Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12957 del 23/06/2015


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 12957 Anno 2015
Presidente: BUCCIANTE ETTORE
Relatore: ORICCHIO ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 23289-2009 proposto da:
INFANTI CARLA NFNCRL57C45H501X, INFANTI PATRIZIA
NFNPRZ55A47H501X, elettivamente domiciliate in ROMA,
VIA BARNABA TORTOLINI 13, presso lo studio
dell’avvocato GIANGUIDO PORCACCHIA, che le rappresenta
e difende unitamente all’avvocato ORESTE ROSSI;
– ricorrenti –

2015
1262

contro

DI PAOLO FRANZALDO DPLLDA58E01A486C, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIALE MANLIO GELSOMINI 4, presso
lo studio dell’avvocato CARLO ALBERTO TROILI MOLOSSI,

Data pubblicazione: 23/06/2015

che lo rappresenta e difende;
– controricorrente nonchè contro

FONTI RENATO, TATA MARIA GRAZIA;

intimati

di ROMA, depositata il 15/10/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 30/04/2015 dal Consigliere Dott. ANTONIO
ORICCHIO;
udito l’Avvocato Porcacchia Gianguido, difensore dei
ricorrenti che si è riportato alle difese in atti;
udito l’Avvocato TROILI MOLOSSI, difensore del
resistente che si riportato ed ha chiesto il rigetto
del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO CELENTANO che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

avverso la sentenza n. 4082/2008 della CORTE D’APPELLO

Infanti Carla conveniva in giudizio innanzi al Tribunale
di Roma, con atto di citazione dell’aprile 1995, Fonti
Renato, Tata Maria Grazia e Di Paolo Franzaldo.
L’attrice, quale proprietaria dell’appartamento int. 3
dello stabile ubicato in Roma alla via dell’Angeletto n. 3,
ad essa pervenuto per rogito del 15 settembre 1987,
esponeva che, nel 1990, i primi due suddetti convenuti
(già proprietari di appartamento int. 8 nell’adiacente
fabbricato con accesso da via Leonina n. 4) avevano
realizzato, senza il suo consenso, l’apertura di una luce
nel muro comune sul terrazzo di copertura del suddetto
stabile, prima della cessione del loro appartamento al Di
Paolo.
Ritenendo ricorrente l’ipotesi di cui all’art. 903, II co.
c.c., parte attrice chiedeva, quindi, la riduzione in
pristino dello stato dei luoghi con chiusura della luce
indicata.
Costituitosi in giudizio, il Di Paolo contestava l’avversa
domanda, di cui chiedeva il rigetto, asserendo che il
muro ove era stata aperta la luce era di sua proprietà
esclusiva ed, in via riconvenzionale, chiedeva accertarsi
la sussistenza di una servitù di antenna e canna fumaria
gravanti sul terrazzo.
Con sentenza n. 27566/2003 l’adito Tribunale affermava
l’illegittimità dell’apertura della luce, di cui ordinava la
chiusura, e riteneva inammissibili le , domande
riconvenzionali.
Avverso la suddetta decisione interponeva appello il Di
Paolo, chiedendo la riforma dell’impugnata sentenza.
Resistevano al proposto gravame la Infanti Carla, nonché
Infanti Patrizia (nelle more acquirente per donazione
l’immobile della prima).
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CONSIDERATO in FATTO

Si costituivano, inoltre, il Fonti e la Tata aderendo ai
motivi dell’appello principale e svolgendo appello
incidentale relativamente alle spese di lite.
Con sentenza n. 4082/2008 l’adita Corte di Appello di
Roma, valutando l’applicabilità —nella fattispecie- del
l’originaria domanda dell’Infanti, dichiarava cessata la
materia del contendere in ordine alla domanda
riconvenzionale del Di Paolo ed, in accoglimento
dell’appello incidentale, condannava le appellate Infanti
in solido alla refusione delle spese di lite del grado in
favore del Fonti e della Tata, nonché della metà delle
spese nei confronti del Di Paolo, compensandole per la
parte rimanente.
Per la cassazione dell’anzidetta decisione della Corte
territoriale ricorrono Infanti Carla e Patrizia con atto
affidato a quattro articolati motivi.
Resiste con controricorso il Di Paolo.
Hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Infanti Carla e Patrizia.
RITENUTO in DIRITTO
1. Con il primo motivo del ricorso si censura il vizio di
“violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli
artt. 874, 880, 903, II comma c.c. in relazione all’art. 360
n. 3 c.p.c.”.
Il motivo è assistito dalla formulazione, ai sensi dell’art.
233 bis c.p.c, di quesito mirato, in sostanza, alla
affermazione “che la comunione del muro non è cessata

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primo comma del citata art. 903 c.c.- rigettava

