Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12959 del 13/05/2021

Cassazione civile sez. III, 13/05/2021, (ud. 16/02/2021, dep. 13/05/2021), n.12959

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10002-2019 proposto da:

F.M., M.D., M.G.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA EMILIO DE’ CAVALIERI 11,

presso lo studio dell’avvocato MARIO MELILLO, che li rappresenta e

difende unitamente e disgiuntamente all’avvocato PAOLA SORAGNI;

– ricorrenti –

contro

COMMISSARIO LIQUIDATORE UNITA’ SANITARIA LOCALE N. (OMISSIS) DI

REGGIO EMILIA;

– intimato –

REGIONE EMILIA ROMAGNA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MARCELLO PRESTINARI, 13, presso lo studio dell’avvocato SAVERIO

GIANNI, rappresentata e difesa dagli avvocati DOMENICO FAZIO,

ANTONELLA MICELE;

– controricorrente e ricorrente incidentale

ASSIMOCO SPA, AVIVA ITALIA SPA, ASSICURAZIONI ITALIA SPA,

elettivamente domiciliate in ROMA, LUNGOTEVERE DELLA VITTORIA 5,

presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ARIETA, che li rappresenta e

difende unitamente e disgiuntamente all’avvocato FRANCO MAZZA;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 52/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 07/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/02/2021 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE TOMMASO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 27 ottobre 2003 F.M., M.D. e M.G. convenivano davanti al Tribunale di Reggio Emilia la Regione Emilia Romagna e il Commissario Liquidatore di Usl (OMISSIS) di Reggio Emilia per ottenerne il risarcimento, jure proprio e jure hereditario, dei danni derivati da contagio ad epatite C per emotrasfusioni nel (OMISSIS) subito dal congiunto Mo.Gi., deceduto poi nel (OMISSIS) per cirrosi epatica.

I convenuti si costituivano resistendo e ottenendo l’autorizzazione a chiamare le loro compagnie assicuratrici, che pure si costituivano resistendo.

Con sentenza del 30 luglio 2013 il Tribunale accoglieva la domanda risarcitoria e condannava altresì le compagnie assicuratrici a tenere indenni le assicurate.

Proponevano appello principale la Regione e appello incidentale le compagnie, le quali in altra causa proponevano appello principale; riunite le due cause, la Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 31 gennaio 2019, ritenendo, quale ragione più liquida, non provato il nesso causale tra la trasfusione da un lato e l’epatite C e la morte del M. dall’altro, accoglieva tutti i gravami.

2. Hanno presentato ricorso principale, sulla base di tre motivi, F.M., M.D. e M.G..

Si è difesa con controricorso la Regione Emilia Romagna, che ha presentato pure ricorso incidentale con un unico motivo. Le compagnie assicuratrici Aviva Italia S.p.A., Generali Italia S.p.A. e Assimoco S.p.A. a loro volta si sono difese con controricorso, presentando anch’esse ricorso incidentale fondato su un unico motivo.

La Regione Emilia Romagna ha presentato memoria, e hanno presentato memoria pure Aviva Italia S.p.A., Generali Italia S.p.A. e Assimoco S.p.A.

Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso principale e per l’accoglimento dei ricorsi incidentali.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso principale, come già rilevato, si articola in tre motivi.

3.1 Il primo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per violazione dell’art. 116 Cost., comma 6, artt. 132,115,116 c.p.c.: la Corte d’appello avrebbe supportato la sentenza con una motivazione di manifesta illogicità o comunque descrittiva di un ragionamento contraddittorio e incomprensibile.

Viene riportata la parte della sentenza riguardante la relazione del consulente tecnico d’ufficio, che la corte territoriale afferma non essere state correttamente interpretate dal Tribunale e che ritiene conducenti al riscontro del difetto di prova del nesso causale in quanto le trasfusioni “non possono essere ritenute la causa più probabile, rispetto agli altri concomitanti fattori dell’infezione”.

Si domandano i ricorrenti a quali altre cause la corte territoriale abbia fatto qui riferimento, assumendo che non ne sarebbero state indicate altre neanche dal consulente tecnico d’ufficio, pur avendo la corte affermato che il consulente le avrebbe rappresentate come “desunte dalla anamnesi riportata nella documentazione medica esaminata”.

Procedendo allora “per ipotesi”, si osserva che l’abuso di alcol del de cuius – di cui peraltro si dichiara di continuare il diniego – non avrebbe potuto apportare infezioni da virus, essendo idoneo soltanto ad aggravare, ma non a causare l’epatite C.

