Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12963 del 30/06/2020

Cassazione civile sez. VI, 30/06/2020, (ud. 11/12/2019, dep. 30/06/2020), n.12963

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3347-2018 proposto da:

L.L., L.G., domiciliate in ROMA presso la

Cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentate e difese

dall’avvocato GAETANO CUCUZZA giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI SAN GIOVANNI LA PUNTA, domiciliato in ROMA presso la

Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato MARIO BALSAMO giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

nonchè

L.C.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 74/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 17/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/12/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dalle ricorrenti.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Il Comune di San Giovanni La Punta, assumendo di essere divenuto comproprietario a seguito di provvedimento di confisca di un appezzamento di terreno con sovrastanti fabbricati, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Catania gli altri comproprietari L.L., L.G. e L.C., al fine di sentire pronunciare lo scioglimento della comunione.

Nella resistenza dei convenuti, il Tribunale dichiarava il bene non comodamente divisibile e ne disponeva l’attribuzione ai convenuti, previo versamento dell’eccedenza pari ad Euro 750.000,00.

A seguito di appello dei L., la Corte d’Appello di Catania con sentenza n. 74 del 17 gennaio 2017 ha rigettato il gravame.

Quanto ai primi due connessi motivi di appello con i quali si contestava che in realtà la domanda aveva ad oggetto beni diversi da quelli a suo tempo interessati dal provvedimento di confisca del quale era beneficiario l’ente locale, rilevava la Corte distrettuale che nonostante l’errata indicazione delle particelle catastali non vi fosse dubbio circa l’identità tra i beni confiscati e quelli oggetto della domanda di divisione.

In tal senso andava confermata la valutazione del Tribunale, dovendo prevalere sui dati catastali l’esatta descrizione ed individuazione nei titoli di provenienza, dalle quali si ricavava che la discrasia dei dati catastali era ricollegabile anche al passaggio di alcuni immobili dal catasto terreni a quello fabbricati, ma senza che ciò avesse inciso sull’identità dei beni. In relazione al terzo motivo che contestava la divisibilità dei beni attesa la natura abusiva dei fabbricati realizzati sul fondo, la Corte d’Appello osservava che dalla consulenza tecnica d’ufficio emergeva che per i beni de quibus era stata presentata domanda di sanatoria con il pagamento delle prime due rate di oblazione il che consentiva lo scioglimento della comunione.

Infine con gli ultimi due motivi di appello si contestava, da un lato la stima dei beni e la determinazione del conguaglio, e dall’altro il mancato riconoscimento del credito per le migliorie apportate dagli appellanti ai beni comuni.

Quanto alla prima lamentela si riteneva di condividere le valutazioni espresse sul punto dal CTU, mentre, quanto alla seconda, oltre ad osservarsi che il credito non era stato adeguatamente dimostrato, si ribadiva che la domanda di rendiconto e di pagamento del valore delle migliorie costituisce una domanda autonoma da quella di divisione, sicchè le richieste dei convenuti, in quanto formulate all’atto della tardiva costituzione solo alla prima udienza erano inammissibili, essendo preclusa a quella data la proposizione della domanda riconvenzionale.

Inoltre, anche a voler reputare fondata la pretesa di parte appellante, la quantificazione delle migliorie sarebbe superflua, in quanto dell’incremento di valore apportato ai beni avevano beneficiato anche gli appellanti, ai quali il compendio era stato assegnato per intero.

L.G. e L.L. hanno proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza sulla base di tre motivi.

Il Comune di San Giovanni La Punta ha resistito con controricorso.

L.C. non ha svolto difese in questa fase.

Preliminarmente deve darsi atto che il ricorso è stato notificato anche all’altra originaria parte convenuta, L.C., il

che esclude la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso o comunque di difetto di integrità del contraddittorio in questa fase di giudizio.

Il primo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, quanto alla verifica dell’effettiva corrispondenza del bene interessato dalla divisione con quello oggetto del provvedimento di confisca in favore del Comune.

