Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12965 del 14/06/2011

Cassazione civile sez. III, 14/06/2011, (ud. 03/05/2011, dep. 14/06/2011), n.12965

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – rel. Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5937/2009 proposto da:

ARTONI ARREDAMENTI DI ARTONI MASSIMILIANO & C SAS (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante p.t. A.M.,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 38, presso lo

studio dell’avvocato SINOPOLI VINCENZO, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati BINELLI MATTEO, BINELLI CARLO VITO giusta

delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA SPA PARTE INSERITA A SEGUITO DEP

C/RICORSO (OMISSIS), a sua volta incorporante la società Banca

Agricola Mantovana Riscossioni Spa, in persona del Vice Presidente e

legale rappresentante, ai sensi dell’art. 23 del vigente Statuto,

Dott. R.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLE

TRE MADONNE 16, presso lo studio dell’avvocato TROPIANO MARIA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MACCARI ENRICO, con

procura speciale del Dott. Notaio Daniele Molinari, Notaio in

Mantova, del 03/12/2010, rep. n. 72527;

– controricorrente –

e contro

BANCA AGRICOLA MANTOVANA RISCOSSIONI SPA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 972/2008 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

Sezione Seconda civile, emessa il 29/10/2008, depositata il

13/11/2008; R.G.N. 512/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/05/2011 dal Consigliere Dott. CAMILLO FILADORO;

udito l’Avvocato NICOLAIS LUCIO (per delega dell’Avvocato SINOPOLI

VINCENZO);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 619 c.p.c., del 25 luglio 1989, la società Magazzino del Mobile chiedeva accertarsi la illegittimità della procedura esecutiva iniziata dalla esattoria delle imposte dirette di Suzzara – a seguito di pignoramento – con la condanna della esattoria alla restituzione della somma di lire 23.411.594 versata per evitare la prosecuzione della procedura esecutiva. La società opponente assumeva di non avere alcun rapporto con la unica debitrice di imposta, MDM di Martinelli Arpalice e e, essendo totalmente estranea al debito di imposte per cui si procedeva (ILOR 1983).

Il Tribunale di Mantova con sentenza n. 175 del 1992, ritenuto che la opponente aveva fornito la prova della sua estraneità al soggetto debitore escludeva che vi fosse stata una cessione di azienda con la MDM ed accoglieva la opposizione, condannando la esattoria alla restituzione della somma già versata, pari ad Euro 12.091,08, compensando le spese di giudizio.

La Banca Agricola Mantovana Riscossioni spa proponeva appello chiedendo la riforma della sentenza impugnata.

La sas Artoni Arredamento di Artoni Massimiliano e C. si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del gravame.

Con sentenza 29 ottobre-13 novembre 2008 la Corte di appello di Brescia accoglieva l’appello proposto da Banca Agricola Mantovana riscossione spa avverso la decisione del Tribunale di Mantova del 10 settembre-19 aprile 2005, ed, in parziale riforma della sentenza, respingeva la opposizione proposta dalla sas Magazzino del Mobile di Artoni e C. s.a.s. (divenuta Artoni Arredamenti di Artoni Massimiliano e C. s.a.s.) e le domande consequenziali.

I giudici di appello osservavano che la società appellata non aveva superato la presunzione di cessione di azienda di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 66, comma 4, secondo il quale la cessione si presume “quando nei medesimi locali o in parte di essi viene esercitata attività commerciale dello stesso genere di quella esercitata dai precedenti titolari”.

La Corte territoriale – sulla base dei documenti prodotti dalle parti – rilevava che l’onere della prova del superamento di cessione di azienda incombeva sulla opponente e che pacifica la identità delle attività esercitate nei medesimi locali dalle due imprese – la prova, fornita in causa, dell’inizio della locazione degli stessi locali prima utilizzati dalla MDM dal 2 febbraio 1985 (cioè tre mesi dopo la data di cessazione della attività da parte del debitore) non era sufficiente a vincere la presunzione di cui all’art. 66 citato, la quale prevede soltanto la identità della attività e l’esercizio nei medesimi locali, senza porre limiti temporali alla occupazione dei locali i n cui prima era esercitata la attività del debitore esecutato.