D’altronde il giudice di prime cure aveva escluso l’esistenza di fattori alternativi causanti l’epatite C, ben approfondendo la questione del nesso causale. In particolare, aveva rilevato che non potevano costituire “altri fattori causali” nè l’appendicectomia subita dal de cuius quando aveva otto anni, nè l’epatomegalia mostrata quando ne aveva diciotto, considerato che non vi era più stato alcun altro ricovero da allora fino a quello avvenuto nel (OMISSIS), per il quale la diagnosi di uscita era risultata “gastrite erosiva sanguinamento da farmaci – piccola ernia iatale”, non denunciante quindi patologie epatiche, in un contesto, poi, in cui gli esami ematici del periodo di degenza avevano dimostrato valori normali.

La variazione delle transaminasi sarebbe poi avvenuta soltanto dopo il ricovero in cui furono praticate le trasfusioni al congiunto dei ricorrenti, nel (OMISSIS); per di più Mo.Gi. era donatore di sangue e svolgeva attività di macellaio, per cui era sottoposto a controlli.

Sarebbero stati pertanto violati pure gli artt. 115 e 116 c.p.c.; e la prova di verifica del sangue trasfuso non potrebbe essere effettuata mediante testimonianza, bensì mediante i registri relativi, documenti pubblici che godono di fede privilegiata.

Richiamata giurisprudenza di legittimità in ordine alle modalità necessarie per una motivazione adeguata, tra cui S.U. 22232/2016, e deducendone che non spetta all’interprete integrare poi la motivazione con proprie ipotesi, si adduce che nel caso in esame si potrebbero, invece, formulare soltanto ipotesi quanto agli altri fattori che avrebbero potuto causare la trasmissione del virus HCV.

La Corte d’appello sarebbe giunta a negare la sussistenza della prova del nesso causale soltanto perchè il consulente tecnico d’ufficio avrebbe rappresentato altre cause appunto “desunte dalla anamnesi riportata nella documentazione medica esaminata”: ma sarebbe impossibile – si ribadisce infine – comprendere l’iter del ragionamento motivazionale.

3.2 Il secondo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nullità della sentenza o del procedimento per violazione o falsa applicazione di norme, e si articola in due submotivi.

3.2.1 Sub A, denuncia violazione degli artt. 40 e 41 c.p. e falsa applicazione dei principi relativi al nesso causale.

Viene riportato un ampio stralcio della motivazione della sentenza impugnata concludente nel senso che dalla consulenza tecnica d’ufficio emergerebbe che la trasfusione non è “la causa più probabile” rispetto ai “concomitanti fattori”, e che quindi non sarebbe stato provato il nesso causale secondo il canone del “più probabile che non”.

La Corte d’appello avrebbe così errato a proposito dei principi della causalità civile, affermando che il danneggiato deve provare in modo certo (e quindi ogni ragionevole dubbio superando) che il contagio derivò dalle trasfusioni, mentre i ricorrenti avrebbero dato prova secondo la probabilità prevalente sia del contagio, sia del nesso causale tra il contagio e la morte.

Vengono richiamati dati fattuali sulle transaminasi del de cuius, che sarebbero state normali fino al (OMISSIS), e si ribadisce che il – peraltro denegato – abuso d’alcol del de cuius non avrebbe potuto cagionare un’infezione virale. Si adducono ragioni che avrebbero giustificato la epatomegalia che a diciott’anni egli aveva, e si conclude che il contagio da emotrasfusione sarebbe risultato più probabile che non, integrando così la preponderanza dell’evidenza. La Corte avrebbe invece ritenuto sussistente soltanto la compatibilità causale, ma, discostandosi dalla giurisprudenza (Cass. 17685/2011 e Cass. 24170/2018), non avrebbe esaminato ulteriori fattori causali.

La corte territoriale avrebbe errato altresì nel valutare tutti gli attorei mezzi istruttori, anche presuntivi. Si adduce come gli attuali ricorrenti avrebbero dimostrato il nesso causale tra la trasfusione ed l’infezione, rilevando inoltre che, trattandosi di responsabilità contrattuale, sarebbero state provate dai ricorrenti la causalità materiale e la causalità giuridica con il criterio civilistico di evidenza logico-probabilistica, per cui controparte avrebbe dovuto “fornire le prove per un giudizio controfattuale” ai sensi dell’art. 1218 c.c.; nulla invece controparte avrebbe fornito, e, in particolare, neppure i registri riguardanti le sacche di sangue trasfuso, ove si sarebbero dovuti indicare tutti i test diretti a evitare la trasfusione di sangue infetto. In tal modo il giudice d’appello avrebbe violato l’art. 1218 c.c., non avendo ritenuto che controparte dovesse provare l’esatto adempimento, o comunque provare di avere espletato tutti i necessari controlli all’epoca riconosciuti, elencati nella consulenza tecnica d’ufficio, per di più nulla avendo controparte presentato al consulente stesso, nonostante la sua richiesta. E invece il principio di vicinanza della prova, “giunti a tale momento probatorio”, avrebbe imposto a controparte di produrre copia autentica dei registri delle sacche di sangue, non prodotta però nonostante – si ripete – l’espressa richiesta.

