Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12950 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. I, 26/06/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 26/06/2020), n.12950

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LIBERATI Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35758/2018 proposto da:

R.S., elettivamente domiciliato in Roma, via Giacinto Carini,

presso lo studio dell’avvocato Ferdinando Tota, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 5/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/12/2019 dal Cons. Dr. GIOVANNI LIBERATI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Ancona ha respinto la domanda del ricorrente, R.S., nato in Bangladesh, di riconoscimento dello status di rifugiato, in subordine della protezione sussidiaria, in ulteriore subordine della protezione umanitaria, confermando le conclusioni della Commissione territoriale di Ancona di cui al provvedimento notificato al ricorrente il 20 giugno 2018.

Il Tribunale ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, a causa della mancata allegazione della partecipazione del ricorrente ad attività politiche, o della sua appartenenza a una minoranza etnica o religiosa oggetto di persecuzione, o della possibile esposizione a violenze, torture o altre forme di trattamento inumano.

Ha poi escluso la sussistenza dei presupposti anche della protezione sussidiaria, in considerazione della natura strettamente personale e privata della vicenda narrata dal richiedente, che aveva dichiarato di essersi allontanato dal Bangladesh per poter pagare i debiti contratti dalla propria famiglia, evidenziando che lo stesso ricorrente non aveva menzionato il rischio di minacce o persecuzioni legate all’obbligo di estinguere il proprio debito, non ricevute neppure dalla madre del ricorrente, che in precedenza si era trovata in una situazione analoga a quella del figlio; il Tribunale ha, inoltre, sottolineato quanto previsto dalla legislazione bengalese, sin dal 1860 e fino al Bangladesh Debt Settlement Act del 1989 e al Money Court Loan Act, a tutela dei debitori contro la pratica dei tassi usurari.

Infine, ha escluso anche la protezione umanitaria, non ravvisando una condizione di elevata vulnerabilità del ricorrente conseguente al suo rimpatrio, nè aspetti sintomatici di una effettiva e seria integrazione del richiedente nel tessuto socio-economico nazionale, non desumibili dalla promessa di un impiego, peraltro condizionata a favorevoli condizioni di mercato, nè dalla assunzione a tempo ridotto e con una salario mensile di Euro 453, inferiore all’assegno sociale.

2. Il ricorrente chiede la cassazione del decreto del Tribunale di Ancona sulla base di un unico motivo.

3. Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il ricorso è articolato in un unico motivo, mediante il quale si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in riferimento al diniego della protezione umanitaria, cui il Tribunale sarebbe pervenuto senza considerare il periodo di due anni trascorso dal ricorrente in Libia in condizioni di schiavitù, l’aumento dei tassi usurari praticati nel suo paese di origine e la conseguente difficoltà di restituire il prestito ivi contratto, nonchè l’avvenuta integrazione in Italia, dove aveva lavorato e ha imparato la lingua, mentre in caso di ritorno in Bangladesh sarebbe vittima degli usurari, trattandosi di piaga (quella dell’usura) nota e assai diffusa nel Bangladesh, cosicchè la necessità di allontanarsi dal proprio paese per poter guadagnare il denaro necessario per pagare i debiti ivi contratti non poteva essere equiparata alla mera migrazione economica.

5. Osserva il Collegio che i motivi proposti sono inammissibili perchè si risolvono in generiche deduzioni di fatto volte a sollecitare un riesame del merito della vicenda, non consentito in sede di legittimità.

6. Va ricordato che la protezione umanitaria, prevista in generale dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, è un istituto di “protezione complementare”, come tale non direttamente ricompreso nel sistema della protezione internazionale, ma la cui istituzione è autorizzata dalla normativa UE – vedi, in particolare: Considerando 14, direttiva n. 95/2011/U nonchè art. 6, par. 4, della direttiva rimpatri n. 115/2008/CE in base ai quali gli Stati membri sono autorizzati a prevedere in favore dei migranti forme di protezione più favorevoli rispetto a quelle indicate nelle direttive, purchè non incompatibili con esse – che nel nostro ordinamento è stato introdotto dalla L. n. 40 del 1998 il cui contenuto è stato poi trasfuso nel predetto decreto legislativo. Il D.L. n. 113 del 2018 convertito in L. n. 132 del 2018 ne ha profondamente modificato la struttura, ma come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte tale novella, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 con le disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge, quale quella di cui si tratta nel presente giudizio. Secondo la giurisprudenza (vedi spec. Cass., Sez. 1, n. 4455/2018, Rv. 647298), nei “gravi motivi umanitari” contemplati dal citato art. 5, comma 6, sono ricomprese la tutela della salute, l’instabilità politica e sociale nel Paese d’origine, la povertà e l’integrazione sociale. L’inserimento sociale nel Paese, tuttavia, non è da solo sufficiente per giustificare il rilascio del permesso umanitario, essendo necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente, alla luce delle peculiarità della vicenda personale. Nella specie, il Tribunale ha evidenziato il carattere strettamente privato delle ragioni che avevano determinato l’allontanamento del ricorrente dal suo paese di origine e, pur dando atto della diffusione del fenomeno dell’usura in alcune parti del Bangladesh, ha analiticamente evidenziato l’esistenza di un adeguato sistema di tutela giudiziaria nei confronti di tale fenomeno, tale da escludere una situazione di vulnerabilità per il caso di rientro in tale paese, così correttamente escludendo la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione per motivi umanitari, posto che questa non può essere riconosciuta solo in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza. (cfr. Sez. 6, Ordinanza n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648; Sez. 6, Ordinanza n. 9304 del 03/04/2019, Rv. 653700). Inoltre, è stato escluso che il pregresso svolgimento di attività lavorativa e la conoscenza della lingua italiana consentano di ravvisare il requisito della integrazione sul territorio dello Stato, mancando un vincolo familiare.

Le argomentazioni svolte sul punto nel ricorso risultano del tutto generiche e inidonee ad impugnare le suindicate rationes decidendi poste a base della decisione di rigetto de qua, tali rationes decidendi sono pertanto divenute definitive, sicchè in nessun caso se ne può più produrre l’annullamento (vedi, al riguardo: Cass. 7 novembre 2005, n. 21490; Cass. 26 marzo 2010, n. 7375; Cass. 7 settembre 2017, n. 20910; Cass. 3 maggio 2019, n. 11706).

Ne consegue l’inammissibilità dell’unico motivo di ricorso.

7. Non vi è luogo a pronunzia sulle spese, essendo il Ministero dell’Interno rimasto intimato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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