Tra l’altro, sottolineava la stessa Corte, vi erano ulteriori elementi presuntivi che deponevano per la cessione di azienda, considerata la identità del socio A.I. nelle due compagini sociali della presunta cedente e della presunta cessionaria, oltre alla circostanza che l’inizio della attività della presunta cessionaria aveva coinciso con il giorno successivo alla cessazione di attività della presunta cedente (risultante dalle certificazioni rilasciate dalla Camera di Commercio, basata a sua volta su una dichiarazione resa dal titolare della ditta Magazzino del Mobile alla Pubblica amministrazione).

In tale quadro probatorio, la mera assenza di acquisti o cessioni di beni appartenuti all’originario debitore di imposta, nei registri e nelle scritture contabili, non era – di per sè solo – sufficiente ad escludere la cessione di azienda, presunta ex lege.

Considerato che il debito ILOR per cui la esattoria procedeva in via esecutiva si riferiva all’anno 1983 e che la cessione si era perfezionata il 6 novembre 1984 (data di inizio della attività della ditta Il Magazzino del Mobile) sussisteva il diritto dell’esattore a procedere al pignoramento mobiliare per il recupero dell’imposta locale sui redditi dovuta per l’anno anteriore a quello in cui era avvenuta la cessione, ai sensi del D.P.R. 602 del 1973, art. 66, comma 2.

Quanto al secondo motivo di appello, la Corte territoriale rilevava che la società appellata avrebbe dovuto dimostrare che i beni, oggetto di pignoramento, non appartenevano al debitore esecutato MDM (o meglio che tali beni non rientravano tra quelli che erano stati oggetto della cessione di azienda) ma nessuna prova era stata dedotta dalla originaria opponente, la quale avrebbe dovuto dimostrare – in coerenza con la opposizione di terzo proposta ai sensi dell’art. 619 c.p.c. – che i beni staggiti erano stati da lui acquistati da soggetti diversi da MDM. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la Artoni Arredamenti di Artoni Massimiliano e C. s.a.s. con sette motivi, illustrati da memoria.

Resiste la Banca con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Appare opportuno premettere che l’opposizione proposta avverso l’esecuzione esattoriale dal cessionario dell’azienda o dal concedente che sia subentrato all’affittuario nell’esercizio della medesima attività imprenditoriale – da considerarsi come cessionario dell’azienda e, come tale, solidalmente responsabile per il pagamento delle imposte sui redditi dovute dal precedente titolare – e qualificabile non già come opposizione di terzo, bensì come opposizione di coobbligato nel debito tributario, (cfr. Cass. 2 maggio 1980 n. 2896 in relazione ad una imposta sul reddito, diversa dall’ILOR e 5 luglio 1979 n. 3842).

No n si pone, pertanto, alcun problema di integrazione del contraddittorio nei confronti della originaria debitrice di imposta, ditta individuale MDM di Martinelli Arpalice e C. (che non ha preso parte al giudizio).

Con il primo motivo la ricorrente denuncia illegittima applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 66, nella versione vigente all’epoca dei fatti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

La cessione era (in ipotesi negata) avvenuta nel 1985, pertanto le imposte recuperabili dal cessionario erano solo quelle relative agli anni 1984 e 1985. solo il 2 febbraio 1985, in ipotesi, vi era la prova che la nuova società avesse continuato la stessa attività nei medesimi locali.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la illegittima applicazione del D.P.R. n. 602 del 1983, art. 66, sotto un diverso profilo. In particolare, si censura la affermazione della Corte secondo la quale sarebbe irrilevante il fatto che la attività fosse proseguita dopo tre mesi dalla cessazione della attività della prima società.

I giudici di appello avevano ritenuto che tale disposizione non pone limiti temporali alla occupazione dei locali in cui prima era svolta l’attività del debitore esecutato.

Tale affermazione – sottolinea la ricorrente – si pone in contrasto con la norma in esame, la quale invece stabilisce espressamente che la presunzione opera solo quando nei medesimi locali o in parte di essi venga esercitata una attività analoga a quella svolta in precedenza.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, sottolineando la contraddittorietà della motivazione, la quale aveva ritenuto che la cessione si fosse perfezionata in data 6 novembre 1984, pur riconoscendo che l’inizio della attività nei medesimi locali in realtà era iniziata solo nel febbraio 1985.

I primi tre motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, sono destituiti di ogni fondamento.