3.2.2 Sub B si denuncia violazione degli artt. 115,116 c.p.c., artt. 2697,2699 e 2700 c.c.

La Corte d’appello avrebbe errato ritenendo dimostrato l’esatto adempimento contrattuale della struttura sanitaria mediante la sola testimonianza di R.P., il responsabile del centro trasfusionale, in mancanza invece di un atto pubblico a fede privilegiata, cioè del registro delle sacche di sangue trasfuse a Mo.Gi.. Viene richiamato il passo della motivazione della sentenza relativo all’elemento soggettivo di assenza di colpa, ove il giudice d’appello si rifà proprio alle dichiarazioni del R. confermanti le note informative sugli esami effettuati, dal R. stesso sottoscritte quale primario del servizio (OMISSIS).

Si richiama infine la giurisprudenza di questa Suprema Corte in ordine alla vicinanza della prova (S.U. 582/2008), per concludere negando che controparte abbia provato “di aver fatto tutti gli esami necessari sulle sacche di sangue da trasfondere”, i documenti da essa prodotti non integrando “la prova dei fatti avvenuti all’epoca della raccolta del sangue trasfuso al Mo.”.

3.3 Il terzo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, nullità della sentenza o del procedimento, nonchè violazione dell’art. 2697 c.c., art. 1176 c.c., comma 2 e art. 1218 c.c.

La Corte d’appello avrebbe omesso l’esame di un fatto decisivo: la mancata produzione dei registri relativi alle sacche di sangue trasfuso. Avrebbe violato l’art. 210 c.p.c. non valutando che controparte, pur richiestale dal consulente tecnico d’ufficio, non aveva prodotto la documentazione attestante gli esami effettuati sul contenuto del sangue da trasfondere, così errando nel ritenere provati tutti i controlli mediante la testimonianza del R.. Difetterebbe motivazione in ordine alla mancata documentazione, e sarebbero violati pure gli artt. 1176 e 1218 c.c. in quanto “gli smarrimenti di documentazione imputabili al medico o alla struttura possono rilevare ai fini del nesso eziologico presunto”.

Il giudice d’appello avrebbe errato altresì nel riparto dell’onere probatorio, e in tal modo avrebbe altresì violato gli artt. 1218 e 1176 c.c.

4. Passando ora al ricorso incidentale della Regione, il suo unico motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, falsa applicazione e violazione dell’art. 92 c.p.c., nonchè, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1917 c.c., comma 3.

La corte territoriale ha rigettato l’appello proposto dalla Regione avverso il rigetto effettuato dal Tribunale della sua domanda di condanna delle compagnie assicuratrici a rifonderle le spese di lite, e ha poi compensato le spese del secondo grado.

In primo grado, la Regione aveva chiesto la vittoria delle spese anche nei confronti delle compagnie assicuratrici e pure per le spese sostenute per difendersi ai sensi dell’art. 1917 c.c., comma 3.

Il Tribunale, pur avendo accolta la domanda di garanzia, affermò non sussistere un titolo, nè negoziale nè legale, per sostenere la domanda di garanzia della Regione nei confronti delle compagnie quanto alla “rifusione delle proprie spese processuali”. Al riguardo la Regione aveva proposto appello (precisamente, il sesto motivo del gravame da essa presentato) per violazione o falsa applicazione dell’art. 1917 c.c., comma 3, adducendo che tale norma pone a carico della compagnia assicuratrice di responsabilità civile i suddetti costi nella misura di un quarto, la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Cass. 3638/2013) avendo riconosciuto che ciò vale comunque, sia che la difesa sia stata rigettata, sia che la difesa sia stata accolta.

Il giudice d’appello ha rigettato la censura affermando che l’estrema complessità del caso giustifica la compensazione per tutte le parti di tutti i gradi di giudizio.

L’atto di citazione davanti al Tribunale fu notificato il 27 ottobre 2003, per cui è applicabile l’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo relativo alle cause avviate anteriormente all’1 marzo 2006, prevedente la compensazione per soccombenza reciproca o per “altri giusti motivi”: potere, questo, discrezionale ma il cui esercizio necessita motivazione. E il giudice d’appello ha motivato sulla “estrema complessità del caso anche per la compresenza di plurimi fattori epatolesivi”, il che però non riguarderebbe il rapporto processuale fra la Regione e le compagnie assicuratrici, e sarebbe inoltre illogico rispetto al rapporto di garanzia; non inciderebbe in ogni caso sull’art. 1917 c.c., comma 3, che è inderogabile ai sensi dell’art. 1932 c.c. e vale anche se la domanda risarcitoria non viene accolta.

