una svolta vietata a sinistra) e di conseguenza li ha ritenuti entrambi responsabili in pari misura, facendo applicazione di un orientamento giurisprudenziale da cui non sono emerse ragioni per discostarsi, a mente del quale “Nel caso di scontro tra veicoli, la presunzione di pari responsabilità prevista dall’art. 2054 c.c., ha carattere sussidiario, dovendosi applicare soltanto nel caso in cui sia impossibile accertare in concreto il grado di colpa di ciascuno dei conducenti coinvolti nel sinistro; l’accertamento della intervenuta violazione, da parte di uno dei conducenti, del divieto di svolta, non dispensa il giudice dal verificare il comportamento dell’altro conducente onde stabilire se quest’ultimo abbia a sua volta violato o meno le norme sulla circolazione stradale ed i normali precetti di prudenza, potendo l’eventuale inosservanza di dette norme comportare l’affermazione di una colpa concorrente” (Cass. 16/09/2013, n. 21130).

In altri termini, è giusto applicando in via sussidiaria la presunzione di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, come invocato dal ricorrente, che il Giudice di Appello, il quale ha, peraltro, supportato in fatto e in diritto, la propria decisione, è pervenuto alla affermazione della concorrente responsabilità dei conducenti.

E quanto all’asserito difetto di motivazione in merito ai criteri seguiti per affermare la percentuale di responsabilità attribuita a ciascuno dei conducenti, il ricorrente propone una nozione di vizio dl motivazione, e presuppone una ampiezza del sindacato di questa Corte sulla motivazione non più vigente, pretendendo la cassazione della pronuncia per non avere la Corte territoriale fornito un’adeguata giustificazione sotto l’aspetto strettamente motivazionale del criterio adottato alla stregua delle risultanze acquisite, in forza del quale ha ritenuto che entrambi i conducenti abbiano dato un pari apporto concausale, e non ha al contrario ritenuto che la svolta vietata da parte di D.W. abbia svolto un ruolo causale assorbente. In tal modo, nella sua stessa enunciazione, il motivo per come è formulato – senza neppure evocare il vizio motivazionale dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – presuppone che il Giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente omesso sotto l’aspetto materiale e grafico di fornire una giustificazione o ne abbia fornita una apparente o sia incorso nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr.. Cass., Sez. un., 07/04/2014, n. 8053), atteso che la stessa è pienamente comprensibile.

Tantomeno merita accoglimento la censura formulata con riferimento all’art. 232 c.p.c., ss.. In primo luogo, va chiarito che l’art. 232 c.p.c., a differenza dell’effetto automatico di “ficta confessio” ricollegato a tale vicenda dall’abrogato art. 218 codice di rito, riconnette al comportamento della parte soltanto una presunzione semplice che consente di desumere elementi indiziari a favore della avversa tesi processuale (prevedendo che il giudice possa ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio “valutato ogni altro elemento di prova”), onde l’esercizio di tale facoltà, rientrando nell’ambito del potere discrezionale del giudice stesso, non è suscettibile di censure in sede di legittimità (Cass., 09/09/2014, n. 19883; Cass., 26/04/2013, n. 10099; Cass. 12/07/2018, n. 18342).

La motivazione fornita dalla Corte d’Appello non risulta scalfita dalle censure del ricorrente che rivolge la sua doglianza verso la mancata valorizzazione dell’elemento probatorio a carattere presuntivo collegato alla mancata presentazione del convenuto a rendere l’interrogatorio formale deferitogli.

Su tale questione questa Corte ha costantemente affermato che la mancata presentazione della parte a rendere interrogatorio formale costituisce fatto processuale, tale da indurre a ritenere ammessi i fatti che formano oggetto di interrogatorio, purchè concorrano anche altri elementi (Cass. 14/11/2003, n. 17249). La disposizione dell’art. 232 c.p.c., non ricollega, infatti, automaticamente alla mancata risposta all’interrogatorio, per quanto ingiustificata, l’effetto della confessione, ma dà solo la facoltà al giudice di ritenere come ammessi i fatti dedotti con tale mezzo istruttorio, imponendogli, però, nel contempo, di valutare ogni altro elemento di prova (Cass. 14/02/2007 n. 3258; Cass. 10/03/2006, n. 5240).

2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza gravata per violazione degli artt. 1223,2056 c.c., e del D.L. n. 209 del 2005, art. 137, e della L. n. 39 del 1977, art. 4.

La Corte d’Appello, negandogli il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, in ragione della mera allegazione dello svolgimento dell’attività di consulente del benessere e di consulente informatico, non suffragata da alcuna documentazione sui redditi percepiti, si sarebbe posta contro la giurisprudenza di legittimità che, in tali ipotesi, impone al giudice di procedere alla determinazione del danno ricorrendo al criterio del reddito presuntivo, ossia al criterio del triplo della pensione sociale.

Nè la Corte d’Appello avrebbe tenuto conto della censura relativa alla erronea determinazione del danno in ragione dell’età, ritenendola generica per non avere specificato quale sarebbe stato l’importo corretto da liquidare, pur avendo indicato nella domanda formulata in primo grado e riproposta in appello l’importo richiesto di Euro 28.232,74 in relazione all’età ed al danno subito.

2.1. La prospettazione del ricorrente si rileva del tutto incapace di cogliere la ratio decidendi delle sentenze di questa Corte invocate, la cui applicazione avrebbe dovuto indurre il giudice di merito a riconoscergli un danno da lucro cessante sulla scorta del criterio del triplo della pensione sociale.

Costituisce principio consolidato, confermato da ultimo da Cass. 11/11/2019, n. 28988, che per la determinazione del danno patrimoniale non può essere utilizzato il criterio del triplo della pensione sociale, di cui al D.L. n. 857 del 1976, art. 4, convertito dalla L. n. 39 del 1977. Anche nell’ambito nell’ambito dell’azione diretta contro l’assicuratore per la liquidazione del danno patrimoniale, ove essa trova applicazione, trattandosi di norma eccezionale, “la liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito di lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima e non il triplo della pensione sociale (oggi assegno sociale). Il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell’art. 137 Codice delle assicurazioni, può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell’infortunio godeva di un reddito, ma questo era talmente modesto

o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile a un disoccupato”.

Tantomeno merita censura la statuizione con cui la Corte d’Appello ha ritenuto che il ricorrente non avesse dimostrato a quanto avrebbe dovuto ammontare il danno in ragione dell’effettiva età posseduta al momento del sinistro, 52 anni anzichè 53. Lo stesso ricorrente riportando la richiesta risarcitoria presentata in prime cure e in appello dimostra che essa era stata formulata senza alcuno specifico riferimento alla sua età.

3. Non essendo emersa dalla memoria depositata in vista dell’odierna udienza alcuna argomentazione atta a incrinare la fondatezza delle suesposte considerazioni – il ricorrente si è, infatti limitato a ribadire quanto già prospettato – il ricorso deve essere rigettato.

4. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 1.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Dà atto della sussistenza del presupposto processuale per il pagamento del doppio contributo, se dovuto.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2020

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