Si rileva che la Corte di merito non avrebbe adeguatamente valutato le risultanze catastali dalle quali invece emergeva che i beni di causa erano di proprietà di terzi estranei al giudizio.

In tal modo è stato violato anche l’art. 112 c.p.c., perchè si è proceduto a dividere la comunione su beni diversi da quelli per i quali era stata avanzata la relativa domanda dall’originaria parte attrice.

Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., u.c..

Sebbene la parte ricorrente sia consapevole dell’applicabilità di tale norma al giudizio in esame, attesa la data di introduzione del giudizio di appello, e del limite che la stessa pone alla deducibilità del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve però ritenersi che, ad onta delle deduzioni della stessa parte ricorrente, secondo cui la decisione sul punto sarebbe stata resa sulla base di ragioni di fatto diverse da quelle che sorreggono la sentenza di primo grado, in realtà le valutazioni anche in fatto rese dai giudici di merito nei due gradi siano corrispondenti.

Infatti, già il Tribunale aveva ritenuto alla luce delle indagini compiute dal CTU che, pur in presenza di una discordanza dei dati catastali, i beni oggetto della confisca coincidessero con quelli in concreto interessati dal procedimento di divisione, facendo riferimento ad un frazionamento intervenuto nelle more.

La conclusione del giudice di appello oltre a confermare esplicitamente la valutazione del giudice di prime cure (il che conforta la correttezza dell’applicazione dell’art. 348 ter c.p.c.), aggiunge che l’apparente contrasto è verosimilmente spiegabile con la circostanza che alcuni beni oggetto di causa sono passati dal catasto terreni al catasto fabbricati, ma senza che ciò contraddica il riferimento del Tribunale alla vicenda del frazionamento, ben potendo tale passaggio essere intervenuto proprio in occasione del frazionamento.

Ne deriva che il motivo in esame è inammissibile e che risulta priva di giustificazione anche la censura formulata con il richiamo all’art. 112 c.p.c., stante l’inconferenza del richiamo a tale norma (che riguarda il caso in cui si sia omessa la pronuncia ovvero si sia pronunciato eccedendo le richieste della parte, ma non anche nell’ipotesi qui addotta di erronea individuazione dei beni oggetto della domanda delibata), avendo i giudici di merito statuito proprio sulla richiesta di divisione, ritenendo corretta l’individuazione dei beni per i quali sussisteva la comunione tra le parti.

Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 47 del 1985, art. 40.

Si sostiene che la Corte d’Appello ha rigettato l’analogo motivo di appello rilevando che dalle indagini del consulente emergeva la presentazione della domanda di sanatoria edilizia e che risultavano pagate almeno due rate di oblazione, il che permetteva lo scioglimento della comunione.

Si assume invece che nella specie la norma non può trovare applicazione, in quanto dalle stesse indagini peritali emergerebbe che la procedura di condono non si era perfezionata e che non era corrispondente al vero che fossero state pagate almeno due rate di oblazione.

In relazione a tale doglianza si assume anche la violazione dell’art. 115 c.p.c., con il travisamento della prova rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Anche tale motivo va disatteso.

Ed, invero, ancorchè di recente le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 25021/2019, rivedendo il contrario orientamento secondo, la previsione di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 40, sul presupposto che gli abusi edilizi siano stati realizzati in epoca anteriore alla data di entrata in vigore della L. n. 47 del 1985, non impediva la divisione (Cass. n. 14764/2005), affermando invece che gli atti di scioglimento delle comunioni relative ad edifici, o a loro parti, sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, per gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici realizzati prima della entrata in vigore della detta legge, ove dagli atti non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria, ovvero ad essi non sia unita copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione o dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che la costruzione dell’opera è stata iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967, il motivo nella sostanza mira però a contestare l’accertamento e la valutazione delle emergenze istruttorie, risolvendosi in un inammissibile sindacato dell’operato del giudice di merito.