La corte territoriale, quindi, compensando le spese di secondo grado tra la Regione e le compagnie assicuratrici avrebbe violato l’art. 1917 c.c., comma 3, e art. 92 c.p.c.; e comunque non si tratterebbe di una “causa di estrema complessità” visti gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio.

5. L’unico motivo del ricorso incidentale proposto da Commercial Union Insurance S.p.A. – ora Aviva Italia S.p.A.-, Assicurazioni Generali S.p.A. – ora Generali Italia S.p.A. -, Assitalia le Assicurazioni d’Italia S.p.A.- ora Generali Italia S.p.A. – e Assimoco S.p.A. denuncia nullità della sentenza, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.: sussisterebbe omessa pronuncia sulla domanda di restituzione delle somme versate dalle compagnie in relazione alla esecutività provvisoria della sentenza di primo grado.

Nella causa n. 2267/2013 R.G. della corte territoriale Generali Italia S.p.A. all’epoca Ina Assitalia S.p.A. -, Generali Italia S.p.A. – all’epoca Assicurazioni Generali S.p.A. -, Unipol Assicurazioni S.p.A. – già Compagnia Assicuratrice Unipol S.p.A. – e Assimoco S.p.A. avevano proposto appello incidentale, in cui, oltre a impetrare il rigetto della domanda attorea, chiedevano che F.M., M.D. e M.G. fossero condannati a restituire quanto pagato in forza della sentenza di primo grado, con gli interessi; e nella causa n. 2314/2013 R.G. della stessa corte territoriale le suddette compagnie avevano proposto appello principale, chiedendo la medesima condanna alla restituzione. Riunite le cause, la domanda venne mantenuta nelle precisate conclusioni per entrambe, ma il giudice d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi al riguardo.

6.1 Esaminando quindi il ricorso principale, si rileva che il primo motivo lamenta il mancato raggiungimento, nella motivazione dell’impugnata sentenza, del minimum costituzionale quanto all’accertamento del nesso causale tra la emotrasfusione e l’epatite C che ha condotto alla morte di Mo.Gi., nesso la cui sussistenza è stata in effetti negata dalla corte territoriale, in difformità rispetto a quanto ritenuto dal primo giudice. L’oggetto del prospettato deficit motivazionale conduce ad esaminare congiuntamente, in parte qua, anche il primo submotivo che il ricorso inserisce nella seconda censura.

6.2 La Corte d’appello ha individuato l’accertamento di tale nesso come ragione più liquida in riferimento a tutti gli appelli che se ne erano lamentati – l’appello principale della Regione Emilia Romagna e l’appello incidentale delle compagnie assicuratrici -, e l’ha affrontato con una concisa motivazione di circa due pagine e mezzo che prende le mosse dall’enunciazione che “il Tribunale non ha correttamente interpretato le valutazioni del C.T.U.”, qui restringendo peraltro la censura alla valutazione che l’ausiliario avrebbe dato sull'”elemento cronologico” (motivazione della sentenza impugnata, pagina 5: “il Tribunale non ha correttamente interpretato le valutazioni del C.T.U. laddove assume che l’elemento cronologico, reputato dal consulente di primaria importanza, confermerebbe il nesso causale stante la durata superiore a 15-180 giorni dell’intervallo temporale tra il momento infettante (emotrasfusione) e sieropositività”).

6.3 E’ opportuno, allora, per meglio comprendere, prima di scendere nell’esame della motivazione sulla base della quale il giudice d’appello perviene alla riforma della sentenza del giudice di prime cure riassumere le argomentazioni sulla base delle quali quest’ultimo ha sostenuto la sussistenza, nel caso in esame, del nesso eziologico tra la trasfusione di sangue e l’epatite C che avrebbe poi cagionato (anche questo viene poi messo in discussione) il decesso del congiunto dei ricorrenti.

Si evince, invero, dal ricorso, formulato in modo correttamente autosufficiente (pagina 13s.), che il Tribunale, dopo avere dato atto di dover applicare la regola della preponderanza dell’evidenza (il più probabile che non), aveva escluso che fossero “emersi validi fattori alternativi di contagio da epatite C”, in particolare reputando che “non può definirsi tale l’appendicectomia a (OMISSIS) nè l’epatomegalia dei (OMISSIS), se si considera che ad esse non erano seguiti ricoveri sino ad arrivare a quello del (OMISSIS), con la conseguente diagnosi di uscita “gastrite erosiva sanguinamento da farmaci – piccola ernia iatale”, dunque priva di ogni riferimento a patologia epatica e con esami ematici del periodo di degenza nei limiti dei valori normali… D’altra parte la derivazione causale dell’infezione dall’emotrasfusione è confermata dall’elemento cronologico, reputato dallo stesso CTU di primaria importanza, e segnatamente dall’intervallo di tempo tra momento infettante (emotrasfusione) e sieropositività, superiore a 15-180…”.

