Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12949 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. I, 26/06/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 26/06/2020), n.12949

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LIBERATI Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35696/2018 proposto da:

H.M.T., elettivamente domiciliato in Ancona, corso

Mazzini 100, presso lo studio dell’avvocato Marco Giorgetti, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 8/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/12/2019 dal Cons. Dr. GIOVANNI LIBERATI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Ancona ha respinto la domanda del ricorrente, H.M.T., nato in Pakistan, di riconoscimento dello status di rifugiato, in subordine della protezione sussidiaria, in ulteriore subordine della protezione umanitaria, confermando le conclusioni della Commissione territoriale di Ancona di cui al provvedimento notificato al ricorrente il 5 aprile 2018.

Il Tribunale ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, a causa della mancata allegazione della partecipazione del ricorrente ad attività politiche, o della sua appartenenza a una minoranza etnica o religiosa oggetto di persecuzione, o della possibile esposizione a violenze, torture o altre forme di trattamento inumano.

Ha poi escluso la sussistenza dei presupposti anche della protezione sussidiaria, in considerazione della natura strettamente personale e privata della vicenda narrata dal richiedente e della effettività della protezione da parte delle autorità locali, desumibile dalla circostanza che le forze di polizie erano intervenute per due volte per riappacificare le famiglie in lite (tra cui quella del ricorrente), senza che vi fossero conseguenze pregiudizievoli per il ricorrente.

Infine ha escluso anche la protezione umanitaria, non ravvisando una condizione di elevata vulnerabilità del ricorrente conseguente al suo rimpatrio, non essendo segnalate nel paese di origine compromissioni all’esercizio dei diritti umani, nè aspetti sintomatici di una effettiva e seria integrazione del richiedente nel tessuto socio economico nazionale, ritenendo scarsamente significativa sul punto la mera promessa di un impiego, condizionata alla condotta del ricorrente e alla presenza di favorevoli condizioni di mercato.

2. Il ricorrente chiede la cassazione del decreto del Tribunale di Ancona sulla base di due motivi.

3. Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il ricorso è articolato in due motivi.

4.1. Il ricorrente ha premesso di essere cittadino pachistano di etnia gujjar, proveniente dallo Stato del Punjab, e che assieme a un amico aveva trovato il cadavere del fratello di quest’ultimo; dopo circa due mesi l’amico gli aveva chiesto di dichiarare il falso e di attribuire l’omicidio a determinate persone; a seguito del suo rifiuto l’altro aveva iniziato a calunniarlo e lo aveva investito con un trattore; la polizia aveva quindi tentato di riconciliare le due famiglie di origine, senza però perseguire l’autore del tentato investimento, cosicchè il ricorrente non si era sentito protetto dallo Stato e aveva deciso di espatriare.

Tanto premesso circa la propria vicenda personale, con il primo motivo lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 6 e 7 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, a causa della mancata considerazione da parte del Tribunale della situazione di pericolo in caso di ritorno in Pakistan, dove era stato aggredito da soggetti privati, senza alcun intervento delle forze di polizia locale.

4.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19 e D.P.R. n. 349 del 1999, art. 11, e un vizio della motivazione del provvedimento impugnato, con riferimento al diniego della protezione umanitaria, esclusa in considerazione della situazione del Punjab e della mancanza di un serio processo di integrazione in Italia, pur avendo avuto alcune esperienze lavorative in Italia e acquisito padronanza della lingua italiana.

5. Osserva il Collegio che i motivi proposti sono inammissibili perchè si risolvono in generiche deduzioni di fatto volte a sollecitare un riesame del merito della vicenda, non consentito in sede di legittimità.

6. Quanto al primo motivo, relativo al diniego del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, il Tribunale ha motivatamente escluso, in linea con il dato normativo, la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e della protezione sussidiaria.

Lo status di rifugiato può essere riconosciuto al cittadino straniero che, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi fuori del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole, avvalersi della protezione di tale Paese, oppure, se apolide, che si trovi fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni suindicate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione dallo status di rifugiato specificamente previste (vedi: art. 1 Convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951, ratificata in Italia con la L. 24 luglio 1954, n. 722; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2, lett. e); D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, identifica il danno grave nelle ipotesi a) di condanna a morte o esecuzione della pena di morte, b) di tortura o altra forma di pena o trattamento umano o degradante ai danni del richiedente nel Paese d’origine, c) di minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale secondo cui non sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato (Cass., Sez. 1, n. 11103/2019, Rv. 653465-01 con ampi riferimenti alla giurisprudenza Eurounitaria).