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per effetto della demolizione sopravvenuta” con la
conseguenza di dover considerare (a differenza di
quanto invece ritenuto con la sentenza gravata)
illegittima l’apertura della luce per cui è causa sul muro
stesso prospiciente il terrazzo delle ricorrenti.
Il quesito posto a corredo del motivo in esame è
incongruo e non coglie la ratio della decisione
41ou. gravata.
Per tale aspetto il motivo stesso “può ritenersi
accoglibile, anche se corredato da relativo quesito ai
sensi dell’art. 366 bis c.p.c., in quanto si sostanzia in una
“generica istanza di decisione sulla istanza di violazioni
di norme di diritto” (Cass. SS.UU., Sent. 23 settembre
2013 , n. 21672).
In ogni caso la Corte di Appello, con la sentenza oggetto
di impugnazione, ha —con logica e compiuta motivazione
immune da vizi- dato ampiamente conto della ragione
per cui ha ritenuto legittima l’apertura della luce per cui
è causa. E, quindi, perché ha ritenuto, nell’ipotesi,
applicabile il primo comma dell’art. 903 c.c..
Partendo dalla ricostruzione (fin dal 1872) delle vicende
che hanno portato all’originaria e, nel tempo, alla
definitiva edificazione dei due stabili di via Leonina 4
di via dell’Angeletto 3 di Roma, la Corte a quoJnon ha
ritenuto che l’unicità (in origine) del proprietario di
entrambi i suddetti stabili potesse da sola bastare a far
considerare comune il muro.
Più in particolare è stato correttamente ritenuto che
quest’ultimo costituiva “parete strutturale del solo
edificio di via Leonina 4” non avente funzioni rispetto al
lastrico dello stabile (ove è ubicato l’appartamento delle
ricorrenti) di via dell’Angeletto e la “funzione di
sostegno dello stabile di via Leonina” comporta la sua
appartenenza esclusiva a quest’ultimo stabile” non
subendo modificazione alcuna per effetto

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dell’appartenenza alle medesime ricorrenti di terrazzi
aventi funzione di copéfura di entrambi i citati stabili.
Questa è la ratio della decisione gravata, che ha ritenuto
l’applicabilità, in luogo del secondo, del primo comma
dell’art. 903 c.c., in base al quale è consentito all’unico
proprietario del muro di aprire luci senza il consenso del
vicino (risultando, peraltro, che la luce per cui è causa fu
aperta col ricevuto consenso al permesso di apertura da
parte del Condominio di via Leonina).
E questa ratio, peraltro fondata (anche per effetto della
mancanza di domanda aiensi dell’art. 874 c.c.), non è
stata, nella sostanza, neppure attinta col motivo in esame.
Quest’ultimo, quindi, deve ritenersi infondato e, come
tale va rigettato.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si deduce il vizio di
“omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
circa un punto decisivo della controversia” ex art. 360 n.
5 c.p.c..
Il motivo manca della prescritta puntuale indicazione di
uno specifico fatto in ordine al quale si sarebbe
verificata la carenza motivazionale denunciata.
Al riguardo deve ribadirsi che il motivo di ricorso con
cui —ai sensi dell’art. 360, n.5 c.p.c. così come
modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40- si
denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione, deve specificamente indicare il “fatto”
controverso o decisivo in relazione al quale la
motivazione si assume carente, dovendosi intendere per
“fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza,
ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale,
ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo,
impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario
(cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto

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principale), purchè controverso e decisivo” (Cass. civ.,
sez. V, 5 febbraio 2011, n. 2805).
Il motivo è, quindi, inammissibile.
3.- Con il terzo motivo parti ricorrenti lamentano la
“violazione e falsa applicazione dell’art. 901 c.c.,
carenza e contraddittorietà di motivazione su un punto
decisivo della controversia”, ex art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c..
Il motivo vuole contemporaneamente svolgere censure
ai sensi sia del n. 5 che del n. 3 dell’art. 360 c.p.c..
Senonchè quanto al primo aspetto il motivo stesso è
carente in punto di specifica e puntuale indicazione del
fatto decisivo in ordine al quale si sarebbe verificata la
carenza motivazionale pure prospettata.
Al riguardo non po’ che richiamarsi quanto gia innanzi
affermato sub 2..
Quanto, poi, alla censura in punto di violazione e falsa
applicazione dell’art. 901 c.c. il motivo è infondato per
lo stesso ordine di ragioni innanzi già esposte sub 1..
Il motivo deve, quindi, essere rigettato.
4.- Con il quarto motivo del ricorso si prospetta il vizio
di “violazione degli artt. 1032 ss. c.c. e 2733 c.c.,
nonché degli artt. 36, 112, 116 e 229 c.p.c. ;
contraddittorietà e carenza di motivazione su un punto
decisivo della controversia ex art. 360 nn. 3,4 e 5 c.p.c.”.
Il motivo non è ammissibile.
E’, infatti, del tutto carente quanto al necessario e
specifico momento di sintesi prescritto, quanto alla
censura ex n. 5 dell’art. 360 c.p.c., dall’art. 366 bis c.p.c..
Al riguardo non possono che darsi per ripetute le
considerazioni già innanzi svolte in tema.
Quanto alle altre plurime censure svolte col motivo esse
sono incongrue rispetto alla esposta ratio fondativa della
decisione impugnata e mancanti della necessaria

rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento in
favore del controricorrente delle spese del giudizio,
determinate in € 2.200,00, di cui € 200,00 per esborsi,
oltre spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso nella Camera di Consiglio della Seconda
Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione il

formulazione di specifico quesito ai sensi dell’art. 366
bis c.p.c..
5.- Alla stregua di quanto innanzi esposto, affermato e
ritenuto il ricorso deve essere rigettato.
6.- le spese seguono la soccombenza e,per l’effetto, si
determinano così come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte

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