Quindi, lo schema strutturale, per così dire, adottato dal primo giudice per motivare il proprio accertamento era assolutamente chiaro: la preponderanza dell’evidenza sarebbe scaturita, in sostanza, dall’assenza di alternative causali, in quanto i lontani precedenti ospedalieri non risultavano aver avuto nulla a che fare con un’infezione epatica, non essendovi conseguito alcun ricovero ospedaliero fino a quello del (OMISSIS) (si anticipa fin d’ora che l’epatomegalia fu accertata in un ricovero di ben 21 anni prima, cioè del (OMISSIS)), e non essendo neppure attribuibile il ricovero del (OMISSIS), secondo sempre la preponderanza dell’evidenza, ad un problema epatico, poichè ciò non era risultato dalla diagnosi d’uscita nè, tantomeno, dai valori normali attestati dagli esami ematici eseguiti durante il periodo di ricovero.

Naturalmente, allora – si nota per inciso -, non può condividersi l’asserto del giudice d’appello per cui il Tribunale avrebbe male interpretato la consulenza tecnica d’ufficio per affermare che il nesso causale sarebbe stato confermato dall’elemento cronologico, tale elemento venendo identificato dal giudice d’appello proprio nell'”intervallo temporale tra il momento infettante (emotrasfusione) e sieropositività”. Peraltro, quel che deve essere in questa sede vagliato è la presenza o meno del minumum costituzionale di motivazione con cui la corte territoriale dovrebbe aver rivestito la propria decisione, per conferire una congrua trasparenza all’iter accertatorio che ve l’ha condotta.

6.4 Non si può non rammentare, infatti, che la novellazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modifiche in L. 7 agosto 2012, n. 134 nulla incide sul n. 4 dello stesso art. 360, comma 1 il quale, sotto il profilo della motivazione come fonte di nullità della sentenza, si rapporta, in via ontologicamente anteriore all’applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, alla direttamente imperativa norma costituzionale di cui all’art. 111 Cost., comma 6.

Quest’ultimo – “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati” – è di tale assoluta importanza che, prima della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, costituiva l’art. 111, comma 1 in quanto implicita ma inequivoca attestazione della sostanza della funzione giurisdizionale, mai arbitraria ma, al contrario, da espletarsi “in nome del popolo” (art. 101 Cost., comma 1).

E se, dunque, quando l’amministrazione della giustizia consiste esclusivamente nell’applicazione, previa corretta interpretazione, di norme la motivazione non assume – pur dovendo per correttezza sussistere – un’incidenza specifica, perchè vale appunto la esatta applicazione della legge (a sua volta compiuta esercitando sempre un potere conferito dal popolo: art. 101 Cost., comma 1), rilevando il risultato e non il percorso adottato per conseguirlo, (e in questo caso pertanto sul risultato dell’interpretazione e della conseguente applicazione della norma, l’impugnazione deve orientarsi, considerato altresì che, qualora la motivazione non sia corretta ma il risultato lo sia, pure il principio della economia e della ragionevole durata del processo apertamente giustifica la sufficienza della correzione motivazionale da parte del giudice dell’impugnazione, come conferma di recente S.U. 2 febbraio 2017 n. 2731: “La mancanza di motivazione su questioni di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un “error in procedendo”, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto”; sulla stessa linea Cass. sez. L, ord. 1 marzo 2019 n. 6145; sulla non incidenza, in caso di questioni di diritto, dell’eventuale vizio motivazionale, neppure quando la motivazione è qualificabile come apparente, rilevando solo la corretta applicazione da parte del giudice di merito delle norme di diritto, cfr. pure Cass. sez. 2, ord. 13 agosto 2018 n. 20719; Cass. sez. 5, ord. 13 dicembre 2017 n. 29886; Cass. sez. 5, 3 agosto 2016 n. 16157; Cass. sez. 1, 24 giugno 2015 n. 13086; Cass. sez. L, 11 novembre 2014 n. 23989; Cass. sez. 1, 27 dicembre 2013 n. 28663; S.U. 5 novembre 2008 n. 28054; trattasi logicamente di principio generale, relativo anche alla giurisdizione di legittimità in materia penale, come da ultimo è stato confermato da S.U. pen., 16 luglio 2020 n. 29541; e v. pure Cass. pen. sez. 1, 20 maggio 2015 n. 16372 e Cass. pen. sez. 3, 23 ottobre 2014-11 febbraio 2015 n. 6174, Cass. pen. sez. 2, 20 maggio 2010 n. 19696 e Cass. pen. sez. 2, 21 gennaio 2009 n. 3706), nettamente diverso è quando l’accertamento che il giudice deve espletare non è in punto di diritto bensì in punto di fatto. E’ in quest’ultimo caso, allora, che la motivazione “rende conto” al popolo, in nome del quale l’accertamento viene fatto, il corretto esercizio del potere giurisdizionale. La trasparenza è, invero, un valore costituzionale che significa percepibilità dell’iter accertatorio seguito dal giudice: il che a sua volta include da un lato misura e pertinenza adeguate nella illustrazione dell’iter suddetto, e dall’altro quella ineludibile comprensibilità logica che lo deve sempre improntare.