In estrema sintesi, il Tribunale ha ritenuto non fondato, per come rappresentato, il timore della persecuzione personale prospettato dal ricorrente e ha osservato che non erano stati esposti i motivi relativi alla temuta mancanza di protezione nello Stato d’origine; inoltre, ha aggiunto che, sulla base delle ricerche condotte, il Punjab non era un paese afflitto da una violenza indiscriminata, nè da considerare inefficiente dal punto di vista della tutela giudiziaria relativamente a vicende private quale quella narrata, peraltro genericamente, dal ricorrente, sottolineando il duplice intervento delle forze di polizia per appianare le divergenze tra la famiglia del ricorrente e quella del ricorrente.

Va aggiunto che le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, atteso che, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave soltanto se lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro le persecuzioni o i danni gravi suddetti adottando a tutela delle vittime le misure indicate nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6, comma 2, (vedi, fra le tante: Cass. 1 aprile 2019, n. 9043 e Cass. 29 aprile 2020, n. 8367).

Ne consegue, in definitiva, l’inammissibilità delle censure sollevate in ordine al diniego del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, sia perchè formulate in modo generico e assertivo, sia perchè volte a censurare valutazioni di merito, circa l’insussistenza dei presupposti di tali forme di protezione, di cui è stata fornita illustrazione con motivazione sufficiente.

7. Quanto al secondo motivo, va ricordato che la protezione umanitaria, prevista in generale dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, è un istituto di “protezione complementare”, come tale non direttamente ricompreso nel sistema della protezione internazionale, ma la cui istituzione è autorizzata dalla normativa UE – vedi, in particolare: Considerando 14, direttiva n. 95/2011/U nonchè art. 6, par. 4, della direttiva rimpatri n. 115/2008/CE in base ai quali gli Stati membri sono autorizzati a prevedere in favore dei migranti forme di protezione più favorevoli rispetto a quelle indicate nelle direttive, purchè non incompatibili con esse – che nel nostro ordinamento è stato introdotto dalla L. n. 40 del 1998 il cui contenuto è stato poi trasfuso nel predetto Decreto Legislativo. Il D.L. n. 113 del 2018 convertito in L. n. 132 del 2018 ne ha profondamente modificato la struttura, ma come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte tale novella, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 con le disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge, quale quella di cui si tratta nel presente giudizio. Secondo la giurisprudenza (vedi spec. Cass., Sez. 1, n. 4455/2018, Rv. 647298), nei “gravi motivi umanitari” contemplati dal citato art. 5, comma 6, sono ricomprese la tutela della salute, l’instabilità politica e sociale nel Paese d’origine, la povertà e l’integrazione sociale. L’inserimento sociale nel Paese, tuttavia, non è da solo sufficiente per giustificare il rilascio del permesso umanitario, essendo necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente, alla luce delle peculiarità della vicenda personale.

Nella specie, nella decisione di rigetto del permesso per motivi umanitari correttamente si è escluso che l’esistenza di un esperienze lavorative e la frequenza di un corso di lingua italiana possano essere sufficienti per ravvisare il requisito della integrazione sul territorio dello Stato, mancando anche qualsiasi vincolo familiare.

Le argomentazioni svolte sul punto nel ricorso risultano del tutto generiche e inidonee ad impugnare le suindicate rationes decidendi poste a base della decisione di rigetto de qua, tali rationes decidendi sono pertanto divenute definitive, sicchè in nessun caso se ne può più produrre l’annullamento (vedi, al riguardo: Cass. 7 novembre 2005, n. 21490; Cass. 26 marzo 2010, n. 7375; Cass. 7 settembre 2017, n. 20910; Cass. 3 maggio 2019, n. 11706).

Di qui l’inammissibilità del secondo motivo.

8. Non vi è luogo a pronunzia sulle spese, essendo il Ministero dell’Interno rimasto intimato.

Sussistono, infine, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente stesso, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, ove dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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