Infatti, posto che la presenza della domanda di sanatoria e del pagamento delle prime due rate di oblazione permette lo scioglimento giudiziale della comunione, il motivo denuncia che in realtà non ricorrerebbero le condizioni per la commerciabilità del bene, e quindi per la sua divisibilità, sostenendo che in realtà la seconda CTU, alle cui risultanze si è conformata la sentenza gravata, avrebbe riferito di una domanda di condono allo stato ancora inevasa, non considerando che ai fini della validità dell’atto è sufficiente, come appunto chiarito dl precedente delle Sezioni Unite citato, la presentazione della domanda di sanatoria ed il pagamento delle prime due rate di oblazione, e ciò anche in assenza di una formale adozione del provvedimento di condono.

Ove invece si ritenga contestata l’affermazione del giudice di appello, che ha ritenuto provato il pagamento di almeno due rate di oblazione (proprio alla luce del contenuto della CTU), sostenendosi l’erroneità di tale affermazione, in quanto smentita dallo stesso contenuto della consulenza tecnica d’ufficio, allora si tratta evidentemente della denuncia di un errore revocatorio insuscettibile di essere interessato dalla proposizione del presente ricorso.

Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c., e travisamento della prova rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, laddove i giudici di appello hanno rigettato la richiesta di riconoscimento di un corrispettivo in favore degli appellanti tenuto conto degli esborsi affrontati per le migliorie e la manutenzione del bene.

Si deduce altresì la violazione e falsa applicazione dell’art. 1150 c.c., che appunto attribuisce anche al possessore di mala fede il rimborso delle spese fatte per le riparazioni del bene e per i miglioramenti.

Il motivo, ribadita anche in parte qua la sua inammissibilità ex art. 348 ter c.p.c., quanto alla denuncia del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che anche sul punto ricorre un’ipotesi di cd. doppia conforme, è altresì inammissibile in quanto la critica non risulta avere colto la effettiva ratio decidendi della sentenza di appello, che non risulta peraltro nemmeno attinta dal motivo di impugnazione.

I giudici di secondo grado hanno, infatti, condiviso la valutazione del Tribunale che ha ritenuto inammissibile, in quanto tardivamente proposta, la domanda con la quale i convenuti avevano chiesto il rimborso delle spese sostenute per i fabbricati oggetto di causa.

La sentenza gravata a pag. 8 ha dato atto dell’orientamento giurisprudenziale, dalla stessa condiviso, secondo cui l’azione di rendiconto e quella di pagamento delle migliorie sono autonome rispetto a quella di divisione, sicchè andavano proposte nel rispetto del principio delle preclusioni. Correttamente quindi non era stata riconosciuta alcuna somma a tale titolo agli appellanti, attesa l’assenza di una valida domanda riconvenzionale. Ha poi aggiunto che in ogni caso la richiesta sarebbe risultata infondata avendo gli stessi appellanti beneficiato dell’incremento di valore determinato dalle asserite migliorie, essendo risultati attributari dell’intero bene.

Il motivo di ricorso investe solo tale ultima affermazione che, alla luce di quanto esposto in precedenza circa l’inammissibilità della domanda riconvenzionale, si pone evidentemente come un obiter dictum.

L’assenza di una censura quanto al rilievo della tardiva proposizione della domanda de qua, rende incontestabile la sentenza di appello in tale parte, risultando quindi inammissibili le critiche mosse alla erronea applicazione della disciplina in tema di rimborso in favore del comunista, senza avere prima adeguatamente contrastato il rilievo di una causa impediente in rito la disamina della domanda.

Nè appare meritevole di seguito l’affermazione di cui alle memorie secondo cui alcuna domanda riconvenzionale avrebbe dovuto essere spiegata, posto che l’unica rilevanza che possono avere le migliorie apportate da un condividente al bene, che correttamente vanno ad accrescere il valore del bene migliorato per tutti i condividenti, è la nascita di un diritto di credito ad ottenere il rimborso pro quota dell’importo delle spese sostenute, diritto che però va fatto valere nell’ambito del giudizio di rendiconto accessorio a quello di divisione, ma necessitante di un’apposita domanda, nel caso di specie riconvenzionale.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Nulla per le spese per l’intimato che non ha svolto attività difensiva.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 8.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato per il ricorso a norma del cit. art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2020

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