6.5 Dopo gli interventi delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte sugli effetti della novellazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rectius sulla fattispecie di nullità che ancora investe la sentenza per difetto di motivazione, ovvero per violazione del sopra richiamato canone costituzionale (S.U. 7 aprile 2014 n. 8053 e S.U. 3 novembre 2016 n. 22232), le sezioni semplici hanno seguito in modo coerente tale nomofilattica linea interpretativa, nel senso, appunto, che il giudice deve rendere conto in modo effettivo e quindi logicamente comprensibile. Così, tra gli arresti più recenti, si è affermato che il vizio di motivazione previsto dalla fusione ontologica e funzionale del canone costituzionale dell’art. 111 Cost., comma 6, con il precostituzionale dettato dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 sussiste “quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione su un quadro probatorio, nè alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito”, come nel caso in cui circostanze addotte di evidente rilievo vengano in effetti pretermesse (Cass. sez. L, ord. 14 febbraio 2020 n. 3819) dando luogo ad una “motivazione meramente assertiva o riferita solo complessivamente alle produzioni in atti” (Cass. sez. 3, ord. 30 maggio 2019 n. 14762), così da fornire “argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento”, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrare una motivazione siffatta “con le più varie, ipotetiche congetture” (Cass. sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019 n. 13977).

Il concetto di motivazione apparente è stato dunque focalizzato proprio all’antipodo della trasparenza, nel senso che, se la motivazione è meramente assertiva senza che si possano comprendere i fondamenti dell’asserto manifestato, oppure se è assolutamente incomprensibile, anche per la presenza di radicali contraddittorietà, la motivazione in realtà non sussiste, cioè soltanto “appare” schermando un vuoto, perchè ontologicamente contravviene al principio del rendere conto che l’art. 111 statuisce per legittimare il giudice all’accertamento del fatto (cfr. Cass. sez. 3, 12 ottobre 2017 n. 23940, per cui la carenza del minimo costituzionale, che si converte nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e inficia di nullità la sentenza, oltre a consistere nella mancanza materiale della motivazione, ricorre appunto nei casi di “motivazione apparente”, “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e “motivazione perplessa od incomprensibile”, fermo restando naturalmente il vizio presidiato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 attinente al fatto storico discusso e decisivo; e cfr. pure Cass. sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018 n. 22598).

6.6 Inquadrata così la fattispecie in cui deve riconoscersi l’apparenza motivazionale, è ora il caso di raffrontare ad essa la motivazione della sentenza d’appello, per valutare se questa sia o meno viziata in tal modo.

E allora, la Corte d’appello prende le mosse (come già si anticipava) dall’asserto che “il Tribunale non ha correttamente interpretato le valutazioni del C.T.U. laddove assume che l’elemento cronologico, reputato dal consulente di primaria importanza, confermerebbe il nesso causale stante la durata superiore a 15-180 giorni dell’intervallo temporale tra il momento infettante (emotrasfusione) e sieropositività”, in quanto in realtà il consulente tecnico d’ufficio “ha affermato che il dato cronologico è di primaria importanza in quanto consente di escludere con certezza il nesso causale allorquando l’intervallo temporale fra emotrasfusione e sieropositività è inferiore a 15-180 giorni” e, nel caso in esame essendo trascorsi circa sei anni, escluso la possibilità di stabilire il momento dell’infezione (“è possibile unicamente affermare che il Sig. Mo. nel (OMISSIS) era presumibilmente affetto da un’infezione cronica da virus epatico di tipo C ma non è possibile stabilire il momento dell’infezione”). Questo, per così dire, rapido stralcio estratto dalla consulenza tecnica d’ufficio è ictu oculi superfluo se non conduce chi segue l’esternazione motivazionale a comprendere perchè, secondo il consulente, non è possibile stabilire il momento dell’infezione, e parimenti occorre comprendere le ragioni per cui il giudice d’appello lo condivide.

