Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12975 del 23/05/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 23/05/2017, (ud. 11/04/2017, dep.23/05/2017),  n. 12975

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17544/2015 proposto da:

V.M., M.M., elettivamente domiciliate in ROMA,

VIA MONTE ZEBIO 40, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO VITTUCCI,

che le rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

BANCA POPOLARE DI ANCONA SPA, in persona del Procuratore Speciale,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI PAISIELLO 15, presso

STUDIO LEGALE ASSOCIATO STODUTO, SARTI, RIPOLI, rappresentata e

difesa dall’avvocato PAOLO MOCCHEGIANI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 63/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 16/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata dell’ 11/04/2017 dal Consigliere Dott. MASSIMO

FALABELLA;

dato atto che il Collegio ha autorizzato la redazione del

provvedimento in forma semplificata, giusta decreto 14 settembre

2016, n. 136/2016 del Primo Presidente.

Si rileva quanto segue.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – La Banca Popolare di Ancona s.p.a. veniva convenuta in giudizio da M.M. e V.M.. Queste ultime lamentavano che la convenuta, attraverso un proprio funzionario, aveva loro proposto un investimento facendogli sottoscrivere un contratto di acquisto e di gestione di titoli per la somma complessiva di Euro 232.405,61. Esponevano le attrici che soltanto nel dicembre 2002 la banca aveva inviato una nota con la quale era segnalato che i titoli argentini acquistati risultavano ad alto rischio di perdita.

Nella resistenza dell’istituto di credito, il Tribunale di Ancora, dopo una prima sentenza non definitiva, annullava il contratto dedotto in giudizio per vizio del consenso e condannava la banca al risarcimento dei danni.

2. – La pronuncia era successivamente riformata dalla Corte di appello di Ancona con sentenza pubblicata il 16 gennaio 2015. Nel definire giudizio di gravame il giudice distrettuale negava fosse stato dato riscontro del dolo, commissivo, o omissivo, dell’intermediario.

3. – La decisione della Corte marchigiana è impugnata per cassazione da M.M. e V.M. con un ricorso affidato a due motivi. Resiste con controricorso la Banca Popolare di Ancona. Le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo le ricorrenti lamentano violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, in relazione agli artt. 1427 e 1439 c.c.. Lamentano, in sintesi, che l’impugnata sentenza aveva escluso la sussistenza del dolo facendo cattiva applicazione dei principi affermati da questa Corte in materia. Evidenziano, in particolare, che la Corte di merito aveva mancato di prendere in considerazione l’affidamento ingenerato dall’istituto di credito nelle due risparmiatrici, errando, poi, nell’affermare che le medesime ricorrenti erano state informate dell’alto rischio sotteso all’investimento nei titoli di cui trattasi. Nel corpo del motivo si spiega, poi, che la sentenza impugnata era mancante di alcun apprezzamento circa le condizioni soggettive delle istanti, le quali “nella loro qualità di pensionate estranee ai meccanismi finanziari, venivano consigliate e sollecitate all’investimento in bond argentini da parte dell’istituto di credito”. Concludono gli istanti assumendo che in danno delle ricorrenti si era attuata una condotta che integrava tanto il dolo commissivo, quanto quello omissivo, visto che era stata accertata in giudizio sia la falsificazione della firma delle ricorrenti sul documento relativo ai rischi generali che l’abusivo riempimento del modulo di acquisizione delle informazioni sul profilo dell’investitore.

1.1. – Il motivo si risolve in una censura che investe l’esame delle risultanze di causa da parte del giudice del merito.

Come è ben noto, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (per tutte: Cass. 4 aprile 2013, n. 8315; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110). Peraltro, lo spazio riservato al vizio motivazionàte in quanto tale è, oggi, particolarmente esiguo, dal momento che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053).

Nella sentenza impugnata non è dato di ravvisare erronee applicazioni dei principi desumibili dalle norme richiamate nella rubrica del motivo. Del resto, le ricorrenti – mancando di assolvere a un preciso onere che faceva loro carico (cfr.: Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 1 dicembre 2014, n. 25419; Cass. 12 gennaio 2016, n. 287) – mancano di indicare le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina. Di contro, la censura svolta nel motivo è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. pagg. 8, 10, 11 del ricorso): ciò che pone la censura stessa al di fuori dell’area applicativa descritta dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. 5 marzo 2007, n. 5076; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698).

Peraltro, il motivo in esame mostra di nemmeno cogliere la ratio decidendi della sentenza impugnata, laddove ritiene di poter desumere il dolo dell’intermediario dalla falsificazione della firma apposta sul documento dei rischi generali e dall’abusivo riempimento del modulo relativo alle informazioni sul profilo dell’investitore. La non decisività delle deduzioni svolte al riguardo dalle odierne ricorrenti emerge da quanto rilevato, in proposito, dalla stessa Corte di appello. Si legge infatti nella sentenza impugnata che la falsificazione non era sicuramente riferibile alla banca e che comunque il documento sui rischi generali risultava essere stato consegnato alle clienti; si legge, altresì, nella nominata pronuncia, che in presenza dell’allegazione di un riempimento del documento absque pactis spettava alle odierne ricorrenti proporre querela di falso per dimostrare i propri assunti.

2. – Con il secondo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 1418, 1421 c.c., all’art. 2 Cost. e all’art. 1375 c.c.. Secondo le istanti la sentenza impugnata meritava censura per aver omesso di rilevare e pronunciare d’ufficio la nullità del contratto. Infatti la banca, nel prospettare consapevolmente investimenti ad alto rischio in obbligazioni di uno Stato estero prossimo al fallimento, aveva violato il dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto, nonchè il dovere costituzionale di solidarietà sociale e tanto comportava la nullità del contratto.

2.1. – Il motivo va disatteso.

La violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario non può determinare, in mancanza di una esplicita previsione normativa, la nullità ex art. 1418 c.c., del cosiddetto “contratto quadro” o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso (Cass. Sez. U. 19 dicembre 2007, n. 26724; in senso conforme, da ultimo, Cass. 10 aprile 2014, n. 8462).

3. – In conclusione, il ricorso è respinto.

4. – Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

PQM

 

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, elitre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 100,00 ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile, il 11 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2017

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