La Banca Agricola Mantovana Riscossioni, con l’atto di appello, ha osservato che nel caso di cessione di aziende, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 66, l’esattore può procedere al pignoramento dei beni mobili e delle merci e che, ai sensi del quarto comma della norma citata, la cessione si presume “quando nei medesimi locali o in parte di essi viene esercitata attività commerciale dello stesso genere di quella esercitata dai precedenti titolari”. Entrambe queste circostanze – ha precisato la appellante – ricorrevano nel caso di specie, per cui sarebbe stato onere della società opponente fornire la prova che i beni oggetto di pignoramento non appartenevano al debitore esecutato, nei modi previsti dall’art. 65 dello stesso D.P.R..

La Corte territoriale ha accolto l’appello della Banca sottolineando che l’appello si basava, in primo luogo, sul mancato superamento, da parte della appellata, della presunzione di cessione di azienda di cui al quarto comma dell’art. 66, ed, in secondo luogo – ma logicamente subordinato alla fondatezza del primo motivo – sul difetto della prova della estraneità dei beni pignorati alla azienda ceduta.

I giudici di appello hanno esaminato la documentazione acquisita agli atti, evidenziando:

– che la nuova società, sas Magazzino del Mobile, era stata costituita in data 7 agosto 1984, con sede in (OMISSIS);

– che; la società risultava iscritta alla CCIA in data 8 ottobre 1984, con indicazione della stessa sede:

– che la nuova società aveva preso in locazione i locali già occupati dalla MDM, in (OMISSIS);

– che la società MDM aveva cessato la sua attività in data 5 novembre 1984 e che il giorno successivo la nuova società aveva proseguito la medesima attività;

– che A.I., già socio della società di fatto MDM, era socio della sas Magazzino del Mobile sin dalla data della sua costituzione.

Sulla base di tali elementi, complessivamente considerati, i giudici di appello hanno rilevato che non era sufficiente a vincere la presunzione di cui al D.P.R. n. 602 del 1972, art. 66, la circostanza che solo a distanza di tre mesi dalla cessazione della attività da parte del debitore,, la nuova società avesse (formalmente) iniziato la locazione degli stessi locali già utilizzati da MDM. Infatti, la presunzione posta dalla norma ora richiamata prevede soltanto l’identità di attività e l’esercizio della stessa nei medesimi locali, senza porre alcun limite temporale alla occupazione dei locali in cui prima era esercitata la attività del debitore esecutato.

Con motivazione che sfugge a qualsiasi censura, in quanto esente da vizi logici ed errori giuridici, la Corte territoriale ha osservato che il Magazzino del Mobile era onerato della prova di un fatto negativo, che poteva essere fornita attraverso la dimostrazione di un fatto positivo incompatibile, o attraverso presunzioni dalle quali potesse desumersi il fatto negativo.

La mera assenza di acquisti o cessioni dei beni appartenuti all’originario debitore di imposta, nei registri e nelle scritture contabili, non poteva costituire circostanza sufficiente a provare la assenza della cessione di azienda, presunta ex lege (cfr. quanto esposto più avanti a proposito del quarto e quinto motivo di ricorso).

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia illegittimità per illogicità e contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 La Corte territoriale aveva accolto anche il secondo motivo di appello secondo il quale la società avrebbe dovuto dimostrare che i beni oggetto di pignoramento non appartenevano al debitore esecutato, o meglio non rientravano nei beni oggetto della cessione di azienda.

Non rispondeva a verità la circostanza, pure indicata nella sentenza impugnata, secondo la quale non era stata richiesta la prova che i beni oggetto di pignoramento non appartenessero al debitore esecutato (MDM).

Dalle conclusioni della appellata, riportate in sentenza di appello, risultava chiaramente che era stata ribadita la richiesta di ammissione di prova per testi, intesa a dimostrare che la società non aveva mai acquistato alcun bene da MDM e ciò dalla data della sua costituzione fino al novembre 1988 (data successiva al pignoramento che risaliva ad epoca precedente).

Il quinto motivo di ricorso censura la sentenza della Corte bresciana sotto il diverso profilo della violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 66.

Anche nel caso in cui dovesse ritenersi non superata la presunzione di cessione di azienda tra MDM e la attuale ricorrente, l’ente impositore avrebbe potuto soddisfarsi solo sui beni mobili e sulle merci che appartenevano alla cedente.