6.7 A questo punto, la corte rileva peraltro che il consulente ritiene non possa escludersi che le emotrasfusioni del (OMISSIS) siano state la causa dell’infezione, segnalando peraltro che “si è espresso in termini di mera “ipotizzabilità” ma non di “probabilità” “. Così si raggiunge il nucleo dell’accertamento del nesso causale, perchè significa esito negativo di tale accertamento, sempre che il giudice aderisca ragionevolmente a una siffatta scelta accertatoria dell’ausiliario. E quindi dovrebbero ora essere indicati gli elementi sulla base dei quali la corte ha costruito logicamente la propria opzione fattuale.

Il consulente tecnico d’ufficio ha segnalato, nota la corte territoriale, che “dalla documentazione medica” (di quale anno e di quale specifica fonte non è dato sapere a chi legge), oltre all’epatite C quale infezione cronica, era avvenuta una “pregressa infezione acuta” di epatite B (il che, ictu oculi, a nulla rileva, non potendosi certo sostenere che il virus dell’epatite B si trasforma poi nel virus dell’epatite C) e che “nel paragrafo anamnestico del (OMISSIS) era stata indicata una epatomegalia di natura non gassosa a (OMISSIS) con l’annotazione in termini interrogativi di epatite virale”, onde, secondo il consulente, “stante il reperto del tutto aspecifico, attestante comunque un ingrandimento del fegato, non si può escludere che l’infezione da HCV si verificò all’età di (OMISSIS), ovvero nel (OMISSIS)”. Anche quest’ultima osservazione, cui evidentemente il giudice d’appello intende già aderire, è del tutto superflua, poichè l’accertamento del nesso causale non ha per oggetto una mera possibilità, nè comunque la sussistenza di una mera possibilità esonera dall’onere accertatorio della sussistenza o meno, nel caso, di una probabilità, la quale, poi, se riscontrata, deve essere vagliata/misurata secondo il noto canone della preponderanza dell’evidenza (il più probabile che non).

6.8 Il giudice d’appello, poi, dopo avere sostanzialmente condiviso la rilevanza che il consulente tecnico ha dato ad una epatomegalia d’ignota causa del (OMISSIS), richiama un altro passo in cui lo stesso consulente segnala che una epatomegalia del (OMISSIS) (“e quindi meno di due anni dopo le trasfusioni”) non è cronologicamente “compatibile unicamente con la cronicizzazione del virus”. Seguendo una simile logica, però, non è molto agevole comprendere come mai, invece, l’epatomegalia del (OMISSIS) ha avuto una portata tale nel ragionamento del giudice d’appello da elidere – come sostanzialmente è avvenuto – ogni significanza delle trasfusioni del (OMISSIS) nell’accertamento dell’origine dell’epatite C.

6.9 Il primo giudice aveva considerato, come già sopra si è visto, quel che era accaduto tra il (OMISSIS) al (OMISSIS), cioè l’assoluta assenza di ricoveri del de cuius. E allora il giudice d’appello richiama che “da ultimo il C.T.U. ha evidenziato la presenza, nella storia personale del Mo., di un rilevante fattore rappresentato dalle consuetudini etiliche che a suo parere “non consente di escludere con certezza o con elevato grado di probabilità una delle due precedenti ipotesi”.

Anche questa osservazione non è comprensibile. E’ notorio, infatti, che l’alcolismo può generare epatite alcolica, non epatite virale, anche se, nei casi di epatite C, aggrava le condizioni del malato. Ma l’oggetto di accertamento in questione sulla base del quale la Corte d’appello costruisce la sua “ragione più liquida” è l’origine dell’epatite C di Mo.Gi.. Quindi, un elemento estraneo alla genesi da accertare, e rilevante soltanto, semmai, quanto alla prosecuzione dei fatti dopo che la genesi è avvenuta, proprio non si comprende come possa condurre a non consentire “di escludere con certezza o con elevato grado di probabilità una delle due precedenti ipotesi”, in quanto qui non sussiste alcuna correlazione/pertinenza logica.

6.10 A questo punto, in cui, come si è visto, il percorso motivazionale ha, per così dire, vagato intorno a elementi privi di alcuna consistenza (una mera “ipotizzabilità”, un’anamnesi senza indicazione di causa risalente a 21 anni prima per cui “non si può escludere ecc.” anche se i 21 anni sono passati senza dare segnale alcuno di epatite, una mera compatibilità nel (OMISSIS), un etilismo che con l’origine dell’epatite non c’entra nulla), la Corte d’appello ritiene di avere compiuto l’accertamento, ma lo manifesta con la frase più oscura/incompleta tra quelle fino ad allora formulate: “Ritiene pertanto la Corte che il C.T.U., pur non avendo potuto escludere (sulla base del dato cronologico rappresentato dall’intervallo temporale tra emotrasfusioni e rilievo della sieropositività) che l’infezione sia stata contratta dal Mo. nel corso delle emotrasfusioni, ha rappresentato una serie di altre possibili cause alternative (desunte dalla anamnesi riportata nella documentazione medica esaminata) assistite dal medesimo grado di probabilità sul piano eziologico”.

Ora, a parte che è la prima volta che la corte territoriale attribuisce “probabilità” agli elementi precedentemente esaminati e sopra riassunti, per cui neppure si comprende come sia stato possibile identificare il grado di queste subitanee probabilità, viene asserito a chi segue l’esternazione motivazionale che è stata rappresentata “una serie di altre possibili cause alternative” (evidentemente, alternative alle emotrasfusioni del (OMISSIS)). Ma, come hanno lamentato i ricorrenti, in effetti “una serie di altre possibili cause alternative” non si comprende da quali elementi sia composta, così incorrendo la corte territoriale in uno dei classici vizi motivazionali sussumibili nel paradigma della motivazione apparente/radicalmente contraddittoria gravando, in ultima analisi, chi deve essere informato dalla motivazione dell’obbligo di concretizzarne il contenuto, cioè imponendogli di “autoinformarsi” (cfr. S.U. 3 novembre 2016 n. 22232 e, da ultimo, Cass. sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019 n. 13977, entrambe già citate).

Alle emotrasfusioni, infatti, viene contrapposta soltanto la epatomegalia del (OMISSIS), e – al più – l’etilismo, il quale ultimo, notoriamente, sarebbe però un fattore privo di pertinenza nella genesi dell’epatite C. E allora, se non si identifica neppure la “serie” delle cause ulteriori rispetto alla emotrasfusione e a quella che, ictu oculi, è soltanto una frase impregnata di dubbio in un’anamnesi di 21 anni prima (la epatomegalia “con l’annotazione in termini interrogativi di epatite virale”: così si legge nella motivazione della sentenza impugnata, pagina 5), è ben difficile comprendere come questa fantasmatica “serie” sia probabilisticamente pari all’emotrasfusione del (OMISSIS) ai fini di generare l’epatite C al de cuius (“una serie di altre possibili cause alternative… assistite dal medesimo grado di probabilità sul piano eziologico”: motivazione, ibidem).

6.11 In tal modo, in ultima analisi, la corte territoriale ritiene di avere esternato un accertamento, mentre, al contrario, ha creato una situazione confusa e non integra nel delineare l’iter accertatorio, che non conferisce all’apparato motivazionale la trasparenza costituzionalmente necessaria; e l’ultima conferma di questa ormai definibile apparenza motivazionale si ravvisa proprio nella liquidazione, per così dire, dell’esito della verifica della commissione medica di cui alla L. n. 210 del 1992: “In base alle considerazioni che precedono deve escludersi ogni rilievo al verbale con esito favorevole della commissione medica ecc.”. Nessuno spazio viene dunque concesso al contenuto di tale verbale, nonostante la tanto confusa quanto radicalmente incompleta illustrazione motivazionale: e, se è vero che il libero convincimento impedisce che un siffatto verbale vincoli l’accertamento del giudice, è tuttavia altrettanto vero che il giudice deve strutturare la propria motivazione in modo completo, chiaro e significativo, non arrestandosi ad un livello di asserzioni non sostenute da dati comprensibili e quindi effettivi, come invece, in conclusione, deve ritenersi che abbia fatto la corte felsinea, aggiungendo poi con rapida e assoluta genericità, tale da generare un mero asserto e non una esternazione motivazionale – si nota oramai ad abundantiam -, l’esclusione del nesso causale con la morte (“… se pure fosse possibile ricondurre alle emotrasfusioni… la presenza dei plurimi fattori epatolesivi indicati dal C.T.U. non consentirebbe comunque, secondo il C.T.U., di individuare le conseguenze dell’infezione e di accertare che il decesso… sia stato causato dell’infezione”).

7. La censura in esame risulta, pertanto, manifestamente infondata, e ciò, assorbite le ulteriori censure del ricorso principale, rende superfluo per assorbimento vagliare pure le doglianze racchiuse nei due ricorsi incidentali, conducendo alla cassazione della sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese, a diversa sezione della medesima corte territoriale.

P.Q.M.

Accogliendo il ricorso principale per quanto di ragione, assorbiti gli ulteriori ricorsi, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese processuali, alla Corte d’appello di Bologna.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 16 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2021

 

 

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