La prova di tale appartenenza, secondo le regole generali, avrebbe dovuto essere fornita dall’esattore. Tra l’altro, la Magazzino del Mobile (oggi Artoni arredamenti) aveva dato la prova dell’acquisto effettuato da terzi, mediante la produzione di registri contabili e fiscali.

Il motivo quarto e quinto possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi tra di loro. Essi sono infondati.

Il controricorrente, infatti, opportunamente ricorda che il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 65, richiede, ai fini della opponibilità della appartenenza dei beni mobili di fronte ad esecuzione mobiliare della esattoria, stabilendo che “l’esattore deve astenersi dal pignoramento quando sia dimostrato che i beni appartengono a persone diverse dal debitore, laddove tale dimostrazione può essere offerta soltanto mediante l’esibizione di atti pubblici o scritture private autenticate di data anteriore all’anno a cui si riferisce il tributo iscritto a ruolo ovvero di sentenze passate in giudicato, pronunciate su domande proposte anteriormente allo stesso anno”.

A tale proposito, la consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 539 del 18 gennaio 2002) afferma che: “Nell’opposizione di terzo all’esecuzione esattoriale, il terzo opponente, ancorchè l’esistenza del diritto sia resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dal terzo o dal debitore, non può provare con testimoni la proprietà sui beni pignorati nella casa o nell’azienda dell’esecutato, giacchè, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 65, la relativa dimostrazione esige l’atto pubblico, la sentenza passata in giudicato o la scrittura privata autenticata di data certa anteriore alla consegna del ruolo dell’esattore” (Nello stesso senso, Cass. 24 marzo 1979 n. 1079, 21 gennaio 1989, 10 maggio 1996 n. 4417, 24 aprile 1998 n. 4231, 6 marzo 2001 n. 3256).

La prova per testi articolata dalla s.a.s. Magazzino del Mobile, pertanto, non era idonea – nel caso di specie – a provare la proprietà dei beni pignorati.

Ad analoghe conclusione deve pervenirsi anche per quanto riguarda le scritture contabili, che non costituiscono quelle prove assistite da fede privilegiata, quali l’atto pubblico e la scrittura privata autenticata, di data anteriore all’anno cui si riferisce il tributo, previste dalla legge (Cass. 20 ottobre 1989 n. 4227). Nè può darsi la prova, mediante testimoni, dell’anteriorità, rispetto al pignoramento, di un documento che dovrebbe comprovare l’acquisto da parte dell’opponente dei mobili pignorati (del resto, la Magazzino del Mobile ebbe a costituirsi nell’anno successivo all’anno cui si riferisce il tributo iscritto a ruolo).

Nessuna contraddizione, pertanto, è possibile ravvisare nella sentenza impugnata che ha identificato la data di inizio di attività con la data della cessione della azienda e ha ritenuto che le prove per testi articolate dalla appellata e la documentazione offerta non fossero idonee a dare la prova che i beni pignorati non appartenessero già a MDM. Con il sesto motivo si deduce la violazione dell’art. 2729 c.c., D.P.R. n. 602 del 1973, art. 66.

Il quesito di diritto posto con questo motivo è del seguente testuale tenore: “Dica la Suprema Corte se violi l’art. 2729 c.c., il giudice di merito che, ai fini di presumere una cessione aziendale, ritenga indizi gravi, previsti e concordanti quelli che si concretano nella parziale coincidenza della compagine delle due società e nell’inizio della attività della cessionaria il giorno successivo a quello di cessazione della attività della presunta cedente”.

La motivazione della sentenza impugnata, in ordine a tali elementi, costituisce oggetto anche dell’ultimo motivo, sotto il profilo del vizio di motivazione.

Il sesto e settimo motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi tra di loro. Essi sono privi di fondamento.

Si richiama il consolidato insegnamento di questa Corte, secondo il quale l’apprezzamento del giudice del merito in ordine alla ricorrenza dei requisiti della precisione, gravità e concordanza, richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, è insindacabile in sede di legittimità, qualora la motivazione adottata appaia, come nel caso di specie, logicamente coerente ed immune da errori di diritto.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 1.200,00 (milleduecento/00) di cui Euro 1.000,00 (mille/00) per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 3 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2011

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